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NO WAX
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 21/02/2023 5 Comments 19 min read
Pdfb #10, anno IV Previous Quattro quarti Next

di Alessandro Chidichimo
Copertina di Pablo Follieri

Tonino NO WAX Gigliotti abitava a Via Panebianco, a Cosenza, in Calabria. Il 1983 i primi rapper e MC cominciavano a suonare in città e tra tutti gli adolescenti si era diffusa la moda dello skateboard. Anche Tonino si era fatto regalare il suo skateboard dalla nonna Maria. Nonna Maria, dopo aver chiesto alle amiche del coro della chiesa e ad Antonio De Luca Giocattoli e Regali, che non si trattasse di una cosa schifosa e perversa, perché gli adolescenti stanno sempre a toccarsi, gliel’aveva comprato. 

Era il giorno del suo compleanno. Tonino NO WAX scartò il regalo e, senza nemmeno dire grazie, corse fuori a provarlo sui marciapiedi scassati e pieni di buche e munnizza della città, con topi più rapidi e spericolati di Tony Hawk, proprio come quelli di oggi, mentre la madre gli gridava dietro «Screanzato! Va chianu ca ti rumpi ‘i corna!»[1]. Ma Tonino non se ne curava. Un milione di volte era rientrato a casa botte-botte e a parte qualche cavuciu aru culu o ‘na tappina fricata[2] ara capu, rifilati dalla madre in aggiunta ai suoi lividi e alle escoriazioni, tutto finiva che erano sempre gli stessi improperi e le stesse parole e disperazione, ca su figliu ciuatu me fa jestimare[3], qualunque cosa facesse.

Giù con il suo skateboard, cominciò a volare. Finalmente non doveva mettersi ad aspettare per usare lo skate del suo migliore amico, Giuseppe Testa di cane Mirabbelli, solo quando lui, che si dava un sacco di arie da californiano che andava al mare a Falerna dove c’era vento e quindi i windsurfisti, glielo lasciava usare, dicendogli «Ecco, adesso, è il tuo turno». Testa di cane Mirabbelli sottolineava con la voce questo ‘adesso’, come a fargli capire che era lui a decidere, quando, e se, Tonino NO WAX potesse usarlo. 

Piazza Europa curi pisci ‘ntra a fondana, Piazza Loreto curi bancarelle e ‘ra chiesa, filarono via come le auto sul ponte di Brooklyn. A Piazza Fera slalomò tra le auto parcheggiate e ‘a fiss ‘i mammata[4] si t’acchiappu t’ammazzu, gridato dagli automobilisti curi machine ammaccate. Tonino NO WAX aveva fretta di arrivare alla salita di Pagliaro per poter lanciarsi in velocità. Vai, schiva ancora una vecchia che si fa il segno della croce, sciuaddru miu[5], e giù dalla discesa pagliaresca.

Immacolata Bruno aveva sempre pensato come Madame Bovary, che aveva dovuto leggere l’estate prima per i compiti delle vacanze, che l’amore sarebbe arrivato come una festa, un’esplosione con scintille e fuochi d’artificio. Anche oggi, mentre scendeva le scale e poi si lanciava fuori di casa per andare a camminare con la sua nuova gonna corta corta, che aveva cucito tutta da sola, usando una vecchia gonna tunicale della madre, pensava ai fuochi d’artificio dell’amore e alle dame nei romanzi francesi. Un giorno, si diceva, anche lei avrebbe avuto un ombrellino per ripararsi dal sole caldissimo del sud e dagli sguardi dei maschi e delle femmine, e per guardare senza essere guardata. Non sapeva sotto quali sembianze si sarebbe presentato l’amore, se alto e bruno e forte, oppure alto e biondo e silenzioso, o ancora alto e riccioluto e con gli occhi neri, dolci come confetti. Da come ne parlava, però, si capiva che doveva essere alto, questo era certo.

