Tra noi

di Riccardo Meozzi
Copertina: Carlo Magno – Dürer / Antimonio

Le sue mani avevano dita oblunghe e curate, che non facevo altro che confrontare con le mie. Per tutta la mia infanzia mio padre è sempre e solo stato questo: un paio di mani con dita lisce e efficienti, e non una frase o una persona. Mi capitava, quand’eravamo lontani, di provare vertigini se tentavo di ricostruirlo o dargli un volto, e che riuscivo a focalizzarlo, a dire lui è il babbo, soltanto quando rievocavo le sue dita e i loro movimenti.
Le sue mani erano quelle di un impiegato nato contadino. Era bravo nel disegno industriale e con le lettere; da ragazzo aveva provato a scrivere poesie. Oggetti e parole, ecco ciò che le mani di mio padre sapevano creare, le qualifiche che aveva nel mondo. Tutti parlavano di lui in quei termini, e lui d’altra parte esisteva in funzione di quelle mansioni, del modo in cui gli davano da vivere. Aveva quelle mani, oblunghe e curate, e le metteva in risalto lasciandole nude eccetto che per la fede.
Con quelle appendici che invidiavo e che guardavo di straforo mio padre, il sabato, apriva la cassapanca rinverniciata di bianco che avevamo in garage: era un vecchio mobile in legno venti centimetri più alto di me con due piccoli sportelli sulla parte bassa e un altro grande, pesante, che si apriva verso l’alto come una bara. Lui sollevava quell’apertura funeraria e intanto io mi mordicchiavo, ritmico e angosciante, le labbra. Per qualche secondo frugava nel corpo del mobile, la faccia rivolta al soffitto, e poi, vittorioso, ne traeva fuori due custodie di finta pelle.
Quale vuoi, mi chiedeva, quella di Federer o quella di Nadal?
Era sempre la stessa domanda, posta per la prima volta quando lo spagnolo aveva vinto il Roland Garros nel 2005 e da lì in poi sempre ripetuta.
Qual è di Nadal?
Quella corta.
Allora allungavo la mano verso la racchetta, la mia mano con attaccate dita infantili e cicciotte che, a dodici anni, facevano una certa impressione perfino a me mentre lui, muto, mi osservava. Ma poco prima che la mia mano si stringesse intorno al manico lui si metteva le due custodie sottobraccio e si incamminava verso l’auto.
Adesso vieni, diceva, facciamo qualche prova là al campo e poi vediamo come va. E poi, cristiddio, è possibile che non ti ricordi qual è la racchetta di Nadal?
I nomi dei giocatori e le loro racchette io però li conoscevo; era lui, con quel gesto di frugare dentro il corpo del mobile, a farmeli scordare. Li avevo imparati vedendo i tornei in tv con lui, che guardava il tennis come io, fino a qualche anno prima, avrei voluto guardare i cartoni animati, che però mi erano concessi solo dalle cinque alle sette. Mio padre invece guardava tutta la tv che voleva, ma solo se trasmettevano qualcosa che riguardava il tennis. C’era un canale, il settantasei, che mandava in onda vecchi match e che lui adorava: avrà visto le stesse partite un numero di volte che ho paura a quantificare.
Io quei match non li avrei mai volute guardare. Era lui, quando mi vedeva uscire dalla cucina diretto in camera mia, a chiedermi se volessi sedermi. Se però non rispondevo o anche solo tardavo a farlo, con calma mi spiegava che era buona cosa seguire uno sport e appassionarsene, che non c’era niente di meglio per formare la disciplina e raggiungere i propri obbiettivi. Usava parole caute e docili e un tono flebile che ammetteva – a patto di essere un minimo accondiscendente – perfino delle repliche. Io però a ribattere non riuscivo, e nel migliore dei casi mi sedevo senza aprire bocca. Cercavo di concentrarmi sulla partita mettendoci tutto me stesso, ma il silenzio che c’era fra uno scambio e l’altro e la voce inglese dell’arbitro mi facevano venire sonno o mi estraniavano. Mio padre, come se più che alla partita stesse prestando attenzione a me, se ne accorgeva subito. Il primo rimprovero era bonario e sempre uguale: dovevo cercare di seguire, altrimenti non sarei mai migliorato. Ma se la mia disattenzione proseguiva allora, risentito, mi diceva che tanto valeva andassi in camera a leggere o fuori, in giardino, a esercitarmi lanciando la palla contro il muro di casa cercando di colpirla di dritto. Questo, però, avveniva solo quando mi lasciavo convincere e mi sedevo.
Le altre volte, quando mi mostravo riottoso o inventavo scuse, il suo tono smetteva di essere flebile e virava sull’aggressività. Non mi prendeva a male parole né alzava la voce, soltanto provava a fare leva su di me, sul mio atteggiamento e sul mio corpo. Sosteneva che non era normale che odiassi tutti gli sport, e che così facendo i miei coetanei avrebbero di sicuro continuato a mettermi i piedi in testa sia nei giochi che a scuola. Sciorinava poi una serie di rimproveri sul cattivo fisico che avrei sviluppato e sull’atteggiamento sbagliato che avrei avuto nei confronti dei problemi adulti, quelli veri. Mi diceva, alzando la voce ma senza mai scavallare nell’urlo, che gli altri mi avrebbero superato, e che senza sport non avrei conosciuto l’importanza di seguire delle regole e che tutto, nella mia esistenza, sarebbe andato a scatafascio.
Quei rimproveri erano coltelli che mi piovevano addosso. Mi svincolavo dalle sue parole e andavo in camera, dove mi mettevo a leggere e ogni tre per due buttavo un occhio alla porta sperando che non venisse a cercarmi. Le sue parole erano vere e per questo mi facevano paura, ma al contempo non volevo che quella verità mi franasse addosso. Mio padre avrebbe dovuto proteggermi, avrebbe dovuto insegnarmi come ci si difende dai mostri, e non gettarmi fra le loro fauci. E più ci pensavo, più pensavo a ciò che avrei voluto fosse e facesse, più lui si sgretolava. Per ricostruirlo, per restituirlo alla realtà, tentavo allora di ricordare come si muoveva e le cose che diceva, ma non riuscivo mai ad afferrarlo del tutto fino a che non richiamavo l’immagine delle sue mani e delle sue dita; solo loro mi davano l’impressione di vederlo davvero e di riaverlo indietro, e dopo un paio d’ore tornavo di là a cercarlo.
Quasi sempre lo trovavo con in mano la sporta della spesa. Mi sorrideva. Io, stregato, gli sorridevo di rimando. Poi, forse dimentico del litigio e delle proprie parole, mi chiedeva di accompagnarlo al supermercato e di aiutarlo a scegliere la cena. Protendeva la mano destra verso di me e io, sebbene avessi quasi tredici anni, non potevo fare a meno di farmi stringere dalle sue dita e di ritrovarmi, ancora una volta, nella sua mano.

