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Il superpotere - divagazioni pasoliniane
By Malgrado le Mosche Posted in Altra letteratura, Inve(n)t(t)ive, Miscellanea on 12/04/2023 2 Comments 28 min read
Dónde está Daniel Schapira. Desaparecido Previous Bastava non farlo Next

di Stefano Trucco
Copertina di Julio Armenante

Parte II – che poi in realtà è praticamente un altro articolo

Ovviamente, parlando di Pasolini, si torna sempre lì, a quell’anonimo prato alla periferia di Ostia la notte del 2 novembre 1975.
Ma per farlo partiamo da Cap Ferrat, in una sera d’estate del 1969. Pasolini, insieme a Maria Callas, con cui ha da poco finito di girare ‘Medea’, partecipa a una festa molto esclusiva in una villa neoclassica con piscina a strapiombo sul mare e di cui ci racconta nella sua rubrica sul settimanale ‘Tempo’. L’ospite d’onore è in qualche modo sorprendente: Lady Bird Johnson, la moglie e First Lady dell’ex Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson, il cui mandato era scaduto a gennaio di quell’anno. Lady Bird ‘si siede, anzi si distende (vestita coi calzoni, elegante, minuta, amara, gentile) e chiacchiera un po’ con C.’  La First Lady, almeno sul piano personale, sembra fare una buona impressione allo scrittore: ‘(ché, devo dire, la signora Johnson mi è apparsa dolce e intelligente – non stento a credere, come si dice, che sia stata lei a consigliare a Johnson di ritirarsi)’. Qui Pasolini fa riferimento alla decisione di Johnson, di fronte alla spaccatura nel Partito Democratico e nel paese riguardo alla guerra in Vietnam, di non ripresentare la sua candidatura alle elezioni presidenziali del 1968.

Ora, la storia degli Stati Uniti, oltre che una passione, è l’unica autentica specializzazione accademica che io possa vantare, essendomi laureato in Storia con una tesi sulle elezioni presidenziali del 1948. Ancor più importante è il fatto che Lyndon B. Johnson è in pratica uno dei miei maggiori animali totemici. Potrei parlarne a lungo ma tranquilli, non lo farò (per ora): mi limiterò a dire che Johnson fa la parte del cattivo o almeno dello strumento nel Kennedy-Mythos, dove il giovane Presidente-Baldur è vittima di un Vice Presidente-Loki o al massimo Hodr (con Lee Harvey Oswald come freccia di vischio o qualcosa del genere).

Più prosaicamente, la storia di un Presidente giovane, progressista, amante della pace e pure cattolico ucciso da un complotto ai massimi livelli del potere nascosto per essere sostituito da un rozzo redneck reazionario texano, quattro parole che nella demonologia liberal sono praticamente sinonimi (mentre nella demonologia trumpiana Kennedy è l’ultimo Presidente democratico non malvagio e difatti vittima del Deep State – probabilmente il fatto che fosse un ormai accertato predatore sessuale c’entra qualcosa).
In principio non ebbi difficoltà ad accettare questa leggenda, così conforme alle Eterne Leggi della Narratologia e del Viaggio dell’Eroe, iscritta in decine di saggi, romanzi, fumetti e film da gente che di certo ne sapeva più di me. Solo che poi, studiando meglio quegli anni e studiandone la politica ‘vera’, quella fatta di leggi e programmi e provvedimenti amministrativi, e non solo i suoi riflessi nella cultura di massa, specie quella più pop o, peggio, indignata, mi venne un pensiero eretico: e se non fosse stato vero niente? In poche parole, com’era possibile che un complotto di destra per sostituire un Presidente progressista con uno reazionario portasse al potere un Presidente di gran lunga più progressista, in realtà uno dei Presidenti più progressisti del XX secolo, secondo solo a F.D. Roosevelt? Un Presidente, Johnson, che anche in politica estera non aveva fatto altro che seguire la linea di Kennedy? Certo, Kennedy era più portato alla politica estera di Johnson, decisamente più concentrato sulla politica interna, ed è possibile sostenere che avrebbe gestito meglio la situazione in Indocina: il fatto resta che Johnson non fece altro che portare avanti, goffamente, la politica estera attiva e molto confrontazionale di Kennedy.

