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L'anatomia del Gray
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 29/09/2021 0 Comments 16 min read
Quarantasette paia di guanti rossi Previous OMG Next

di Marco Simeoni
Copertina: Ottavia Marchiori – Choose your fighter

Non ci si lava la coscienza barattando un tetto sulla testa con l’Anatomia del Gray, convinti che un orfano come Malcom sia destinato comunque a qualcosa di speciale.
Allo stesso prezzo del Gray si rimedia una PlayStation con una sfilza di giochi. E due joystick. Uno per me, uno per Malcom. Giocare, avere scuse per sbirciare le mutandine delle ragazze dell’ala est, adescandole con una partita di The Sims. Essere un punto di riferimento.
Non si dovrebbe regalare un manuale di 2424 pagine, convinti che un ragazzino straniero come Malcom si sarebbe fatto aiutare da Peppe l’inserviente a piazzarlo, e poi dimenticarlo, su una mensola nella sala comune. Dopo essere entrato in possesso dell’Anatomia del Gray, Malcom è filato dritto al dormitorio, l’ha soppesata pronto a divorarla con la torcia sotto le coperte mentre gli altri, protetti dal buio, si masturbano nei calzini.
Una settimana dopo, scendendo a fare colazione, lo abbiamo trovato lì, con il pigiama striminzito e le ciabatte consumate. Risate generali dei più grandi, imbarazzo e respiro di sollievo per gli altri. Quando Malcom confonde il sale con lo zucchero, mentre ripassa a memoria l’indice analitico fino alla SEZIONE 5 del Gray: CINGOLO PETTORALE E ARTO SUPERIORE, lo sollevano di peso dalla sedia.
«Dacci dentro idiota!» È Ciro a gridare. Un righello più alto rispetto a ogni altro orfano dell’istituto, sembra l’unico allevato a super mangime. È lui a detenere il rispetto e a stazionare nei bagni. Nella sua taglia da orco pretende pedaggi. E da Malcom vuole il Gray, forse per ridurlo a galassie di cartoccetti colorati da sputare con la biro. Dal capannello che si è creato durante i minuti di anarchia del cambio turno, vedo spuntare i piedi di Malcom dove dovrebbero esserci i suoi capelli a cactus. «Bevila tutta, bevila tutta, bevila tutta» cantano in coro i grandi. Malcom gorgoglia con la testa nel cesso. Gli mollano le caviglie e si schianta sulle mattonelle schizzate d’urina. Riemerge dalla tazza. Non riusciamo a capire, fradicio com’è, se ha pianto e la delusione di chi è rimasto a guardare è tanta. Trema e ha il broncio. Sussurra: «Livelli eccessivi di ammonio sono tra le diagnosi principali dell’encefalopatia epatica» senza impappinarsi.
Di ritorno dalla mia prima e ultima adozione cilecca, uno sfigato conteso dai servizi sociali, che parlava un misto di italiano e russo mi disse: «Sei forte occhei se non stavi così in kontrast» e io, in quel momento, stazionando sulle scale che dividono i ragazzi secondo fasce d’età, penso sì, per Malcom e quel libro vale lo stesso discorso.
Sono costretto a chiedere in prestito un vocabolario alla signorina Visentin per stare al passo con Malcom. L’edizione è quella dell’82. Una cornice di muffa occupa il bordo pagina.
Malcom, appena ripulito e con l’Anatomia salvata stretta fra le braccia, squadra il mio vocabolario in prestito. Questi erano alberi, vorrei dirgli, invece troviamo un cantuccio per le scope, accendo la lampadina e ci mettiamo al lavoro senza troppe storie.
Il nostro patto si fonda sul reciproco disinteresse per tutto ciò che esula dalla lettura o interessa gli altri. Acciambellati, spaparanzati, mezzi storti o a gambe incrociate, utilizziamo le vecchie tubature arrugginite come leggii. La luce elettrica sul nulla di quella stanzetta dimenticata finalmente termina la sua corsa su qualcosa di nostro, qualcosa di bianco e splendente.
