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Attraverso un oceano di sassi
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 15/03/2022 0 Comments 15 min read
Limonə, che quasar aspetti? Previous Once you go Hanging Rock... Next

di Matteo Candeliere
Copertina di Maria Rosa Comparato

I

I bambini fanno lo stesso gioco da quando sono partiti: gli occhi da un lato all’altro dell’orizzonte, si sfidano a chi troverà un ramoscello o un filo d’erba per primo, ma nessuno per il momento si è nemmeno avvicinato a uscirne vincitore.

Camminano per lo più di notte, o in ogni caso mai sotto i raggi del sole. A volte si avventurano alle prime luci dell’alba, quando la tappa si preannuncia più lunga, oppure iniziano a trascinarsi quando ancora il sole non è tramontato del tutto, se il cielo è nuvolo.

«L’importante è non prendersi un’insolazione», li avverte il Traghettatore. Parla a voce alta come se si rivolgesse a tutti, ma con gli occhi guarda soltanto la madre. I bambini sono troppo piccoli per certi discorsi. «Un tipo si è preso un’insolazione, una volta. Uno che portavo di là. Non ce ne si accorge, mi creda. A un certo punto è semplicemente caduto per terra. Così, pum! Come una pera. Se le ricorda, le pere?».

I bambini camminano spediti, all’inizio. Tengono il passo senza correre e senza sprecare più energie di quelle pretese dai loro entusiasmi. I primi giorni giocavano a tirarsi i sassi e si prendevano in giro, ma adesso sono cresciuti. O almeno, la madre pensa che lo siano, perché anche quando sono stanchi non piangono più. Forse hanno capito che non c’è nulla che lei possa fare per consolarli.

«È che, è che siamo tutti talmente stanchi, mentre camminiamo, che uno non se ne accorge, che gli sta per prendere un colpo. Certo, quello lì, quello dell’insolazione intendo, si era messo in testa di muoversi con ancora il sole mezzo alto. La fretta, la fretta è il nemico numero uno, mi creda, Rispettabile Signora. La fretta e la rassegnazione».

Per il buio, sono costretti a muoversi lentamente. Se uno dei viaggiatori dovesse inciampare e slogarsi una caviglia sarebbe un bel problema.

«Con rassegnazione intendo darsi per vinti. Mi guardi. Ho due braccia e due gambe, no? Ho entrambi gli occhi e ancora un po’ di cervello. Ce l’ho sempre fatta, e ce la farò anche con voi. Ma sapesse quante volte ho dovuto perdere tempo a consolare uomini grandi e grossi che si mettevano a piangere una volta arrivati a metà strada».

Una volta Jacopo era caduto e la madre si era messa a gridare.

È troppo stanco? Ha fame? È disidratato? O lo zaino è troppo pesante? È colpa mia, è colpa mia. L’ho perso di vista per star dietro alle chiacchiere del Traghettatore, e adesso è caduto.

Il Traghettatore allora si era fiondato sullo zaino senza nemmeno aiutare il bambino ad alzarsi. «Se la borraccia si fosse aperta», le aveva spiegato, «avreste dovuto dividere il poco d’acqua che è rimasto». Ma la borraccia non si era rotta e la caviglia non si era slogata, e così furono in grado di completare la tappa. Erano partiti soltanto da pochi giorni, i bambini erano molto spaventati e…

«Bene, Rispettabile Signora. La vede, quella sporgenza? Laggiù». La madre si sforza, ma vede soltanto una sagoma nera contro il cielo stellato. «È una grotta. Una volta ci nuotavano i pesci. Là, là. Segua il mio dito. Quello è il posto in cui passeremo la giornata di domani. Di solito ci si dorme il quinto giorno e oggi è il sesto, ma non è un problema. Siamo andati un po’ più piano, ma coi bambini è normale. Davvero, non è un problema».

Sono solo dei bambini. Quando avevo la loro età, mio padre ci portava al ruscello tutte le domeniche. Mettevamo i piedi nell’acqua e gridavamo da quant’era fredda. E guardali adesso, questi bambini.

Qual è la loro colpa?

Qual è la nostra?

Riprendono a camminare, e prima che il sole sorga già sentono il vociare e gli schiamazzi degli altri viaggiatori.

«Ci sono delle altre persone, mamma?».

