Cinque hamburger
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 18/10/2022 4 Comments 10 min read
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di Caterina Villa
Copertina di Susan Orlok x Midjourney

Il meglio della cucina toscana, Il piccolo libro dei curry, Il talismano della felicità. Li prendo uno dopo l’altro e li infilo nella valigia. Ce ne sono tanti, troppi, ma devono per forza entrarci.

Avevi sempre fame. Era una cosa che non controllavi, ti ci aggrappavi alla fame, come a un salvagente. Negli ultimi giorni mi sono chiesta spesso se la colpa di quello che è successo non sia stata della tua fame. Non te l’ho mai detto, ma me la sono sempre immaginata come una creatura che campeggiava nel tuo stomaco, una bestia capricciosa che reclamava attenzioni. Forse è da lei che è nata anche la tua voglia di scoprire, di scrivere, di inventare mondi. Sì, potrebbe benissimo essere andata così.

Io che mangio solo per sopravvivere, perché dà energia per fare quel che va fatto, non capivo quel piacere che provavi davanti a un piatto mai provato prima, a una ricetta nuova. Ti si illuminavano gli occhi ed eri presente nel momento in un modo in cui la tua testa troppo piena solitamente non ti permetteva di essere.  Non lo capivo ma forse per assurdo ci riesco adesso. E ricordo tante volte in cui la tua fame ci ha fatto litigare, in viaggio quando io volevo continuare a macinare chilometri, ma tu volevi a tutti costi fermarti in quel bar/ristorante/osteria e provare il piatto tipico del posto. Mi faceva uscire di testa e ti insultavo e minacciavo di lasciarti lì, ma alla fine ti seguivo sempre, mi sedevo all’altro capo del tavolo incazzata nera. Non ti parlavo e no grazie non prendo niente, ma poi ti portavano da mangiare e tu sorridevi e io non resistevo mai. Al tuo secondo boccone già ti chiedevo se era buono.

Mi siedo sul trolley, la zip scorre a fatica. Provo a sollevarlo, porca puttana, pesa come un morto. Un po’ lo striscio, un po’ lo tiro giù per le scale. A ogni gradino fa a un fracasso tremendo. Digrigno i denti, si lamentassero i vicini se ne hanno voglia, sto pronta ad accoglierli a dovere.

Negli anni sei ingrassato parecchio, un dilatarsi lento mentre la tua fame si espandeva. Adesso posso ammettere che a volte mi sono chiesta cosa sarebbe successo se i confini del tuo corpo non le fossero bastati più, se si fosse messa a cercare nuovi terreni di conquista. Ora credo di averlo imparato.

Quando ti ho conosciuto non eri ancora grasso grasso, ma era un processo che si era già messo in moto, si intuiva appena sotto la pelle, ai fianchi, nel sottomento. Se dicessi che quel tuo ingrassare non mi ha spiazzato mentirei. Ma tu, che eri sempre così attento anche quando ti si pensava distratto, non mi hai mai detto niente in merito, come se accettassi il mio disagio come un prezzo da pagare. Credo che fossi disposto a farlo perché era stata la fame, non io, a tirarti fuori dal tuo guscio, a farti pubblicare il tuo primo libro, a infilare un impegno dopo l’altro. Era stata la fame a plasmarti. E io correvo dietro a te e alla fame. Ho imparato a cucinare proprio per non rischiare di perderti di vista, di non rimanere oltre l’ultima curva che tu avevi già superato.

Aspetto alla fermata del 29, soffia un vento tiepido, accanto a me un ragazzino ondeggia al suono della musica nelle sue orecchie. Mi sono studiata l’itinerario su Google Maps. Ho 14 fermate fino al capolinea, poi la prima a destra e la terza a sinistra, supero un ponte o un sovrappasso non ho capito e poi sarò arrivata.