Una fiumana di nuovi arrivi all’orfanotrofio; una caccia allo storpio; una punizione per aver sputato davanti alla direttrice il pasticcio di broccoli; una scartavetrata nelle docce per apparire presentabile alla famiglia di turno; e altre rotture, ci costringono a leggere in solitaria.
In presenza di Ciro il mio linguaggio è tutto un “sì” e un “certo”. La legge dell’orfanotrofio è la legge della giungla. Dopo un pestaggio di Ciro aiuto Malcom a rialzarsi: «È xenofobo» butto là un parolone come esca grazie ai mesi intensivi di testa china sul vocabolario.
Malcom tampona il labbro spaccato. Fa spallucce: «Non c’è nel Gray.» E così giustifica la sua ignoranza e rivendica le sue scelte.
Una mattina, svelto nel rifare il letto, corro in corridoio e passo davanti alla camerata di Malcom. Sudato e in canottiera, sta usando l’Anatomia del Gray come bilanciere. Non ci terrà a bada Ciro, ma lo sguardo è di uno che ci crede.
Porta l’Anatomia anche in giardino, sfidando il brutto tempo: «Pagine satinate. La pioggia le fa il solletico» batte forte sulla copertina.
«È solo un libro, lo sai vero?»
Malcom si irrigidisce e ho un flash del suo corpo che solleva pesi e incassa pugni. Faccio un passo indietro ma lui, invece di azzannarmi alla gola, inclina la testa come in ascolto di un messaggio che per me è solo lo sbattere del vento sulle vetrate. Tempo un niente e da dietro l’angolo spunta Pupù-Leo seguito a ruota dall’ultimo arrivato con la testa rasata.
Il nomignolo Pupù-Leo se l’è meritato dopo il tentativo d’adozione da parte del Re del Compost, che vedevamo ogni tanto nella pubblicità in TV. Aveva puntato Leo in quanto biondo e bello. L’affido? Liscio come l’olio. Poi Leo avrà combinato un guaio; proprio quello per cui il Re del Compost dava di matto, e lo ha riportato all’orfanotrofio. Senza regalo d’addio.
Comunque Leo l’ha superata piuttosto bene: «Vedi che sono di geco?» dice Pupù-Leo indicando delle cacchette secche sul selciato.
«Sono di topo.» L’ultimo arrivato, mantiene il punto. «Ce le giochiamo a testa o croce?»
«Le cacche?»
«Uhm!?» L’ultimo arrivato pare pensarci su. «E’ un doblone spagnolo» dalla tasca tira fuori una moneta «testa ho ragione io, croce, tu. È per chi vince» e lancia la moneta.
Malcom l’afferra al volo, bloccando il pugno serrato sopra le loro teste. «Linfoma Hodgkin. Linfoma non Hodgkin» dice. «La medicina insegna le possibilità di beccarsi pure due croci.» Nel silenzio che segue, il vento ci scompiglia i pensieri e ci gonfia le magliette. Le cacchette rotolano via, mimetizzandosi nell’erba. «Puoi riprenderla» conclude Malcom restituendo la moneta.
Sono il solo a rendermi conto di quanto sia diverso crescere in uno stato di eterna tensione? Certi tipi di pensieri non si trasformano in parole. Frequentando lo stanzone con la scritta BIBLIOTECA sulla porta, i saluti della signorina Visentin sono passati da formali, a cordiali, a sinceri. Probabilmente le raddrizzo la giornata quando riconsegno il vocabolario per riprenotarlo subito dopo. Lei, sorridente, mette su un teatrino e mi propone a stretto giro un altro libro, sapendo benissimo su quale scheda firmerò. Credo si diverta, non so, la scollatura mi distrae.
Scopo dell’orfanotrofio è buttarti fuori. E per riuscirci il primo passo è farti entrare. «È un po’ come se ti devi scopare una per farti un’idea se sei vergine» spiega Ciro una notte, mentre siamo distesi ad altezze differenti sui materassi sottili. Con i bagni deserti, getta via le zanne da orco. Alcuni di noi sono riusciti a oltrepassare la cancellata di ferro. Non è impossibile. Una volta spariti, tra i “rimasti dentro”, si tende a liberare spazio nella memoria subito dopo averlo fatto con l’armadietto e il letto della camerata.