Parte #2

Carlo Magno – Non è tutto oro quello che luccica, non è tutto giallo il grano – Marta Di Giovanni

Il campo dove andavamo a giocare non era quello del circolo cittadino. Il noleggio a ore là costava moltissimo, ma non penso che mio padre lo evitasse per un discorso economico; credo che lo detestasse perché non gli piaceva incontrare i clienti abituali, avvocati e professionisti che si trasmettevano il mestiere di generazione in generazione e che, immagino, non potevano fare a meno di guardarlo di traverso.
A quello del circolo mio padre preferiva un campo privato nel suo paese natale, distante qualche chilometro dal nostro quartiere. La proprietaria era una vedova settantenne che aveva così tanto timore di morire da non uscire quasi mai di casa e che interloquiva con noi affacciandosi dalla finestra del suo villino, separato dal campo da un piccolo stradello asfaltato. La vecchia si ricordava di mio padre da bambino, e così ci permetteva di giocare un paio d’ore a prezzi ridicoli. La pagavamo in anticipo. Le passavamo i soldi attraverso la finestra, e lei ci ringraziava tirandoci un bacio che mio padre faceva finta di afferrare.
L’altro motivo per cui mio padre preferiva il campo della vedova era la sua vicinanza al Tevere. Lo diceva sempre, e quando il vento tirava dalla direzione giusta arrivava dall’alveo una frescura fluviale; mio padre, sentendola, si rilassava e si muoveva sulle punte dei piedi quasi come se stesse ballando e quando sbagliava – evento raro – addirittura ne rideva sopra. Tutta quell’ilarità veniva, secondo me, dal fatto che ci trovassimo nel suo paese natale, luogo che non visitava molto spesso e di cui non riusciva a parlare senza innervosirsi. In quei momenti però stringeva la racchetta e aveva la faccia di chi è in pace: poco gli importava del resto.
Io, dall’altra parte del campo, crepavo d’inadeguatezza, a partire dall’abbigliamento. Non ero mai vestito come dovevo, e mi sembrava che i pochi abiti sportivi che possedevo fossero troppo infantili; le mie tute erano in cotone o acetato e variavano dal viola scuro quasi nero al rosso acceso. Me le comprava mia madre per le ore di ginnastica a scuola sostenendo il mantra del bucato e della durata. Al contrario mio padre, di fronte a me, indossava comodi pantaloncini in tessuto sintetico, scarpe adeguate e una maglietta traspirante. Era perfetto, nell’abbigliamento come nel corpo – corpo che non avevo quasi mai l’occasione di vedere.
Mi aveva cresciuto nel pudore e nel rispetto degli spazi altrui. Da bambino mi aveva presto insegnato a lavarmi da solo e a non entrare in bagno quando occupato da lui o da mia madre. Erano loro, al massimo, a conoscere la mia nudità, ma per il semplice fatto di essere i miei genitori, e non per rilassatezza o intimità domestica. Il corpo di mio padre era, nella mia immaginazione, composto soltanto dai vestiti che indossava tutti i giorni, completo e camicia per il lavoro e calze quasi sempre lunghe, anche d’estate, quando andavamo in aeroporto e doveva difendere i piedi dall’aria condizionata, male immondo che poteva fargli venire il raffreddore. Era sempre vestito per il proprio ruolo e soltanto nelle sere d’inverno, a volte, indossava una tuta, che ai miei occhi era comunque molto più elegante delle mie. Era color grigio pallido senza elastici alle caviglie e con un piccolo logo appeso alla cerniera; si trattava di un abbigliamento da riposo vietato in tutte le altre occasioni, e mi pare che quella tuta esista ancora da qualche parte, forse in un armadio oppure in cantina. Essere lì con lui, nel campo, mi permetteva però d’intuire com’era fatto.
Era alto, e a poco più di quarant’anni del tutto sprovvisto dalla tipica pancia che vedevo negli uomini della sua età. La sua magrezza non era però né trasandata né imposta dal lavoro stressante: era slanciata e sobria. Non aveva problemi di salute cronici, al massimo era insofferente nei confronti della febbre e del raffreddore, anche se da giovane aveva avuto una bruttissima polmonite e si era distrutto entrambi i crociati sciando.
Io sognavo di diventare come lui. Ero anch’io alto e piuttosto in forma, ma non come lui, e quindi non quanto avrei voluto. Mi angosciava, soprattutto, la mia finta magrezza: vestito ero davvero magro, molto più di certi ragazzini che si imbottivano di coca cola e merendine, ma nudo, davanti allo specchio, non avevo mezzo muscolo e la pelle sembrava cascarmi di dosso. Quando afferravo la mia carne non lo facevo mai con modi gentili, no; la dimenavo, le tiravo degli schiaffetti e l’allungavo cercando di capire quanta ne avrei dovuta tagliare per ottenere una magrezza degna di essere chiamata tale. E poi, guardandomi, non potevo fare a meno di ricordarmi che, a quasi tredici anni, ero ancora un bambino, che la cosa che avevo fra le gambe non poteva darmi il piacere e la forza di cui, intorno a me, alcuni miei coetanei già discutevano. Non avevo peli, mio padre invece sì. Non avevo muscoli, mio padre invece sì. Non avevo altezza né magrezza, mio padre invece sì, entrambe, e molte donne per questo lo trovavano così attraente da non poter fare a meno di confessarlo a mia madre, che ridacchiava portandosi il bicchiere alle labbra.