Tonino NO WAX Gigliotti sentiva il vento caldo dell’estate. Pantaloncini e maglietta Fila, polsini e fascia frontale ElleEsse, il tutto restatogli dal corso di tennis estivo a cui non era mai andato, dopo che gli amici gli avevano detto che chira racchetta ta ‘a minti aru culu, sembrava un giovane niuiorchese del Village. Lui, all’amore non c’aveva mai pensato. Non c’aveva tempo. Con gli amici dicevano sempre chiavare qui, chiavare lì, e me’ cchi minne[6] chissa, ma erano solo parole e parole. Nessuno tra loro aveva mai toccato nemmeno una mezza minna e imitavano soltanto i racconti dei fratelli più grandi, che quelli pure loro tante parole, ma ancora di più tanti segoni[7]. In ogni caso, c’erano troppe cose da fare con gli amici per pensare all’amore. Sapeva che c’era questa cosa dell’amore, ma non era la priorità nei pomeriggi d’estate e soprattutto adesso con la nuova tavola che filava che era ‘na bellezza, iadona[8].

Immacolata Bruno aveva pure una passione. Una passione difficile da raccontare alle altre amiche che pensavano a conzarsi[9] per uscire la sera, aru truccu e che parlavano sempre di ragazzi e di orgasmi. Si dicevano: tu ce l’hai già avuto l’orgasmo? E discutevano e discutevano e c’erano quelle che dicevano di sì, che come no, che c’ha pensato Maruzzu, il figlio del portiere. Ma pure queste erano tutte storie e il povero Maruzzu, sempre presente nei racconti di tutte queste ragazze, poi se ne stava solo solo, senza che nessuno gli parlasse, ché chissu tu ‘u minta[10], che è ‘na poco maniacu.

Maruzzu, la sua passione, era la danza. E gli ci vollero anni prima di dirlo alla famiglia ca puru nu figliu ricchiune[11] mo’. E mai lo disse agli amici, che quando partì lontano lontano, senza più tornare, pensarono che si fosse trovato ‘na fatiga aru nord e magari scopava pure le nordiste. Anni dopo, tutti rimasero di stucco quando lo videro zompettare dietro le spalle della Carrà sulla prima rete. E Maruzzu zumpava e zumpava e sorrideva e si scialava pensando ai cugini e agli amici a Cosenza, che sapeva che stavano pensando che sicuru è ricchiune o s’è arricchiunitu aru nord. E lui zumpava tra tutte quelle coscie di fimmine e masculi e un glinni fricava cchiù nente d’essa uomo, fimmina, cavallo, aciaggiu[12]. Lui voleva solo ballare e gliativinni affanculu, ca diciami mo’ chinè ‘u minchiune?