Vale anche per chi ci lavora. C’era stato il signor Bitossi, temuto barbiere volontario dei miei 12/14 anni. Tagliava i capelli nei suoi giorni pre-dialisi e sembravano acconciati con il fil di ferro. Quando impugnava le forbici, ringraziavo lo schienale da giraffa della sedia che mi proteggeva le orecchie dai tagli senza rimedio. Doveva esserci scappato comunque uno sfregiato e risolsero spostando le tosature gratuite del signor Bitossi nei suoi giorni post-dialisi. Le sue dita erano troppo insaccate per maneggiare alcunché ma almeno, da sereno e disintossicato, l’unica cosa che ruppe, durante i nostri successivi incontri, fu il silenzio. Senza che gli venisse chiesto, dai suoi racconti scoprii quanto dietro le vite di inservienti, volontari e dirigenti, ci fosse sempre una famiglia. Il significato di dialisi lo imparai dallo stesso Bitossi. Unendo il filo dei due discorsi, aggiunse: «Ma anche la sofferenza, a forza di starci gomito a gomito, dopo un po’ la consideri una sorella.» Smise di presentarsi per le nostre tosature. Riapparve dopo il trapianto, claudicante: mi confidò, riferendosi alle dialisi, che era sereno e dispiaciuto per aver trovato e perso qualcosa allo stesso tempo.
Tutt’altro impatto ha su di me scoprire la scritta MALCOM grattata via dal suo armadietto, sostituita da PINCOPALLO, il “tuo nuovo migliore amico”, secondo la legge dell’orfanotrofio.
Non odio Malcom per essere stato scelto, lo odio per aver abbandonato il Gray.
Fortuna vuole che la prima e ultima famiglia affidataria, mi abbia regalato un coltello. Sono il solo a valorizzarlo così. Coltellino svizzero viene chiamato dagli altri; come se un diminutivo rendesse la lama meno affilata. Malcom l’aveva chiamato bisturi.
Ho trovato una tecnica per spellare il Gray. Faccio scivolare il coltello lateralmente lungo la costa fino al capitello. Sfilaccio i fili e scalpello via la colla. Le pagine vengono via che è una bellezza. Non ne strappo nessuna. Mi concentro sui nomi. Ripeto il procedimento, il tempo necessario a renderlo un tomo senza passato.
Tengo la mente occupata, così il cuore non può reclamare spazio. Mi convinco che nulla è cambiato. Poi il giorno del gelato settimanale si ricrea quel capannello di ragazzini che solo Malcom è in grado di attirare: mi vengono i brividi.
Il vociare prende a crescere.
«Cos’è andato storto stavolta?»
«Scherzi, ma l’hai visto? Gira con quel libro.»
«Non l’ha portato, mica è scemo!»
Un gruppo di adulti diretto verso l’amministrazione mi spintona. Sconosciuti eleganti, inservienti e direttrice. C’è aria di tempesta.
«Ma cos’ha sulla fronte?»
Malcom è tornato. Sulla fronte ha una macchia da santone incrostata di bianco.
«Malcom ha combinato un guaio» dice Ciro.
«Ha combinato un guaio, un bel guaio!» fa eco il coro.
«NO!» urla così forte che la signorina Visentin corre a vedere. «Ho detto no! Non mi servono!» Malcom sale gli scalini a due a due e si ferma nell’atrio con la mobilia rabberciata «Ho già dei genitori. Sono Mario Castellucci e Carla Palumbo.»
Dopo lo show Ciro ha preso a rispettarlo. Sospetto che sia passato dalla parte di Malcom perché sulla fronte ha visto i segni della lotta. Dalla mia chi ho?
Lo fermo alla fine del corridoio dove la cuoca polacca distribuisce i biscotti secchi. «Chi sono?»
«Ciao Giorgio» mi saluta come se il tempo trascorso separati non fosse esistito.
Stringo i pugni. «Mario. E quella Chiara.»
«Carla.»
«Chissenefrega è uguale! Chi sono?»
«Oh che ti piglia!? Va bene stai calmo. Sono un uomo e una donna.»