Parte #3

L’hombre vertical – Julio Armenante

Al campo seguivamo ogni volta il medesimo rituale: lui entrava per primo, prendeva posto, e iniziava a far roteare le braccia, prima una e poi l’altra, dopodiché afferrava la racchetta con la mano destra mentre con la sinistra si infilava le palline gialle nelle tasche dei pantaloncini. Io entravo dopo di lui e mi piazzavo sulla linea di fondo dando la fronte al Tevere. Non compivo alcun movimento né mi riscaldavo; ero già sudato in auto, quando lui guidava e mi diceva che ci sarebbe stato da sgobbare più del solito. A volte, se proprio era una giornata infelice, mi rimproverava di non avere abbastanza voglia e mi incitava a fare un po’ di circonduzioni come lui o, se proprio avevo la faccia stravolta, di fare una cinquantina di addominali per scaldare l’addome e poter così rispondere meglio ai colpi. Le altre volte invece, quando era una buona giornata ed entrambi eravamo di umore discreto, si limitava a sbuffare e a dirmi di stare attento e di non esagerare con gli scatti.
Poi batteva la prima palla.
La lanciava in alto con la sinistra e la guardava salire, e quando arrivava a un’altezza soddisfacente la colpiva con la minima forza necessaria a mandarla dalla mia parte. Quella prima battuta era sempre – sempre – un ace secco, un punto pulito e senza contatti, né con la rete, né con la mia racchetta, né con il mio corpo. La colpa della sua ineluttabilità era tutta mia, mia soltanto. Era mio il corpo incapace di muoversi verso la traiettoria della pallina, miei gli occhi che la osservavano attraversare l’aria, mia la lingua che bagnava le labbra quando colpiva il terreno e decretava la fine dell’azione. Era mia la colpa, non di mio padre e della sua bravura, non delle regole del tennis, e per quanto mi sforzassi di attribuirla a qualcun altro la colpa mi restava appiccicata addosso e si condensava in grosse gocce che, da quel momento in poi, mi avrebbero solcato la schiena partendo dalla base del collo.
Lui, invece, che quel primo punto fosse sempre uguale sia nel tempo che nello spazio, non sembrava farci caso. Alzava le spalle e le riabbassava tenendo in mano un’altra pallina: forza, mi diceva, ora quest’altra meglio, eh. Tirava ancora, e io, che non mi ero riavuto, scattavo a tutta velocità e quasi caracollavo per terra nel tentativo di rispondere, tentativo che per altro riusciva quasi sempre, seppur fiacco e maldestro. La palla tornava di là e lui rispondeva con calma, lusso che io non potevo permettermi: mi ero rimesso in piedi a fatica, già vinto dalla stanchezza, e correvo incontro alla palla osservandola toccare terra e rotolare un po’ più in là.
Questo era il tono dei primi scambi: un tocco mio e due di mio padre, sempre così per tre o quattro volte, fino a quando lui non sbottava e mi diceva di prestare più attenzione, di muovermi meglio, di non lanciarmi sulla palla e di tenere il braccio rigido, di non muovere il polso, di ruotare il bacino e colpire, di prevedere dove lui avrebbe mandato la palla, e – quando era una giornata fortunata – di bere un goccio d’acqua e fare una pausa.
Durante il tempo di riposo non mi parlava. Prendeva dallo zaino una bottiglia d’acqua e, dopo essersela portata alle labbra, si riempiva la bocca. Però non beveva mai; sputava l’acqua per terra. Poi si asciugava la bocca con il dorso della mano e, senza guardarmi, mi allungava la bottiglia. Io la portavo alle labbra e mi imponevo di fare come lui, di sentire la frescura dell’acqua senza berla, ma appena il liquido mi congelava le gengive e dilagava sul fondo del palato non potevo far altro che mandare indietro la testa e inghiottire. La sensazione di benessere e ristoro era immediata, favolosa, ma veniva subito divorata dalla premonizione che di lì a poco, quando avremmo ripreso a giocare, la milza mi si sarebbe contratta dallo sforzo.