La mamma passa una mano sui capelli di Tancredi – capelli arruffati, pieni di polvere, su cui neppure una goccia d’acqua mai potrà essere sprecata – e rivolge al Traghettatore la domanda: «ci sono delle altre persone?».

Il cielo ha cominciato a colorarsi di grigio e di azzurro. Il sole lo risale lentamente, un passetto alla volta. Hanno ancora del tempo, prima che inizi a bruciare davvero.

«Rispettabile Signora, il deserto lo vede com’è. Non offre chissà quali ripari. È normale che i viaggiatori approfittino della poca ombra a disposizione. E questa è una tratta molto battuta, lo sa. Lei deve raggiungere suo marito, giusto?».

«Mio marito, sì».

«Ecco. Ma ovviamente c’è chi ha un fratello, una sorella, un padre e una madre, di là dal mare. Alla fine vi siete messi in viaggio tutti per lo stesso motivo».

La donna si fa scudo con le mani – il sole le sta già infilando a forza i raggi negli occhi, sebbene sia ancora basso sull’orizzonte – ma non riesce ancora a vedere null’altro che le luci dei falò.

«Sì, insomma. Non se la mangiano mica, al trading post».

Quanto vorrebbe dirgli di tacere.

II

Ci arrivano nemmeno mezz’ora dopo. I bambini, esausti, senza più la forza nemmeno per parlare, si trascinano ciondolando fino all’ingresso illuminato.

«Non c’è rischio che ci vedano, con tutti questi fuochi?».

«Chi, Rispettabile Signora?».

«Le guardie sulla costa. Di là».

«Le guardie? Oh no, no. Siamo ancora lontani dalla costa. Questo significa che purtroppo dovremmo camminare ancora un bel po’ – gliel’ho detto che siamo in ritardo – ma per lo meno, ecco. Non ci possono vedere».

La madre tiene lo sguardo fisso sui bambini, ma fa in modo di restare indietro di qualche passo per confabulare con il Traghettatore.

«Mi dica, è vero quel che si dice sulle guardie?».

«Mi dica che cos’ha sentito e le dirò se è vero».

«Che se ti prendono ti rimandano indietro con un aereo. E che a volte sparano persino sui viaggiatori. E che…»

Fanno qualche passo e qualche altro ancora, e finalmente arrivano all’ingresso del trading post. È soltanto un grosso telo senza colore, ma per lo meno una volta dentro saranno riparati dal sole.

«Rispettabile Signora, dimentichi questi brutti pensieri e pensi a riposare».

La caverna è spaziosa e colorata di ombre tremule alla luce delle torce. Dentro, ogni anfratto è stato trasformato in una stanzetta affiggendoci semplicemente davanti un lembo di tessuto. Per sdraiarti su quel po’ di paglia che i gestori del trading post hanno gettato sulla sabbia devi pagare quaranta monete. Per riempire le borracce, settantacinque monete. Per un tozzo di pane senza sale, ventidue monete. E ogni volta che paghi devi guardarti intorno come se li avessi rubati, quei soldi, e non devi farti vedere che li metti via, perché qualcuno potrebbe seguirti con gli occhi e seguire i tuoi passi fino al punto in cui ti addormenti, e allora…

«Da questa parte, Rispettabile Signora. Vi porto al refettorio».

Il refettorio è la stanza più grande della grotta, e l’unica in cui la luce del sole, filtrando da alcune cavità sul soffitto, ne illumina l’ambiente. Dentro, decine di persone si ammassano ai tavoli dove viene servito da mangiare e da bere, e urlano per chiamarsi, ognuno nella sua lingua o nel suo dialetto, e litigano per un mezzo pane e per una goccia d’acqua, e si guardano con sospetto gli uni con gli altri come se dietro ogni faccia si nascondesse un assassino.

Gli uomini sono da soli – sono quelli che vanno in avanscoperta, che inviano i soldi a chi resta – e le donne hanno un nugolo di figli smagriti al seguito – sono quelle che ricomporranno i pezzi della famiglia di là dall’oceano di sassi. Non ci sono vecchi. Nessun vecchio resisterebbe alla traversata.

Chi sei, tra tutte queste forme?

Mio marito, mio padre, mio figlio. Da qualche parte, sotto questo sole immobile, risuonano ancora i tuoi passi. Questa strada. Tu l’hai già percorsa.

Cosa hai combinato, per essere rinchiuso qui anche tu?