«Bugiardo!» Abbasso la voce: «Li hai letti nel Gray. Potrei giurarci. Non sono i tuoi genitori.»
«Potrebbero esserlo. Orfani significa proprio questo. Tu che sei qui dentro da più tempo di me, dovresti saperlo.» E se ne sta lì, con la macchia di bianchetto sulla fronte, con la sua carnagione così sbagliata per questo posto.
Ciro non arriva a picchiarlo. Nessuno lo sgrida. La rabbia defluisce da me come da una camera d’aria squarciata. «Lavati la faccia» gli grido correndo giù per le scale. Dalla dispensa la signorina Visentin resta spiazzata dalla mia sfuriata e svanisce ogni speranza di perdere la verginità con lei.
Le ragazze della terza media sono tremende. Lo sanno tutti. Per dimenticare colui che, secondo Bitossi, è la mia dialisi, dirotto le speranze verso l’ala est. Il piano? Starmene abbracciato a un paio di tette e, appena Malcom fosse comparso, gli avrei sbattuto in faccia che sono cresciuto, non mi serve più stare gomito a gomito con lui. Se fosse servito, avrei tirato fuori il coltello per dare un taglio netto alla nostra amicizia.
Già.
Non mi filano né le inesistenti tette di Mimì/Lulù, né tantomeno Malcom. Solo il risentimento mi fa compagnia, mentre siedo al tavolo in mensa, in classe, in palestra, in giardino o nei turni di pulizie.
Mi decido una notte in cui Ciro è in infermeria dolorante per delle coliche.
L’orfanotrofio è un tetris di piani e stanze, ma sono poche le zone che effettivamente consideriamo “nostro” territorio. E nel nostro territorio ci muoviamo a occhi chiusi, schivando a memoria gli angoli dei mobili. Con il primo salto supero calze, zaini e indumenti piegati a terra, con il secondo piombo sul letto che cigola pericolosamente. L’urlo strozzato di Malcom viene soffocato dalla mia mano premuta sulla sua bocca. A cavalcioni su di lui, i testicoli entrano in contatto con il suo torace puntuto e smagrito.
Sono io a brandire il coltello e a sentirmi minacciato allo stesso tempo. Tra i suoi mugolii insistiti vorrei confidargli Mi sei mancato, mi sentivo perso senza di te, invece dico: «Perché!? Perché sei tornato?» Tolgo la mano.
Un urletto, poi tossisce e deglutisce. «Giorgio?» Si tira su a sedere come quando legge ad alta voce. Nonostante il buio, il frusciare dei suoi movimenti è fluido. Il coltello non gli tagliuzza la faccia. «Mi hanno portato in un appartamento rumoroso. C’erano due anziani; “i nonni” mi dicono. Gli altri nonni sono morti, ma spesso i vicini e altri tizi del quartiere occupavano il salotto e il bagno. Ho dormito sul divano per tre notti di fila. l’odore di persone che si lavano ti tranquillizza. Mi piaceva, ma era transitorio, come un’ischemia.»
Respiriamo, io a bocca aperta.
«Lo togli?» chiede Malcom.
Non “ti togli”. Il coltello resta dov’è. Mi scappa un sorriso nelle tenebre.
Continua comunque. «Passa un mese.»
«Quasi due» preciso.
«Va bene, quasi due. Altro viaggio in macchina, occhi bendati e sorpresa delle sorprese… una casa nuova di zecca. “Quadrilocale” sottolineano orgogliosi. Talmente vuota da sembrare sprecata. Un deserto con sopra un tetto. Entriamo in una stanza. “La tua cameretta” mi dicono. Odorava di vernice fresca. Al posto dei letti a castello c’erano montagne d’aria e pareti libere da poster. Sul cuscino un biglietto di benvenuto. Lo apro e c’è il disegno di un cuore abnorme che copriva metà corpo di un papà e di una mamma.» Malcom gonfia il torace, il coltello mi cade di mano. Al tonfo riprende a parlare. «Li ho guardati e loro sorridevano, allora sono tornato a fissare il cuore e ho pensato: è nella SEZIONE 5 o nella SEZIONE 6 del Gray? Vuoto totale. Ho cominciato a prendere a testate il muro finché non si sono decisi a riportarmi qui. Ho tolto parte dell’intonaco. Ne sono bastate tre, di testate. È una coppia sensibile. Nel bagno usano la carta igienica riciclata.»