Tornavamo in campo. La seconda parte dei nostri incontri consisteva in un allenamento perenne: mio padre mi insegnava, mi guidava, e io, muto e accondiscendente, imparavo, o per essere più preciso inseguivo i suoi insegnamenti allontanandomi ogni giorno di più dalla bravura. Si limitava a indicarmi i movimenti e le situazioni in cui metterli in pratica. Mi chiedeva di stare sempre sul chi vive, con le gambe leggermente più larghe delle spalle e il peso spostato di poco in avanti, di piegarmi sulle ginocchia e di tenere gli occhi sul mio avversario. Questo, mi spiegava, serviva a muoversi in fretta nel campo e aumentare la velocità di scatto in avanti e ai lati, punti molto vulnerabili in qualsiasi tennista. La cosa più importante era però non voltare mai le spalle all’avversario, nemmeno in casi disperati. Era come predare e essere predati, mi diceva, davanti ti puoi difendere, dietro no, e se dai le spalle a qualcuno allora non farai altro che invogliarlo ad attaccarti con più forza, scelta che porta sempre alla morte.
Le spiegazioni successive di solito riguardavano come rispondere. Il segreto era nello scegliere il colpo adatto alla palla che ti veniva mandata contro e agire mescolando impulso e tecnica. Dritto. Rovescio. Battuta. Volée. Questi i miei colpi, queste le armi per difendermi dagli attacchi. In generale, proseguiva mio padre, l’importante era comprendere che non era il polso a dover lavorare ma l’intero corpo, in una coordinazione così precisa da trasformare le articolazioni in un unico blocco. Dovevo avere una buona posizione, essere sicuro ma flessibile e infine muovere il tronco sfruttando lo slancio delle gambe senza mai imprimere più forza del dovuto o chiudere il braccio su di me. In questo modo non correvo il rischio di farmi portare via dal colpo avversario né di rispondere in modo fiacco. Dovevo rimanere padrone di me e della mia forza e di tutti i miei movimenti, sincronizzandoli in un’unica e armoniosa azione che mi avrebbe dato il punto e quindi, un passo alla volta, la vittoria. Se fossi stato bravo, inoltre, la forza sarebbe passata in secondo piano e avrei vinto sfruttando strategia e resistenza.
Io volevo essere bravo. Applicavo alle sue lezioni la stessa attenzione che usavo a scuola e che mi fruttava tante lodi, ma in mezzo al campo la realtà sfracellava le mie conoscenze: le palle erano troppo veloci e io troppo lento; i miei colpi erano deboli e di polso; la mia postura non era corretta; il mio cervello non riusciva a sincronizzare le mie membra. E così fallivo, o se progredivo era soltanto per un guizzo di fortuna o per un tipo di concentrazione che non sono mai stato bravo a mantenere.
A fine partita poi mio padre mi ribadiva un’ultima cosa. Vicini, sulla panchina, con lo zaino pronto, mi mostrava la sua mano destra. Serrava le dita l’una accanto all’altra, come una spatola, e me l’accostava al viso. Deve essere come uno schiaffo bello teso, diceva, ci devi mettere l’intera spinta del tuo corpo perché se ci metti solo il polso, se lavori solo di quello, ti farai più male tu di quello a cui lo stai dando.
Io, immobile, aspettavo che mi togliesse la mano dal viso e mi dicesse di salire in auto.