A volte ci ho provato a metterti a dieta, ma non ha mai funzionato. Reggevi una settimana, al massimo due, poi iniziavi a infilare qualche sgarro nella tua routine, magari un cornetto quando andavi la mattina in redazione e ti sgamavo sempre perché mettevi le foto su Instagram. Ci vado spesso sul tuo profilo, sai, e ogni volta la data in cui hai postato per l’ultima volta si allontana un po’ di più e mi viene da vomitare. Mangio ancora meno del solito, bevo di più. Scorro all’indietro i tuoi ultimi mesi, i tuoi ultimi anni e riempio gli spazi bianchi tra le fotografie con i momenti che abbiamo passato insieme ma ognuno nella sua bolla, tu che scrivevi e io che preparavo il prossimo servizio da girare, seduti sul divano a guardare e commentare il talk di turno. Parlavamo tanto del mondo, quasi per niente di noi. Eravamo insieme ma lontani. Mi sento in colpa ora, perché non ho saputo prevedere, perché non ho dato retta a quella mia intuizione sulla tua fame che alla fine si è davvero ritrovata troppo stretta e ha cominciato a rosicchiarti dall’interno, metodica, un pezzo alla volta, attenta a non farci accorgere di niente.

C’è odore di sudore e di fumo, mi siedo in fondo, la valigia schiacciata tra le mie ginocchia e il sedile davanti. Due posti più dietro un signore sta parlando da solo, farfuglia di ingiustizie assortite, insulta qualcuno. Prima non facevo caso a questa roba, pensavo ai fatti miei, la testa sulla prossima cosa che dovevo fare. Mi hai insegnato tu a osservare davvero il mondo. Guardo l’orologio. Ancora quaranta minuti.

Il giorno che l’abbiamo scoperto, siamo tornati a casa e ti sei infilato in cucina, io non ho chiesto nulla, mi sono seduta in salotto davanti alla televisione che per una volta era spenta. Era nera come il fondo di un pozzo e dentro c’era la mia siluette. La fissavo e nella testa avevo rumore bianco che saliva e scendeva d’intensità. Dovrà pur essere arrivato qualche odore dalla cucina, ma era come se i miei sensi fossero collassati, come le macerie delle città irachene in televisione, quelle dove per quanto insistessi i miei capi non mi mandavano mai. Sei venuto a chiamarmi tu, mi hai preso per mano e mi hai guidato di là. Avevi preparato il risotto allo zafferano. Mi sono seduta, abbiamo mangiato in silenzio. Tu masticavi con la determinazione di un affamato dopo giorni di digiuno. Ho immaginato fosse perché volevi estrarre tutto il possibile da quei chicchi, dalla forchetta, dalla cucina, dalla vita.

Non ho mai amato il sesso e negli anni man mano che ingrassavi forse anche tu hai perso interesse, fatto sta che non avevamo nemmeno quello per distrarci dopo cena. Ci siamo stesi sopra le coperte, abbracciati. A occhi chiusi ascoltavo i rumori del tuo corpo. Il tuo cuore, i succhi nel tuo stomaco, il tuo respiro. Mi è balenata in testa l’idea di alzarmi e andare in cucina a prendere un coltello, uno di quelli giapponesi che avevi tanto insistito per comprare, e affondartelo nella pancia per tirare fuori quella schifosa bestia ingorda. Invece me ne sono rimasta stesa in silenzio mentre tu ti addormentavi. Nelle orecchie potevo sentire il rumore della tua pelle che si squarciava, del sangue che usciva gorgogliando. Come l’acqua in quell’oasi in Giordania, ti ricordi? Sì, così.

Il trolley mi ballonzola dietro mentre mi avvicino alla meta. Intorno a me i palazzi si sono fatti più alti e più grigi. È molto diverso dalla zona in cui avevi deciso di comprarti casa. Là è pieno di loft e localini per gli aperitivi e pullula di tuoi ex colleghi che cerco di schivare come la peste. Sul parapetto del ponte che scavalla la ferrovia sono appiccicate delle locandine del circo. Mi tasto la tasca del cappotto. Bene, c’è ancora tutto.