Stabilire da quanto avessi fraternizzato con il risentimento è impossibile. Non c’è un indice analitico per l’odio. Ma si possono scorrere velocemente le pagine fino all’epilogo e iniziare a sfogliare un nuovo capitolo.
Attendo pazientemente, giorno dopo giorno, sul divano della direttrice. È ancora meno comodo di quanto sembri a distanza. Si sprofonda su quel divano per due motivi: punizioni o addii. Sostengo lo sguardo spezzato degli occhiali bifocali della direttrice e lei, sistemandosi una ciocca sbiadita di capelli dietro le orecchie, si convince. Solleva la cornetta del telefono e smette di essere rigida.
Un colloquio. Per me. Differenze dal primo e ultimo? Lascio il coltello in custodia a Malcom, per entrare nella saletta con il divano buono e il servizio in porcellana, armato del mio sorriso forzato. Quelli desiderosi di essere i miei genitori si presentano con una stretta di mano e due nomi: Serena e Valerio. Valerio ha un cespuglio di peli sul mento, capelli neri in via d’estinzione e alza e abbassa le sopracciglia a ogni cambiamento d’umore. Gli occhiali sono meno spessi e con il suo fisico non potrebbe contrastare Ciro. Si impegna a prendermi sul serio.
Serena ha un calore nella voce perfetta per la parte di una madre comprensiva, ha le efelidi e i capelli un po’ pazzi alla Malcom. È magra perché non mi ha partorito. Se resto a fissarli, sui loro corpi ritrovo frammenti degli estranei con cui ho vissuto.
Forse dietro la porta origliano. Nonostante tutti i mobili e il muro, riesco comunque a immaginarmeli accalcati come se fossi a un provino. Valerio si accorge che sono distratto e me lo fa pesare. Lo rassicuro. Parlo di molto altro, spinto dalla velocità della lingua e dall’eccitazione. Il mio cervello non riesce a registrare un granché.
Appena la macchina di Valerio e Serena supera la cancellata entra la direttrice. I capelli a cactus di Malcom spuntano da dietro la porta e per un attimo sento Peppe l’inserviente e Ciro insultarsi lungo il corridoio.
«Allora? Com’è andata? Racconta!»
Il ginocchio vibra come un martello pneumatico. La direttrice scambia il mio mutismo da vergogna per ritrosia.
«Giorgio» la voce più tenera stavolta «Non te la senti proprio di chiamarmi Luisa?»
«Ok…» Ci rilassiamo entrambi.
«Raccontami!» La direttrice Luisa torna alla carica «Hai mentito sull’età come farei io ad un primo appuntamento?»
Annuisco e bevo il tè. È freddo ma non lo risputo nella tazza e lo mando giù.
«Non farti pregare! Come ti sembrano?»
«Valerio tifa per me. Pure Serena sembra dalla mia parte, ma in un modo tutto suo. Sono ok.» Muovo le braccia come in acqua e macchio di tè i pantaloni. Spero di aver salvato il divano.
La direttrice Luisa, nel suo completo elegante, evita di sgridarmi o farmi alzare per controllare i cuscini del divano. «Meraviglioso! E tu? Tu li hai impressionati in qualche modo?» La voce rimane tenera.
Alzo le spalle «Mi hanno chiesto dove ho imparato a parlare così bene.»
Gli occhi della direttrice Luisa si infiammano: «E cosa hai risposto?»
Differenze tra gli adulti? Quasi nessuna. Si dimenticano quanto la vita sia complicata già da prima di prendere la patente. Intanto meglio dare alla direttrice Luisa la stessa versione che ho dato a Valerio e Serena: «Da Zanichelli! Ho risposto…»

Anatomia di Gray autori Gray's Anathomy letteratura Marco Simeoni orfanotrofio Ottavia Marchiori Racconti


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