La madre segue il Traghettatore – non è mai stata tanto felice di averlo con sé come in questo momento – e tiene Tancredi e Jacopo per mano stringendo forte. Sente che se li perdesse di vista sarebbe finita, ma in realtà nessuno sembra badare a loro. Forse siamo troppo magri, pensa. Forse facciamo paura.

«Per il mangiare dobbiamo metterci in coda, Rispettabile Signora. Si paga subito. Si paga qui anche il dormire».

La fila è ordinata ma rumorosa. Di tanto in tanto qualcuno prova a passare davanti a qualcun altro, e spesso dagli alterchi si passa alle mani, e non dovrebbe sorprendere che molti di questi uomini e queste donne tengano un coltello o un coccio di vetro sotto i vestiti.

Il ragazzo davanti a loro si volta a guardarli non appena arrivano. Quando ne incrociano lo sguardo, i bambini fanno un passo indietro e si stringono alle gambe della madre – un movimento talmente coordinato e preciso che non riuscirebbero a riprodurre nemmeno mettendosi d’accordo.

Dato che continua a fissarli, il Traghettatore fa un mezzo inchino e gli dice: «buongiorno, Rispettabile Signore». Ma quello, anziché rispondere, tiene sul volto la stessa smorfia senza espressione. Ha un grosso ematoma attorno all’occhio sinistro, delle bruciature sulla fronte e soltanto pochi denti coraggiosi a resistergli in bocca. Fa in tempo a farfugliare qualcosa in una lingua che né la madre e né i bambini riescono a capire che lo chiamano dal banco con un fischio.

È il suo turno.

«Che cosa gli è successo, mamma?».

Hanno scelto un tavolino attaccato alla parete di roccia, in fondo alla sala. Almeno da lì possono guardarsi intorno.

«Ora mangia, tesoro. Alle domande ci pensiamo poi».

Con gli occhi però la madre chiede al Traghettatore perché così tanti uomini e donne hanno bruciature, ferite da taglio e lividi. Perché tremano, dato che il sole sta ricominciando a bruciare, perché tengono lo sguardo a terra quando qualcuno gli parla, perché alcuni all’improvviso scoppiano a piangere, perché, perché, perché. Il Traghettatore cerca di ignorarla finché può, ma la madre senza aprir bocca continua a interrogarlo.

«Rispettabile Signora, non tutti i traghettatori sono come me. E come vede qui tutto ha un prezzo. E se qualcuno non riesce a pagare, succede che…»

«Lo hanno ridotto così soltanto perché non poteva pagare?». La voce le esce in un sussurro, poi le labbra tornano a serrarsi con forza, come se dire quelle poche parole le fosse costata un’immensa fatica.

Il Traghettatore stacca un pezzo di pane con le dita e in silenzio riprende a mangiare.

I bambini si addormentano mentre la madre li sta ancora aiutando a togliersi di dosso la sabbia, e si sono appena stesi tutti e tre sulle stuoie – vecchie, sgualcite, puzzolenti di piscio – che la tenda della stanza si apre e un uomo sbircia di dentro. Attorno a un occhio ha un ematoma grande come un pugno, e la fronte e le guance sono piene di bruciature di sigaretta, ma soprattutto ha uno sguardo, Gesù, ha uno sguardo che non lascia passare nulla, che risucchia ogni cosa, che è stato ustionato a tal punto da quello che ha visto da non essere più in grado di vedere alcunché.

La madre giunge le mani e con il mento indica Tancredi e Jacopo. Se proprio devi, gli dice, lasciali stare. Se proprio devi, fa’ che nessuno lo sappia mai.

Credevamo di bastare l’uno all’altra, di non avere bisogno di nient’altro per essere felici, ma quando i campi e i torrenti si sono asciugati abbiamo capito che non era vero. Non bastava l’amore, non bastava l’amore. Ci sentimmo illuminati allora, di una nuova e sinistra consapevolezza: per essere felici saremmo dovuti andare altrove, in un continente di là dal mare.

Il primo a partire saresti stato tu. Avresti lavorato per mandarci i soldi necessari a raggiungerti, e nella nostra nuova casa saremmo stati felici. Sì, sarebbe andata così. Ce la siamo ripetuta talmente tante volte, questa storia, che abbiamo iniziato a crederci davvero. Ma quando te ne sei andato, quando io e i bambini siamo rimasti da soli, abbiamo finalmente capito che senza l’amore l’uno dell’altra non saremmo sopravvissuti.