A un certo punto hai smesso di mangiare, ho provato a sperticarmi in piatti golosi pescati dai tuoi libri di ricette, ma niente quella schifosa si era saziata in altro modo e aveva chiuso baracca. Hai iniziato a dimagrire, ti si è scavato il viso. Eri tutta un’ombra grigia. Passavi il tempo in cui il dolore era sopportabile seduto alla scrivania a scrivere. Volevi finire a tutti costi il libro a cui stavi lavorando. Io ti incoraggiavo, perché avevo paura dei momenti in cui rimanevi senza far nulla, in cui mi sembrava che ogni cosa che potevamo dire ci avrebbe fatto del male. Poi non ce l’hai fatta più e allora hai preso a dettarmi e io scrivevo, seduta accanto a te sul letto, il tuo corpo che si assottigliava mi faceva tornare in mente le ostie che riponevo per il parroco quando ero bambina e mi avevano costretto a fare il chierichetto.

Scivolo giù per la scarpata, gli stivali imbrattati di fango, le ruote della valigia che fanno saltare le zolle di terra. Arrivo in fondo col fiatone, non c’è nessuno, solo i binari abbandonati. Ormai si sta facendo buio. Sotto il ponte c’è un materasso marcito, sacchi di immondizia sventrati dai cani. Perfetto. Mi inginocchio e apro la valigia.

Quando sei morto sono uscita dalla stanza. Non sapevo cosa farmene del mio corpo, ho vagato per i corridoi dell’ospedale, mi sono arenata in una saletta, le macchinette che sibilavano nella penombra. Era mezzogiorno. Ho pensato che a quell’ora la domenica di solito iniziavi a preparare il pranzo.

Rovescio i libri nel fango, sono tutti così dannatamente colorati e dentro ci sono i segnalibri che hai lasciato tu, gli appunti che hai preso a matita. Personalizzavi ogni ricetta. Sfilo dalla tasca del cappotto la bottiglietta che ho riempito di alcol e i fiammiferi.

Le copertine plastificate schioccano, la fiamma è così forte che mi fa sudare. Resto ferma lì finché mi sembra che non ne sia rimasto nemmeno uno intero. Le ribollite, i tortellini, i lamb rogan josh, tutti in fumo. Come te, come la tua dannata, maledetta, fottuta fame.

Entro inzaccherata di fango e cenere, ma tanto qui nessuno ci fa caso. Mi metto in fila, c’è odore di fritto, le casse spargono su di noi una canzone di Sanremo di cui non ricordo il titolo, anche se tu l’avresti saputo. Ordino cinque hamburger, la ragazza esita un secondo poi batte il prezzo. Non so nemmeno bene cosa ci sia dentro, ho ordinato quelli con i nomi più complicati. Il vassoio è pesante, navigo tra la gente in attesa fino a un tavolo appartato, mi appollaio sullo sgabello. Uno strano uccello del malaugurio, magra, con le occhiaie, impastata di fango. Nelle narici ho ancora l’odore della carta bruciata. Ha ingoiato il tuo odore. Scarto il primo panino, le mani mi affondano nella mollica, una salsa dolciastra mi avvolge i denti.

Mangio e mangio e mangio. Uno dopo l’altro. E già so che non potrà mai bastare.


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  1. Come un pugno allo stomaco che non ti aspetti . Rapido ,preciso doloroso ,che ti lascia senza fiato ma che ti fa sentire che sei ancora vivo .
    Brava Caterina . Grazie per il tuo coraggio .

  2. Il racconto è talmente ben cucinato e fumante di vita che ti costringe a mangiare una parola dopo l’altra, senza potersi fermare. Ma la parola fine, prima o poi, arriva sempre. A volte l’unico modo in cui si riesce a vivere è ingozzandosi fino a un punto di non ritorno. Roba forte.

  3. È spettacolare, ho sofferto di onicofagia mentre leggevo ogni parola.
    Un racconto che ti intrappola!

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