Parte #4

Il lato oscuro della forgia – Antimonio

Forse Andrea ci aveva sempre osservato, o forse se ne era accorto per caso, un giorno, guardando fuori dalla finestra e beccando me e mio padre che, sudati, scendevamo dall’auto di ritorno dal campo. Fatto sta che una sera venne a suonare a casa poco prima di cena. Mia madre, che avrebbe voluto più di un figlio, lo invitò a salire e bere un bicchiere d’acqua e poi, senza consultarsi con mio padre, gli chiese di restare a mangiare. Certo, disse lui, un attimo solo che lo chiedo ai nonni, e corse fuori senza finire di bere.
Andrea passava molto tempo dai nonni, nostri vicini di casa. I due vecchi erano bonari e silenziosi e avevano l’abitudine, ogni sera, di sedersi l’uno di fronte all’altro in veranda e chiacchierare muso a muso, come se fossero a un colloquio di lavoro o si stessero interrogando a vicenda. Avevano la fama di persone gentili ma riservate, e al di là dei pochi convenevoli nessuno era riuscito a entrarci in intimità. All’epoca avevano soltanto due nipoti, Andrea e sua sorella, e li trattavano come piccoli adulti; li consigliavano, più che educarli, e se una richiesta veniva fatta con garbo ed era opportuna, allora non c’era rischio che venisse respinta. Osservavo quel loro modo di fare con una certa ammirazione: per me esisteva un solo modello educativo, modello in cui tutte le decisioni erano in mano ai miei genitori, che distribuivano a loro piacere il bene e il male, il giusto e l’illecito.
Dopo cinque minuti il campanello suonò ancora. Andrea, sorridente e felice, chiese permesso.
Eravamo compagni di classe. Ci eravamo conosciuti a nove anni, in primavera, quando mi aveva visto gironzolare in giardino. Si era avvicinato tenendo un pallone sotto braccio e mi aveva invitato a giocare lì, in mezzo alla strada. Io, paralizzato da quell’evento fuori dal comune, avevo detto di sì cercando di mascherare la mia incapacità sportiva. Stavamo tirando calci da una decina di minuti quando lui se n’era uscito dicendo che il calcio non lo poteva soffrire, che era per gli stupidi; e a te, mi aveva chiesto, il calcio ti piace? Io, da sempre abituato a reprimere il dissenso, avevo invece detto la verità: mi fa schifo, a te per davvero non ti piace? No, aveva ribadito, era la cosa più da coglioni che uno potesse fare, e poi, abbandonando il pallone, iniziò a parlarmi come se dovesse recuperare una conversazione interrotta molto tempo prima.
Più che amici eravamo compagni, non solo di classe ma anche nella vita. Era lui a volere che stessimo così vicini, lui a mettere in piedi l’idea di fare le medie nella stessa sezione, e sempre lui a cercarmi ogni giorno, a ogni ora, per stare insieme. Io subivo quegli assalti senza replicare per la ragione più meschina del mondo: lui riusciva a brillare, a essere popolare e a piacere a chiunque, mentre io venivo introdotto nelle cerchie e piacevo alla gente soltanto grazie al riflesso che lui proiettava su di me. Senza Andrea non avrei mai avuto l’occasione di entrare a scuola a testa alta o di conoscere nuovi amici, e per di più non avrei mai scoperto che c’erano altri modi di guardare le cose all’infuori di quello dei miei genitori.
Ma anche lui, d’altro canto, mi usava. Lo sapevo benissimo, eppure lo lasciavo fare: mi usava per la mia famiglia, per godere della vita domestica che non aveva, alla quale i suoi genitori avevano preferito il lavoro e le conferenze internazionali, e mi usò anche quella sera, quando si sedette a tavola e iniziò a tagliare la fetta di tacchino che aveva nel piatto.
Avete passato una buona giornata?, chiese rivolto ai miei genitori.
Sì, rispose mia madre, faticosa ma buona, sì.
Ah, e che ti hanno combinato?, incalzò lui.
Mio padre bevve facendo rumore e si schiarì la gola; di recente mi ha confessato che c’era qualcosa nel modo in cui il mio amico parlava che lo disturbava.
Niente di che, fece mia madre, solite cose di noi grandi.

Parte #5

La notte eterna – Julio Armenante

Ci domandarono della scuola. Quello era l’unico campo in cui la mia condotta era inappuntabile. Educato, preparato, puntuale, nessuno poteva lamentarsi di me, soprattutto perché aiutavo perfino i miei compagni di classe meno capaci o meno volenterosi – in quest’ultima categoria rientrava anche Andrea. Quel suo atteggiamento mi era incomprensibile: era più sveglio di chiunque altro avessi mai incontrato, conosceva argomenti fuori dal comune e aveva una memoria pazzesca, eppure i suoi voti erano comunque molto più bassi dei miei e veniva trattato con sufficienza dai professori. Però, anche se non lo capivo, non gli chiedevo mai nulla: nei confronti della scuola era totalmente indifferente, e quando eravamo a casa o comunque fuori dalle mura della Dante Alighieri lui non ne parlava mai, come se quella non fosse la sua vita. Io, invece, che soltanto in aula mi sentivo bene, non vedevo l’ora che qualcuno tirasse fuori l’argomento, spendendomi poi in biasimi e lodi verso l’intero corpo docente e le attività proposte, nonché le gite e lo stato di conservazione degli edifici.
Andrea brillava in tutto il resto. Parlandoti riusciva a far uscire il meglio di te. Ti metteva a tuo agio e ti offriva l’occasione di essere importante, di piacergli, di far sì che lui parlasse di te ad altri, e questo, su tutti, aveva come effetto secondario l’assuefazione alla sua figura e alla sua approvazione. Gli adulti si compiacevano dei suoi modi garbati e del suo parlare svelto e intuitivo, mentre noi ragazzi restavamo stupefatti quando imbastiva discorsi complessi e trascinanti. Ma, quando apriva bocca, non lo faceva mai soltanto per darle fiato; non amava parlare per parlare, ma teneva il suo vero intento nascosto sotto la lingua, protetto, fino a quando non era abbastanza sicuro di potertelo inoculare facendolo passare per una tua idea.
Oggi siete tornati tardi, disse sul finire dalla cena rivolgendosi a me e a mio padre, eravate sudati ma sembravate molto felici.
Sì, gli risposi, un sacco sudati.
Ma hai ripreso a giocare a pallavolo?
No, intervenne mio padre, niente pallavolo. L’allenatore era un incompetente e voleva quasi duecento euro al mese.
E a che avete giocato?
A tennis, fece mia madre, ci vanno tutte le settimane.
Tennis? A me piace un sacco il tennis! Mio nonno c’ha una racchetta vecchissima in legno che tiene appesa in garage.
Mio padre alzò lo sguardo dalla lavastoviglie e lo fissò. Io li guardai. Poi, allargando la sua faccia ben sbarbata dal mattino in un sorriso di sorpresa, mio padre gli disse che, se avesse voluto, la settimana successiva sarebbe stato il benvenuto.
Andrea, dritto sulla schiena, mosse la testa su e giù.