A Immacolata Bruno, la sua passione, più di tutto piacevano i gelati. Per una ragazza già grande, che deve tenere alla linea per il costume l’estate e per farsi guardare dai ragazzi, era una cosa impensabile, ‘na cosa da tenere segreta, ca mancu[13] aru parroco ara confessione. Quando sei bambina va pure bene, ma una quasi donna, appassionata di gelati invece che di gossip, gonne, trucco e cantanti visti alla televisione, era davvero ‘na cosa strana e che faceva pensare male, ca ti piacia ‘u cornetto, ah? Ma se proprio tutto e tutti, qualsiasi cosa facesse, fosse sempre guardata e pensata come cosa sessuale e fosse sempre vista come un oggetto sessuale, allora per Immacolata Bruno mangiare i gelati era la cosa che più si doveva avvicinare al sesso, secondo lei. Figurarsi, poi, se aveva mai fatto sesso e nemmeno baciato con la lingua. Giusto dei bacetti leggeri, come le sue ciglia, l’estate scorsa al mare. Bacetti dati a Salvatore, figlio del vicino di casa, Giuseppe, emigrato alla Germania e che veniva ogni anno per le sue tre settimane di ferie dalla fabbrica di televisori. Salvatore era biondo biondo come la madre di Düsseldorf, e naturalmente alto, ma con gli occhi neri neri, come di uno che ha comunque il sangue del padre, uomo del sud, mischiato da secoli curi arabi, spagnoli, turchi, albanesi e tutti chiri ca su passati ‘i ca e c’hannu chiavatu ari calabresi e c’hannu lassatu nu figliu[14]. Immacolata Bruno gli aveva posato le labbra sulle sue, come se baciasse un cuginetto piccolo e ce le aveva lasciate per vedere se Salvatore facesse qualcosa. Era una buona occasione per Immacolata per sapere che cosa volesse dire baciare un ragazzo, senza che poi a scuola quello andasse a dire che glielo aveva sucato[15] o ancora peggio glielo aveva messo, e rovinare irrimediabilmente la reputazione di Immacolata Bruno. Essere ‘na fimmina ara scola era nu supplizio. Tanto che a volte Immacolata Bruno sognava di arrivare tutta nuda, cumu mamma l’ha fatta, la mattina a scuola, salire la scalinata all’ora che tutti gli studenti stanno aspettando per entrare, diciamo verso ‘i otto menu nu quartu, e dire: Tè, parrate mo’! E vidimu chi c’aviti ‘i di’! Ma Salvatore, di educazione germanica, si era cacatu sutta ‘a prima vota, e se ne era scappato via. Poi però i bacetti di Immacolta Bruno, dopo lo schock iniziale, gli erano piaciuti. E gli piaceva farseli dare, perché Immacolata Bruno non gli chiedeva e non l’obbligava a fare niente, solo porgere le labbra. E sentiva che gli facevano del bene e perché era proprio come se fosse una cuginetta, ed erano diversi da quelli della mamma, che essendo germanica mai gliene aveva dati, se non secchi e per dovere, restando sulle sue posizioni da cortina di ferro. E dal padre, poi, da cui aveva solo paccari[16] e ‘nculacchitemuartu si ti pigliu. E poi, si sa, i bacetti su’ pi’ i ricchiuni. Nua, mintimu.

Immacolata Bruno, allora, di sesso non ne sapeva niente, ma di gelati ne sapeva tutto, e il piacere indescrivibile nel mangiare un cono gelato nel caldo estivo a 40 gradi, il sentire il gelato colargli sulle dite e appiccicarle tutte, era la cosa migliore e più sensuale che avesse mai provato. Da grande esperta, sapeva fare precisamente la differenza tra tutte le gelaterie della città. E poi tra tutti i gusti presenti in ogni gelateria. E tra tutti i gusti, metti il cioccolato per esempio, comparato con tutti i cioccolati di tutte le gelaterie. E quando il padre doveva andare da qualche parte per lavoro, perché era informatore scientifico, in pratica spacciava pinnule, lei ci provava sempre ad andarci insieme a lui. E quando arrivavano da qualche parte, e il padre le chiedeva se volesse mangiare qualcosa, mentre lui saliva addu ‘u miadicu, lei irrimediabilmente, anche d’inverno e quando andavano nei paesi di montagna, cu nu friddu ca manchi i cani, diceva: «Nu gelato, papà». Il padre, memore delle consegne della moglie, ribatteva: «Ma unnè miagliu na panina cu prisuttu? Pi’ na vota, na panina, ja[17], Immacolà.» «Noni, papà, nu gelatu.» «Vabbù, io ci ho provato. Tè, i sordi.» E Immacolata Bruno correva via alla gelateria o al bar pasticceria gelateria del paese e intavolava discorsi con il barista, ca cura scusa se la guardava, mentre lei sceglieva i gusti del gelato.