Non poteva essere che la verità ufficiale – un unico assassino, Oswald, uno squilibrato – non fosse affatto meno credibile di quella dei media – un vasto e nefasto complotto ai massimi livelli del potere nascosto, pur ammettendo che la vicenda ha i suoi lati oscuri? Insomma, che la posizione anticonformista, se uno considera l’anticonformismo un valore in sé, sarebbe quella di credere nel verdetto della Commissione Warren o, volendo essere proprio devianti, nella colpevolezza di Fidel Castro e del KGB, una convinzione molto diffusa immediatamente dopo l’assassinio e poi come espunta dal ricordo collettivo…

Ora, mentre credere nella colpevolezza di Oswald è decisamente un gusto di minoranza, credere o meno nell’esistenza di un complotto politico riguardo alla morte di Pasolini è decisamente più controverso, fra molti assolutamente convinti che si tratti dell’ennesimo crimine del Potere (posizione assolutamente maggioritaria sui social) contro altrettanti scettici che non fanno alcuna fatica a credere che, come disse Mario Mieli, “Pasolini sia stato ucciso da uno o più marchettari. Quello che è certo è che Pasolini è stato ammazzato in quella situazione perché soltanto gli omosessuali possono trovarsi in situazioni del genere. Perciò il discorso sulla sessualità relativa a questo assassinio politico lo facciamo noi, i froci”.

Una delle tante teorie che si intrecciano intorno alla morte di Pasolini ci riporta a un personaggio oggi praticamente dimenticato ma all’epoca importantissimo, Eugenio Cefis, Presidente dell’Eni dal 1967 al 1971 e della Montedison dal 1971 al 1977.

(Tranquilli, alla fine non arriveremo ad alcuna conclusione: facciamo giusto un giro attorno ad alcune teorie screditate e alcuni personaggi dimenticati, quindi se volete scendere adesso non ve ne faccio una colpa).

Nel 2010 Marcello Dell’Utri, già braccio destro di Silvio Berlusconi e noto bibliofilo, afferma di essere in possesso di un capitolo inedito del romanzo incompiuto di Pasolini, ‘Petrolio’, pubblicato da Einaudi nel 1992, capitolo che sarebbe stato rubato dalla casa romana dell’autore poco dopo la morte. Dell’Utri annuncia anche che l’avrebbe esposto alla Mostra del Libro Antico di Milano. Poi, guarda caso, il capitolo non sarà esposto e non se saprà più nulla. Dell’Utri anticipa che si tratterebbe di una settantina di pagine intitolate ‘Lampi sull’Eni’ e che conterrebbero rivelazioni sul ruolo di Eugenio Cefis nella misteriosa morte nel 1962 del presidente dell’Eni Enrico Mattei, di cui era stato collaboratore, oltre che in numerose altre oscure trame del tempo. Segue lettera di Veltroni al Ministro degli Interni Alfano in cui si chiede di riaprire le indagini sulla morte del poeta, un rituale, quello di richiesta di riapertura dell’inchiesta e possibilmente di riesumazione del cadavere (‘perché adesso c’è il test del DNA’), che si sarebbe ripetuto più volte negli anni.