Parte #6

Il rito – Julio Armenante

Arrivammo al campo sulla stessa auto, tutti e tre, e scendendo capii subito che l’aria era cambiata: le foglie non scricchiolavano più sotto le mie scarpe ma erano appese, nuove eppure identiche, ai rami, e il vento che saliva dal Tevere non odorava più di marcio ma di fresco, di vegetazione fitta e neonata.
Pensavo che io e mio padre avremmo giocato per primi, ma lui, sfilando la racchetta di Nadal dal fodero la porse ad Andrea e gli disse di entrare in campo. Lo impratichì subito con la postura e con i colpi base, e anche se aveva rallentato il ritmo apposta per insegnargli meglio, Andrea seppe farsi valere. I loro primi scambi arrivarono fino a sette tocchi, uno addirittura fino a dodici, e in paio di occasioni vidi mio padre serrare la mascella e scattare un po’ più tardi del normale. Non l’avevo mai visto concentrarsi in quel modo durante gli allenamenti con me.
Dall’altro lato invece Andrea sembrava non curarsi di nulla. Si atteggiava come se fosse un habitué e perfino nell’abbigliamento era perfetto: pantaloncini corti, maglietta elastica e scarpe da ginnastica con suole piene di gel blu. A me, invece, la tuta in cotone pesante faceva prudere le caviglie e la maglietta della salute si stava già intiepidendo di sudore. Nella testa mi si formò l’immagine di Andrea in un centro commerciale con i genitori mentre gli diceva che aveva assolutamente bisogno di un completo da tennis, uno di quelli fatti bene, e loro due, incapaci di opporglisi, che subito mettevano mano al portafoglio. La scena, mi ripetevo per tranquillizzarmi, era andata di sicuro in quel modo; la presunta meschinità di Andrea era un argine sicuro.
Ma più che sull’azione, i miei occhi tendevano a soffermarsi sul corpo del mio amico. In primo luogo era magro, ma non finto magro come me; lui lo era davvero. Era del tutto sprovvisto di grasso e, che fosse vestito o in costume, la sua pelle si tendeva precisa, come se la forza di gravità fosse troppo debole per attrarla verso il basso. A riposo somigliava a una mummia, ma in movimento era ancora più impressionante: la pelle che sembrava scolpita su misura si torceva senza mai rompersi, e i muscoli sottostanti si contraevano in evoluzioni che non credevo possibili. Andrea era il suo corpo, ne andava così fiero che sfiorava l’esibizionismo, e anche di fronte a mio padre fece di tutto per farsi apprezzare, per far sì che com’era fatto si imponesse sulla scena e strabiliasse tutti.
Iniziai a contare i minuti. Sì, li contavo, perché sapevo che più ne fossero passati più l’interesse di Andrea sarebbe scemato e quindi, di conseguenza, sarebbe diminuita anche la qualità della prestazione fisica e l’effetto che stava avendo su mio padre. In media gli innamoramenti di Andrea per qualcosa duravano una settimana, forse dieci giorni, quindi c’erano buone probabilità che fosse arrivato sul campo un po’ scocciato. Vederlo perdere interesse, annoiarsi, e infine annichilirsi per essere costretto a restare lì con noi fino al punto di spegnersi del tutto o addirittura innervosirsi e fare una scenata era la mia unica speranza.
I minuti però passavano e lui non si placava. Era sudato e il suo corpo si sbatteva di qua e di là e le sue braccia, quando si fermavano, tremavano dallo sforzo, ma la sua bocca da gatto era inarcata in un piccolo, minuscolo, sorriso di puro divertimento, quello che io delle volte agognavo vedere quando provavo a intrattenerlo. Quel sorriso mi si depositò sullo stomaco insieme alla certezza che mio padre stesse faticando e, mescolati, divennero un mal di pancia che mi chiudeva la gola e mi strizzava l’intestino.
All’improvviso poi successe questo: Andrea rispose all’ennesimo colpo morbido di mio padre con una palla più veloce, palla che mio padre riprese di striscio, allungando il braccio oltre il limite. Allora il mio amico – gli lessi la soddisfazione in viso – caricò il dritto con sufficiente anticipo e scagliò la palla oltre la rete, all’incrocio delle linee, poco più indietro di mio padre, dentro il campo.
Il gioco si fermò all’istante: il mio amico sorrise e alzò entrambe le braccia in alto, mentre mio padre si mise la racchetta sotto l’ascella e applaudì. A conferma che stavo osservando la realtà mi pizzicai la carne intorno all’ombelico: il dolore, dentro e fuori di me, era reale. Vidi Andrea venirmi incontro. Mi si piantò di fronte, il suo viso sudato vicinissimo al mio, e mi porse la racchetta.
Tocca a te, disse, vai e fatti valere.
Guardai oltre le sue spalle, dritto verso mio padre. Non riuscii a vederlo in volto: tra noi c’era quel corpo perfetto, quella giocata brillante, e non potevo vedere altro.