Tonino NO WAX Gigliotti ormai era all’inizio della salita ‘i Pagliaro. Piede sinistro fermo sulla tavola e piede destro che ci dava dentro spingendo a fondo per acquisire il massimo della velocità possibile e immaginabile, ca mancu Testa di cane Mirabbelli cu tuttu ‘u viantu ‘i Falerna, Malibu e di tutti i californiani ca soffiavano forte, l’avrebbe raggiunto. E così pensava «‘nculachitemmuartu, tu ‘u fazzu vida iu!». NO WAX non aveva il carattere competitivo. Era piuttosto calmo e si faceva i cazzi sua. Anche perché, quannu c’avia provatu ‘a s’interessa’ ‘a ancuna cosa, era finita malissimo. La regola era: mai e poi mai guardare uno negli occhi, nemmeno ‘i fimmine, soprattutto ‘i fimmine. Ca non lo sai mai si è ‘a fimmina d’angunu, anche se spesso nemmeno lei lo sa. Ma se ti capita, che ‘na matina ti sianti forte o solo distratto, ca pu’ sentirsi forte o distratto è la stessa cosa, perché in tutti e due i casi significa non essere attento alla vita, insomma se ti senti così e un sia mai ‘a madonna cominci a guardare uno o una negli occhi, subito sianti: Ricchiù, cchi cazzu vu? Oppure: Cchi cazzu mi guardi? E già sai che saranno paccari, soprattutto si ‘un vasci ‘a capu e tinni va capu vascia, ma senza correre – come davanti ai cani ‘ncazzati. E a Tonino NO WAX che voleva capire certe cose della vita e si era messo a guardare il mondo che lo circondava, ‘i paccari erano arrivati a dua a dua, finché non era stato salvato dalla campanella e cussì t’impari a guarda’ ara cazzo di cane, ‘stu minghiune.

Proprio mentre Tonino NO WAX filava veloce alla discesa di Pagliaro, Immacolata Bruno a grandi falcate, che le facevano fresco ari cosce nude, attraversava longitudinalmente la stessa strada. Tonino spingeva e spingeva forte con il piede, mentre Immacolata quasi zumpava e faceva tintinnare i soldi nella tasca che sarebbero finiti diritti diritti nelle tasche del gelataio del Bar Manna a Corso Mazzini, o come dicevano gli amici di NO WAX, jamu aru Bar Mammata. «Ecco» – si diceva Tonino NO WAX vedendo un gruppo di uomini, magari delinquenti, seduti a nu bar curi mani ca si grattavanu ‘i palle – «cumu aru Bronx». E Immacolata sentendo già il sudore colarle dalla nuca, dentro la maglietta leggera e già sulla schiena «Ecco, se fossi Madame Bovary, mi ricorderei per sempre di questo cavudu e di questa goccia supa ‘a schiena.» E proprio mentre lei pensava aux soirées françaises et aux parasoleils e ne era accecata, come un sogno di una vita diversa, lontana da tutti questi maschi calabresi mezzi animali e dai raggi del sole, Tonino, cura capu voltata verso i delinquenti, sognava che tutti lo prendessero sul serio, con il suo nuovo skate, da uomo vero, non nu ricchiune.

E poi iaramado’ Tonino “NO WAX” Gigliotti, vede di colpo Immacolata Bruno e sente ‘na cosa forte, come ‘nu frontino ara capu che ti arriva all’improvviso quando giri l’angolo. E cchidè? E chini sì? E però deve scartare veloce a destra per non investire Immacolata Bruno. E spamf Tonino NO WAX inciampa supa ‘nu tombino scassato e ‘ru marciapiede aggiustato ara cazzo di cane, proprio come quelli di adesso, cu chissu sinnacu, ca ri sinnaci ‘a Cosenza su sempe tutti ‘i stessi: un capiscianu nu cazzu.

E attento! Immacolata Bruno che chiama con voce stridula, e i suoi occhi si spalancano a occupare tutta la strada. E sssshhhh, e trac-trac, e patapam e via che Tonino NO WAX Gigliotti cade rovinosamente sulla discesa e ahia ‘u gomito e chitemu’ ‘u ginocchio e la tavola vola lontana che quasi ammazza e gambizza ‘na vecchia. E glomp, Immacolata Bruno che serra il respiro in petto, mentre altri rivoli di sudore le scendono dalle ascelle.

Il resto della discesa Tonino “NO WAX” Gigliotti la fece sgrattuggiandosi il culo e le cosce sull’asfalto.