Sull’argomento David Grieco – amico e collaboratore di Pasolini, figlio del corrispondente italiano della Tass, l’agenzia di stampa ufficiale dell’Urss, e nipote di uno dei fondatori del PCI, oltre che regista e sceneggiatore in proprio, insomma, proprio uno di quelli – ha le idee chiare. Nell’intervista al Riformista riportata da Dagospia (il livello è quello), Grieco dichiara che Pasolini “è stato ammazzato perché rompeva i coglioni. Dillo con queste parole qui. Quello che andava scrivendo da un po’ sul Corriere della Sera, quello che scriveva sulle stragi, il suo “Io so tutto ma non ho le prove” – che è un manifesto del giornalismo, e lui negli ultimi anni si sentiva più che mai un giornalista – , il processo alla Dc, il suo ultimo romanzo Petrolio; ecco, tutto questo è “il perché”. Tutti sapevano che stava scrivendo Petrolio e che al centro del libro c’era Cefis. Anni dopo si è scoperto che molti appartenevano alla P2, che anche i vertici Rai appartenevano alla P2 (associazione su cui non si è mai riuscito a far luce, non dimentichiamolo). Pier Paolo andò all’idroscalo a lasciarci la pelle con la piena consapevolezza di rischiare. Probabilmente pensava “Mi conoscono tutti, sono Pasolini, faccio saltare il coperchio dalla pentola”. Invece non c’è riuscito perché le connivenze erano tante e tali. Pelosi ritrattò uscito dal carcere, poi cambiò ancora versione, e alla fine si è portato nella tomba ciò che sapeva. Ma cosa sapeva, poi? Solo quello che aveva visto’.

Grieco avrebbe dovuto lavorare con Abel Ferrara per il film che questi girò nel 2014 sull’ultimo giorno di vita di Pasolini, interpretato da Willem Dafoe, ma se ne andò indignato quando si rese conto che per Ferrara Pasolini non era altro che ‘un uomo ricco che comprava carne’, ben deciso a girarne uno tutto suo per dire tutta la ‘verità’. Il film di Ferrara, con Willem Dafoe, non è granché; quello girato da Grieco, ‘La Macchinazione’, malgrado Pasolini sia interpretato da un Massimo Ranieri sempre bravo, è abbastanza terribile, ma è stato lodato per il ‘coraggio civile’ e perché ‘mantiene viva la memoria’, specie per i ‘giovani’, che ne hanno tanto bisogno. Fra le altre cose Grieco, un autentico intellettuale italiano, ci ricorda che oggi ‘non puoi più dire niente’.

Pasolini, nel famoso articolo del 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera intitolato ‘Che cos’è questo golpe?’ ma che verrà ripreso negli Scritti Corsari come ‘Il romanzo delle stragi’, aveva notoriamente detto di sapere i nomi dei responsabili delle stragi da Piazza Fontana in poi, ma di non avere le prove – letteralmente ‘Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi’ -, quello che secondo Grieco è un ‘manifesto del giornalismo’, mentre secondo Walter Siti, che ha curato le migliaia di pagine dei nove Meridiani dedicati a Pasolini, l’articolo avrebbe sdoganato l’idea che ‘basta la passione per capire’, un’idea che ‘dà a chi la coltiva la soddisfazione di avere delle opinioni forti senza bisogno di controllarle’.

Fra l’altro oggi quell’articolo è difficile da leggere, non perché sia difficile trovarlo online o stampato, anzi, ma perché viene poco a poco, come tutto in quegli anni, come tutto in tutti gli anni che si allontanano, avvolto da una nebbia sottile che nasconde i dintorni, sfuma i contorni e confonde i lineamenti. Oggi, se lo legge un giovane cresciuto con i nostri media, analogici o digitali, quell’articolo, isolato, finisce per fargli vedere un poeta-eroe che per primo ha il coraggio di dire a alta voce una verità nascosta che nessun altro aveva avuto il coraggio di proclamare, verità che lo porterà al martirio a opera di un potere segreto e tirannico, proprio come Kennedy. Non fu proprio così.