Parte #7

Un fantasma – Antimonio

Quella giornata lasciò strascichi soltanto su di me. Per un po’ fui intrattabile, e per tutta la durata del mio malumore evitai di parlare troppo a lungo sia con Andrea che con mio padre, che invece erano molto socievoli. Mi sembravano entrambi colpevoli, ma non sapevo dire se fosse davvero successo qualcosa di sbagliato. A dare ascolto alla mia umiliazione forse sì, ma spesso, come i miei genitori mi avevano fatto notare più e più volte, le mie sensazioni erano fuorvianti. Nel dubbio mi ripromisi che ci sarei riuscito anch’io, che avrei segnato un punto bello come quello di Andrea, e me lo ripetei così a lungo che finii per crederci e gonfiarmi di aspettative. Però, il venerdì successivo, mio padre mi disse di non poter giocare perché aveva una riunione di lavoro ma che, volendo, avrei potuto chiamare il mio amico. Anzi, disse, aspetta che lo sento io che devo chiedere una cosa a suo padre.
Nel tardo pomeriggio mi ritrovai al campo con Andrea. Volevo mostrarmi padrone della situazione, e fin da subito volli che tutto andasse nell’esatta successione delle altre volte; la prima cosa che feci fu porgergli entrambe le racchette e farlo scegliere. Prese quella di Nadal e subito si posizionò nella sua metà di campo. La sua non era una vera scelta, ma somigliava di più a un gesto brusco e impulsivo, quindi nel suo stile. Quell’impressione mi rallegrò: se aveva tenuto il suo solito comportamento allora non era cambiato molto, allora il tennis non gli piaceva davvero, allora presto avrei potuto tornare a essere l’unico allievo di mio padre. Quel che mi sfuggiva era che quel pomeriggio nessuno era allievo di nessuno, ma che eravamo soltanto due ragazzini che stavano per disputare un’amichevole, amichevole in cui Andrea si mostrò così fiacco da non poter tenere il passo con me, che rispetto al solito mi sentivo molto più capace e in forma. Tenni i punti per tutta la partita, e quando alla fine decretai che il vincitore ero io, Andrea spezzò il mio sorriso alzando appena le spalle e dicendo che ero stato davvero molto bravo e che avrei potuto iscrivermi a una scuola seria. Disse anche che, però, quella non era stata una vera partita.
Il suo disinteresse non spense il mio entusiasmo, ma più tardi, tornando a casa in bicicletta, mi convinsi che la settimana precedente aveva lottato contro mio padre soltanto per averne i favori, oppure più semplicemente perché gli andava di dimostrarsi superiore a me anche in quello. Quell’idea mi mise una strana agitazione addosso, l’agitazione del dubbio, e passai altri tre o quattro giorni chiedendomi se fossi stato più bravo io o se lui fosse meno in forma, oppure se davvero avesse voluto far colpo su mio padre. Lo invitai ancora, ma stavolta chiamai anche qualche altro amico d’infanzia, ragazzi che Andrea conosceva poco e che riteneva dei piccoli ingenui. Non gli dissi che li avevo invitati, e quando il venerdì successivo se li ritrovò davanti fece soltanto qualche scambio, poi si rifiutò di proseguire dicendo che si sentiva stanco e se ne stette in disparte per tutta la partita. Chiamai i miei amici altre due volte ancora, e il comportamento di Andrea andò peggiorando: si presentò comunque al campo, ma in tutte e due le occasioni si rifiutò di giocare e se ne stette abbarbicato in cima alla postazione dell’arbitro, da dove parlò a iosa cercando di attirare la nostra attenzione. Come mi aspettavo, dunque, il suo innamoramento per il tennis era svanito, e quando mio padre tornò al campo con noi Andrea fu così fiacco e scoordinato che in breve tempo mio padre si imbarazzò così tanto da consigliargli di andare a riposarsi in panchina. Io, poco dopo, giocai come non avevo mai fatto. Ogni tanto buttavo un occhio su Andrea, che si era steso sulla panchina e guardava in alto, verso le cime degli alberi. Mi sentii felice.