Tutti i passanti e i delinquenti aru bar, prima risero forte, minchiùùùùùù mintaci ‘a vasellina, ca ‘u sa cumu scivuli buanu e ohi, l’americano du ‘u cazzu. E questa cosa della vasellina, ‘a WAX, poi quando gli amici lo seppero, non si sa da chi, gli restò attaccata addosso come soprannome. A lui sarebbe piaciuto di più avere un soprannome curi palle come Testa di Cane Mirabbelli, ‘na cosa come Dente di Squalo o Palle Quadrate, ma forse fu proprio l’amico suo, che geloso della sua nuova tavola e volendo essere sempre leader, che decise per NO WAX.

Poi Tonino ancora per terra, cominciò a muoversi, facendo una smorfia di dolore, e dicendo iaggesucrì, i passanti andarono a vedere se stava bene e che non dobbiamo chiamare l’ambulanza e forse la madre di questo cazzune.

«Minchiù, sta buanu? Ti si fattu male?»

«No, no, lassatimi fricà, n’attimo!»

«Ma si ciuatu accussì veloce? Supa ‘a scisa i Pagliaru? Ma ‘nculammamata…»

«E ja ja!»

«T’azamu?»

«No, lassalu sta, ca si s’è rotto ‘na cosa, ce la spacchi du un tuttu.»

«Lassatimi frica’!»

A Tonino non interessava niente del culo e delle cosce sgrattuggiate, ma solo della figura che aveva fatto davanti a tutti e, adesso, anche davanti a Immacolata Bruno. Tutto rosso, allora, per la rabbia e la vergogna, non ce la faceva nemmeno ad alzare lo sguardo e vedere se lei avesse visto tutto, sentiva solo minchiùùùùùù, americàààààà, mintaci ‘a vasellina. Anche se lo sapeva che, certo, che lei aveva visto tutto, ma, come tutti gli esseri umani, esseri che si fanno delle illusioni e per cui è facile credere ai miracoli e alle cose che non esistono, come la religione e la democrazia, sperava sempre che qualcosa o qualcuno avesse fatto in modo che Immacolata Bruno non lo avesse visto, mentre capitombolava come nu minchiune spazzando, col culo e colle cosce, tutta la salita di Pagliaro.

Poi, una mano calda, lo toccò da dietro le spalle e si inginocchiò vicino a lui. Tonino Gigliotti senti un odore che non aveva mai sentito, come di pesca e rosmarino fresco con un tocco di menta delle insalate di frutta con la panna che sua nonna Maria gli preparava per dargli forza e zuccheri nei pomeriggi infuocati d’estate africana, molto comuni in Calabria. 

«Ti sei fatto male?!»

Tonino Gigliotti alzò lo sguardo verso dietro, verso questa voce e questo italiano perfetto, come un Oloferne verso una Giuditta disarmata. Immacolata Bruno era lì e adesso con l’altra mano, quella destra, che serve per tenere le posate per mangiare e la racchetta per il tennis, gli percorreva la testa intrecciando le sue dita ai capelli sudati del ferito soccorso, e, poi, fermando la mano sulla fronte, che chissà per quale antica tradizione, ogni volta che uno cade o si sente male, è la fronte che si tocca, come se le febbri fossero folgoranti e sempre pronte ad attaccare.

«Io?»

«Eh?»

«Niente di niente. Nu cazzu proprio.»

«Niente?»

«Niente.»

«Ma ti esce sangue dalle ginocchia.»

«E no che non è niente!»

«Ti vuoi alzare adesso? Vieni appoggiati.»

Tonino prese la mano morbida di Immacolata e poi la tenne ancora a lungo e non disse niente della catrea che gli faceva male e del bruciore che sentiva sul culo. Stette lì mentre più nessuno gli faceva attenzione.

«La tua tavoletta.»

«Skate, si chiama ‘u skate.»

«‘u skate, non lo vuoi recuperare?»

«Sini.»

«Io sono Immacolata Bruno.»

«Tonino Gigliotti.»

«Vuoi andare a casa?»

«No, sto bene.»

«Sto andando al Bar, magari ti danno una cosa fresca da mettere sulle ferite. Vieni andiamo.»