Che fossero in corso oscure e micidiali manovre da parte del governo e dei servizi, con l’aiuto magari della CIA e dei governi fascisti dell’Europa meridionale, era a quei tempi convinzione comune, non solo a sinistra (ed è stato in buona parte confermato da sentenze della magistratura e commissioni d’inchiesta parlamentari). Le rivelazioni sulla ‘strategia della tensione’ erano praticamente quotidiane. Il golpe era considerato sicuro e imminente, ne parlavano tutti, ci si scrivevano romanzi e giravano film e si vendeva molto il libro ‘In caso di golpe’, edito da Savelli, un ‘manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e di guerra di popolo guerriglia e contro-guerriglia’. Certe dinamiche dell’epoca erano talmente visibili da essere materiale non solo per romanzi e film italiani – come il famoso e divertentissimo ‘Vogliamo i colonnelli’ di Mario Monicelli o il prezioso e vagamente ridicolo ‘Gruppo di famiglia in un interno’ di Luchino Visconti – ma anche stranieri. Il bestsellerista australiano Morris West pubblicò nel 1973 un romanzo su un tentativo di golpe in Italia, ‘La salamandra’, in cui un eroico colonnello dei carabinieri, Dante Alighieri Matucci (!!!), sventa il complotto con l’aiuto di un ricco industriale democratico, Bruno Manzini, un mix di, comme par hasard, Gianni Agnelli e Enzo Ferrari. In seguito, nel 1980, quando ormai in realtà di golpe in Italia non si parlava ormai più, ne sarebbe stato tratto un film inglese con Franco Nero e Anthony Quinn – le trame nere italiane devono essere state uno dei segreti peggio custoditi di tutti i tempi.

Chiaramente, Pasolini non stava certo rivelando chissà quali verità nascoste a tutti tranne che a lui, visto che era il primo ad ammettere di non avere prove e nemmeno indizi. Il clamore, all’epoca, fu dovuto a due fatti: intanto che l’articolo uscisse sul Corriere della Sera, cioè il giornale della borghesia imprenditoriale, che fino a quel momento s’era mosso con cautela su certi temi, segnalando così un evidente cambio di linea; poi il fatto, che molti allora considerarono con una certa acidità, che i primi dodici paragrafi dell’articolo cominciassero tutti con un perentorio ‘Io’, cioè che Pasolini usasse un tema caldo e drammatico per mettere sé stesso al centro della scena, sia pure come potenziale martire, in un classico caso ‘it’s all about me, bitch’.

Quando nel 1992 si potè leggere Petrolio (un’imponente e indubbiamente impressionante rovina che fa pensare a che cosa incredibile sarebbe potuta essere finita e intera: pensate alla differenza fra il Foro di Roma oggi e quello di duemila anni fa, sovraffollato e multicolore, ne sarebbe potuta venire fuori una cosa da far impallidire ‘Infinite Jest’ e ‘Gravity’s Rainbow’ e tutto il postmoderno – insomma, un libro che avrei voluto DAVVERO leggere, il Grande Romanzo Italiano per eccellenza) e si vide che parlava effettivamente di quello, di Eni e Montedison e strategie della tensione, con oscure manovre politiche e spionistiche su uno sfondo di miracolose metamorfosi pagane, processioni allegoriche, feste al Quirinale e sesso orale, e che riprendeva in parte un progetto di cui Pasolini aveva parlato a Paolo Monelli negli anni Sessanta, quello di un Inferno dantesco moderno, si disse ecco, ora aveva la prove, aveva indagato di persona, come un investigatore da romanzo giallo,  e presto le avrebbe pubblicate, “mi conoscono tutti, sono Pasolini, faccio saltare il coperchio dalla pentola”, e per questo il Potere, anzi il Palazzo, l’aveva ucciso. Il mandante delle stragi, della strategia della tensione, dell’assassinio di Ostia, aveva un nome e un cognome, Eugenio Cefis, il villain perfetto anche perché quando il romanzo uscì si era ritirato a vita privata e da tempo non contava più nulla e persino la DC era sul punto di sparire: non per niente Petrolio uscì nell’anno di Tangentopoli. Il Processo al Palazzo era cominciato, anche se non sarebbe andato proprio come previsto dalle persone perbene.