Li svegliano i lunghi trilli dei campanelli e la voce del Traghettatore.

«Rispettabile Signora. Bambini».

Gli occhi della donna si aprono a fatica, come gli occhi di tutti dopo un sonno troppo breve. I bambini, ancora prigionieri nei loro sogni, si agitano sulle stuoie.

«Cos’è tutto questo rumore?», dice.

Cos’è successo, questa notte?, pensa.

I campanelli sono legati gli uni agli altri da lunghi fili di spago intrecciati lungo i soffitti e le pareti della caverna: un capo si perde chissà dove e l’altro è ben saldo nella mano callosa del campanaro, ovvero un cuoco o una guardia cui quella sera è toccata l’incombenza di alzarsi prima degli altri e dare la sveglia.

«Rispettabile Signora, il sole è tramontato. Dobbiamo partire».

È stata colpa mia?

III

Pagano l’ennesima mazzetta a una guardia e sono di nuovo sui sassi, di nuovo sulla strada attraverso il mare. Ora che sono riposati, i bambini tornano a cercare una foglia o una piantina sotto la luce lunare, i loro corpi orfani della stanchezza della notte prima.

La madre si trascina e stringe le labbra per non gridare e gli occhi per non piangere. Sotto le scarpe malconce sente il calore rilasciato nella sera dai sassi, nelle orecchie l’interminabile ronzio della voce del Traghettatore. Come se lo pagasse per parlare anziché per occuparsi di lei e dei bambini. Ora sono in una zona particolarmente arida, le dice. I predoni che battono questa parte del mare – perché sì, Rispettabile Signora, qui abbiamo anche i predoni – ignorano completamente l’esistenza della pioggia. Non sanno che cosa sia. Nella loro lingua non hanno nemmeno una parola per definirla. Hanno quarantatré diverse parole per dire “sasso” e nemmeno una per dire “pioggia”, ci crede? Poi più avanti dobbiamo camminare bassi, perché sa, i predoni. Un’oretta o due e siamo allo scheletro della balena – per i bambini è sempre un momento speciale. Certo, se è ancora lì significa che non vale un bel niente, ma tant’è. In effetti…

«Stia zitto, cazzo!».

Trascorrono un giorno all’ombra di una parete di roccia, con le ginocchia strette per non farsele bruciare, e un’altra sotto un tunnel scavato sotto terra. I bambini si addormentano appena si sdraiano, non importa quanto scomodo o inospitale possa essere il giaciglio. La madre tiene gli occhi aperti a fissare davanti a sé.

«Rispettabile Signora, le posso garantire, le posso giurare che io ho fatto tutto ciò che…»

«Stia zitto, o sveglia i bambini».

«Ma davvero, le dico. Io ero da solo, e quello, quello…»

«Stia zitto, o l’ammazzo».

Capiscono che sono arrivati senza che il Traghettatore apra bocca. Ci sono uccelli nel cielo e cadaveri sui sassi. Nugoli di mosche si accalcano attorno agli occhi dei morti, e sulle loro labbra e alle loro narici.

Alla fine saranno gli insetti a governare il mondo.

La madre vorrebbe impedire a Jacopo e Tancredi di guardare, ma ormai è troppo tardi. Ormai hanno già visto troppe cose.

«Rispettabile Signora…», inizia il Traghettatore, e le fa cenno di abbassarsi, e le mette un binocolo in mano.

La costa è completamente circondata da un reticolo di filo spinato, e il filo spinato è puntellato di torrette. Le guardie si riescono a vedere persino da lì. Con indosso gli occhiali neri per non bruciarsi gli occhi, fanno su e giù dietro il reticolato. Indossano una divisa color cachi manco fossero loro a doversi nascondere e dietro le spalle portano lunghi fucili come fossero loro a doversi difendere.

La madre, sorda ai capricci dei bambini, restituisce il binocolo al suo proprietario. Ha visto troppe cose anche lei. Caccia fuori un respiro e già rabbrividisce al pensiero delle lunghe istruzioni che il Traghettatore dovrà fornirle per aggirare i controlli. Poi una mosca comincia a ronzarle attorno, le si fa sempre più vicino e le si poserebbe sicuramente addosso se lei non la scacciasse con una mano.


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autori Clandestini Deserto Gli Alberi letteratura Maria Rosa Comparato Matteo Candeliere Migrazione Racconti


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