Parte #8

Ritorno a casa – Antimonio

Invitai Andrea un’ultima volta. Voglio batterti a una vera partita, così gli dissi. Lui non fece un frizzo. Giocammo come sempre, io con la racchetta di Federer e lui con quella di Nadal, e, forse sentendo il peso della competizione, si impegnò quasi come si era impegnato la prima volta. Fu una partita accesa, ma lo conoscevo bene e sapevo fin dove il suo corpo poteva spingersi. Così, con la poca esperienza in più che avevo, lo stancai e tenni la maggior parte della mia forza per la fine, quando si concretizzò in un gioco serrato e violento, gioco che mi portò alla vittoria. Era la prima volta che competevo con qualcuno e già vincevo, e quell’aria di baldanza mi riempì i polmoni al punto da farmi venire voglia di giocare un’altra partita. Glielo chiesi, ma non ottenni altro che un assenso stentato e svilito. Il suo atteggiamento mi rinvigorì; lo raggiunsi sulla panchina dove si era seduto e mi misi a raccontargli che ora lo guardavo anch’io il telegiornale sui tennisti e le vecchie partite dei campioni, che c’era un match bellissimo tra Borg e McEnroe che sarebbe piaciuto molto anche lui, che quei due erano grandi campioni e che addirittura Borg si era sposato con la Bertè, capito chi, quella brutta e rincoglionita.
Lui assentì, poi si mise lo zaino sulle ginocchia e vi infilò dentro tutto il braccio spostando lo sguardo su di me. Tirò fuori un piccolo involucro di carta assorbente.
Che roba è?
Le ho rubate a mia zia.
Aprì il pacchetto raffazzonato: sul fondo, un po’ piegate ma integre, c’erano due sigarette.
Ma t’ha visto?
Macché, sennò a st’ora manco ero qui.
Restammo in silenzio. Le ultime gocce di sudore mi scendevano lungo la schiena, dove il vento trasformava l’umido della pelle in uno strato di gelo.
Ho anche l’accendino, disse, quello l’ho trovato in casa.
Non dicemmo altro, soltanto uscimmo dal campo lasciando là i nostri zaini. Dovevamo evitare di farci vedere dalla proprietaria, così raggiungemmo il Tevere e, scendendo verso la riva, ci piazzammo dietro un albero. Io non sentivo più nulla, solo gli occhi mi si muovevano, e colsero Andrea mettersi una sigaretta fra le labbra, accendersela e tirare. Il suo viso divenne rosso e, mentre si sforzava di non tossire, mi allungò l’involucro.
Presi l’altra sigaretta e la guardai a lungo. Poi, senza pensarci oltre, l’accesi e aspirai. Non tossii. Mi piacque, e piacendomi aspirai un altro paio di volte; la sensazione era quella di un dito leggero e sottile che mi si infilava in gola e mi solleticava petto.
Occhio che ti fa venire la nausea, se è la prima.
Non risposi.
Questa per me non è la prima. Ho fumato con Peppe, fece, quello della B.
Di colpo capii perché si era disinteressato al tennis, perché si era mostrato sempre più annoiato, e perché quel giorno avevo vinto: aveva semplicemente trovato una novità più entusiasmante, più all’altezza di sé. Non me la presi, ma fumai in silenzio fino al filtro e poi, sempre senza dire nulla, uscii dalla boscaglia.
La nausea mi prese in quel momento, dall’esofago fino alla testa. Intontito e con gli occhi fuori dalle orbite, m’incamminai verso il campo. Andrea, dietro di me, ogni tanto mi chiedeva se per caso dovessi vomitare.
No, no che non vomito.
E la nausea?
Silenzio.

Parte #9

Ritorno a casa #2 – Sorta di Itaca – Antimonio

Al campo trovammo mio padre. Stava al centro, vicinissimo alla rete, e teneva le braccia incrociate. Ci vide arrivare ma non si mosse, e più noi rallentavamo il passo più lui ci puntava gli occhi addosso. Era vestito da lavoro, ai piedi aveva scarpe nuove. Ci chiese dov’eravamo stati, e mentre Andrea gli spiegava che eravamo andati al Tevere a prendere un po’ di fresco mi fece cenno di avvicinarglisi.

Abituato com’era fin dall’infanzia all’odore di fumo che impregnava le camicie di mio nonno gli bastò che fossi a un metro di distanza per capire. Mi tirò uno schiaffo. Andrea mosse un passo all’indietro, e un altro ancora quando mio padre mi colpì di nuovo.

È la prima e l’ultima volta che fai una roba del genere, disse, e poi come cazzo ti è venuto in mente. Fumare. Cristiddio che idea di merda. Guarda, aggiunse, mi hai anche fatto fare male al polso.

La mia guancia sinistra era come scomparsa. Senza ragionare biascicai qualcosa sul tenere il polso dritto e rigido, come quando si risponde a un colpo con la racchetta. Lui disse qualcos’altro che non afferrai e mi colpì per la terza volta. Mi imposi allora di pensare alle sue dita, a quelle dita e a quelle mani che mi facevano dire lui è il babbo. Ci pensai forte. Non funzionò. Lui rimase lì, a qualche centimetro dai miei occhi, perfettamente identico a come lo potevo vedere.

Col cazzo che torni a giocare a tennis, disse.

Ha mantenuto la parola: non riprendo in mano una racchetta da quel momento né ho rimesso piede su un campo. Nemmeno Andrea, da quel che so, ci è più tornato: l’anno dopo iniziò a seguire corsi di break dance e hip hop, passione che lo prese per molto tempo.

Anche mio padre dopo un po’ smise di giocare. Guarda ancora il telegiornale sui tennisti e ha una collezione di dvd con le migliori partite della storia e a volte, quando passo per casa, gli chiedo come mai non va più al campo lungo il Tevere. Non ne ho voglia, mi dice, mi è passata tutta. E poi non saprei nemmeno con chi, visto che tutti sono invecchiati e hanno problemi alle ossa. Tanto valeva la pena smettere, no?

Non so mai cosa rispondere.

Io, in compenso, mi sono fidanzato con una ragazza che frequenta il circolo cittadino dove mio padre non voleva mettere piede. Quando lei ha una partita io vado al Tevere, passeggio, e non appena trovo un punto in cui la foresta si fa più fitta e i flutti più rumorosi mi fermo e accendo una sigaretta.

A lei, che non mi piaccia il tennis, non gliene frega niente.

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