Solo che Pasolini non aveva investigato un bel niente, era sempre lo stesso che sapeva ma non aveva le prove e nemmeno gli indizi. Le rivelazioni che leggiamo oggi in Petrolio erano già uscite sul Corriere della Sera, sull’Espresso, su Panorama, sull’Unità, sul Manifesto e lui s’era limitato a ritagliare gli articoli. Cefis era indubbiamente un potente ma aveva nemici altrettanto potenti; era tutt’altro che nascosto o intoccabile. Per esempio, proprio nel 1975 era uscito un romanzo di fantapolitica anonimo (scritto dal giornalista del Corriere Gianfranco Piazzesi) intitolato ‘Berlinguer e il Professore’, uno dei best seller più massicci e improbabili degli anni Settanta, dove si descriveva in toni satirici come sarebbe avvenuto il compromesso storico fra DC e PCI, e Cefis vi aveva un ruolo importante. Un altro romanzo di fantapolitica di quell’anno (era un po’ una moda) intitolato ‘Il Superpotere’, opera di due fantomatici giornalisti inglesi, Peter e Wolf (in realtà l’italiano Antonio Di Raimondo), descriveva l’imminente lotta per il potere fra Cefis e il presidente della Fiat Gianni Agnelli, che si concludeva con la vittoria di quest’ultimo e, di nuovo, il compromesso storico (a un certo punto del romanzo Giulio Andreotti cita con disprezzo Pasolini e il suo ‘processo al Palazzo’). Soprattutto, nel 1974 era uscito il saggio ‘Razza Padrona’ di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, una lunga requisitoria contro il capitalismo statale gestito dalla DC e dai cosiddetti ‘boiardi di Stato’, in particolare Cefis, saggio che sarebbe stato una delle fonti principali di Pasolini per il romanzo e che si concludeva auspicando un’alleanza fra il PCI e la grande imprenditoria privata, una ‘ riscossa da parte del mondo degli Agnelli per sconfiggere e ridimensionare il mondo dei Cefis e della borghesia di Stato’. Scusate il piacere di citare una serie di libri dimenticati, piacere a cui non riesco proprio a rinunciare, ma direi che il punto è piuttosto chiaro, no?

Insomma, non c’erano rivelazioni sconvolgenti, in Petrolio, ma solo una intensa e fantasmatica rielaborazione poetica dell’attualità. Comunque, se Pasolini morì tragicamente nel 1975, Scalfari nel 1976 trovò i soldi per fondare Repubblica, segno che attaccare Cefis non gli aveva granché ostacolato la carriera. Del resto, Cefis stesso si sarebbe dimesso improvvisamente da presidente della Montedison nel 1977, ritirandosi a vita privata e morendo tranquillamente nel 2004 in Svizzera, dimenticato da tutti eccetto che dai giornalisti più anziani e dai pasoliniani più ferventi. Non male per essere stato considerato uno degli uomini più potenti d’Italia, fondatore della P2, ispiratore di golpe e responsabile di stragi.

Oggi dell’assassinio di Ostia si preferisce incolpare la Banda della Magliana, a cui di recente si tende a dare un po’ la colpa di tutto quel che accadde fra gli anni Settanta e Novanta e difatti c’è pure l’autorevole suggello della Commissione Antimafia, un contesto dove la lontananza dai fatti aumenta l’autorevolezza delle accuse. I protagonisti di Romanzo Criminale avrebbero rubato a Cinecittà una copia di Salò, non ancora uscito nelle sale, e ricattato il regista per riottenerla, attirandolo quindi in una trappola mortale. Segue il solito ‘cui prodest?’ di cui si sa sempre già la risposta.