E Tonino, senza ancora mai lasciare la mano di Immacolata, la seguì al Bar Manna. Lei prese un gelato limone e melone e Tonino pure, mentre la moglie du ‘u barrista, gli aveva dato uno straccio di cucina riempito di ghiaccio, che Tonino aveva legato alla pirata attorno al ginocchio.

Immacolta Bruno pensava che ecco, che era vero l’amore sarebbe arrivato all’improvviso. Ecco, adesso, era proprio sur un canal sur la Seine à Paris, en sirotant une boisson et en goûtant sa glace, tout doucement, avec un homme gentil al suo fianco. Tonino Gigliotti sperava solo che nessuno degli amici l’avesse visto cadere e che non lo vedessero nemmeno adesso, mentre segretamente si innamorava di Immacolata Bruno. Ma durava solo un attimo. Poi gli occhi immensi e neri e pieni di scintille di Immacolata gli sembravano il cielo di New York e con la mano sul bordo dello skate appoggiato alla sedia, tutto il mondo, ‘i masculi, ‘i fimmine, ‘u skate, ‘a fiss ‘i mammata, ca ti mignu, ricchiù, mindaccellu, vida c’adi fa, e statti cittu ca un capisci nu cazzu, e vati frica, e mangia tutto ca sinnò paccari, e perché devo andare a scuola, e non addormentarti, e stai dritto, e fai questo e fai quello, e ru rap e pi ‘i ricchiuni, e suca e suca forte, e cittu cì e jamu aru pallune, e para portiè, e t’adi trouvà ‘na fatica, e compra ‘u latte e portami ‘u resto, e ‘u delinquente, e votama a mammata, e ‘nculacchittemu’ ‘nculacchitemmuartu, e questo e quello e la violenza e tutto e ancora tutto, scomparivano così, bum, e Tonino si sentiva finalmente alliberato.


[1] «Vai piano che ti rompi le corna.»: «vai piano che ti fai male».

[2] Fricare, verbo: ha molti significati, come fregare, nel senso di non interessarsi, rubare, o nella locuzione lassatimi frica’, lasciatemi stare. In questo caso significa lanciare: una ciabatta lanciata dalla madre che lo aveva colpito in testa.

[3] «che questo figlio scemo mi fa bestemmiare».

[4] Fiss’ abbrev. di fissa: organo genitale femminile.

[5] Ommioddio!

[6] Minna: seno.

[7] Sega, segone: masturbazione, grande masturbazione.

[8] Iadona: usato al posto dell’imprecazione ‘per la madonna’. Anche nella forma abbreviata, iado’. Nel tempo si è sentita anche la forma iadiegoarmandomaradona, ma che non è diventata di uso comune.

[9] Conzarsi, dal verbo conzare: aggiustare.

[10] Minta: mettere, fare l’amore, ma in maniera molto prosaica.

[11] Ricchiune, ricchione, anche nella forma abbreviata ricchiu’: omosessuale. Ricchiu’ è usato come intercalare per rivolgersi a qualcuno. Arricchionirsi, arricchiunitu: diventare omosessuale.

[12] Uccello, volatile.

[13] Mancu, avverbio: nemmeno.

[14] «Tutti quelli che sono passati da qui e hanno violentato i calabresi e si sono lasciati un figlio alle spalle».

[15] Sucare: l’atto del sesso orale.

[16] Paccaro: da non confondere con il formato di pasta, il paccaro è uno schiaffo dato a qualcuno con estrema violenza usando il palmo della mano. Deriv. Paccariata, una serie di paccari dati in sequenza in una stessa occasione. Contr. Manummersa (mano al contrario), schiaffo dato con il dorso della mano.

[17] Ja, anche nella forma ‘e ja’: dai, e dai, forza.


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Alessandro Chidichimo autori letteratura Racconti racconti d'amore skateboard


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  1. Davide, il racconto e ricco di suoni , odori ,di tempeste ormonali con un ritmo da mezzo fondista con sprint finale.
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