Per fortuna David Grieco non molla, con il sereno coraggio di chi sa di non avere nulla da temere. Qualche mese fa su ‘The Globalist’ (no, neanch’io) è apparsa una sua lettera aperta a Ninetto Davoli, uno dei rarissimi giovani proletari con cui Pasolini, oltre che donargli una inaspettata carriera d’attore, avesse instaurato un rapporto duraturo, tanto da soffrirne amaramente la decisione di sposarsi e mettere su famiglia, che si apre con un fintamente cordiale ‘Ciao Ninetto, come stai? E’ da un bel po’ che non ci vediamo’, continua col tono di un avvertimento camorrista intimandogli di dire finalmente quello che sa di quella notte (e in effetti è vero che proprio quella sera Davoli cenò con Pasolini in una nota trattoria sul Tevere) e termina con l’invito a chiarirsi le idee guardando un documentario su RaiPlay: “La RAI ha trasmesso la settimana scorsa un notevole programma di Giancarlo De Cataldo (“Cronache Criminali: il Caso Pasolini”) al quale come al solito tu non hai voluto partecipare. Vedilo su Raiplay. Potrebbe chiarirti le idee, forse potrebbe darti coraggio. Su quella notte così buia, aspettiamo tutti da anni un tuo raggio di sole. Vedi di darti una mossa che si è fatto tardi. Con l’affetto di sempre”.

Un po’ come la vecchia gag su Neil Armstrong che, dopo aver visto un po’ di video complottisti su Youtube dove si sostiene che le immagini dello sbarco dell’Apollo  fossero state girate in studio da Stanley Kubrick, si convince di non essere mai stato sulla Luna. La risposta di Davoli, per fortuna, è piuttosto diretta e fedele al personaggio: Lo fa tanto per parlare. Sono tutte stupidaggini. David Grieco non sa un cazzo!’

Si sarà capito che sono un po’ scettico sulle teorie complottiste. Non solo Ninetto Davoli ma anche Nico Naldini, il cugino di Pasolini che ne curò l’epistolario per Einaudi, non crede al complotto. Alberto Arbasino, sul momento, sentì il colpo come troppo vicino, non credette alla versione ufficiale e si lasciò andare a una denuncia per lui un po’ sopra le righe – ‘Non c’è davvero niente che torna’ -, denuncia nella quale incluse la misteriosa morte tre anni prima di Giangiacomo Feltrinelli; in seguito però, mi pare, avrebbe quietamente cambiato idea. Walter Siti, che da cinquant’anni si occupa di Pasolini, che conobbe da studente, e ha curato i nove volumi dei Meridiani ritiene cautamente che ‘le ragioni del suo assassinio sono probabilmente da ricercare nei rischi della sua vita privata’. Insomma, non sono certo il solo.

Ma la cautela qui è davvero d’obbligo, come con Kennedy. Non si può escludere del tutto la possibilità di un complotto. Se è vero che i ‘misteri’ di quegli anni sono diventati sia un genere letterario pop che la scusa principe per i fallimenti della sinistra per i successivi 50 anni, è anche vero che di eventi tragici e senza colpevoli ve ne furono fin troppi.

Furono davvero anni violenti: in quel 1975 che vide la morte di Pasolini vi furono in Italia 1759 omicidi, fra volontari e preterintenzionali. Per darvi un’idea di come sono cambiati i tempi l’anno scorso sono stati solo 309. Sfogliando il Meridiano dei ‘Saggi sulla politica e la società’ ci si imbatte in una violenta polemica contro il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno, che aveva criticato con forza l’idea del ‘processo al Palazzo’: Pasolini arriva a dargli letteralmente della puttana. Casalegno sarebbe morto quasi esattamente due anni dopo Pasolini, ucciso dalle Brigate Rosse nel portone della sua casa di Torino. Oppure, Aldo Semerari, ordinario di medicina criminologica alla Sapienza di Roma, che nel corso di uno dei tanti processi in cui fu coinvolto lo scrittore scrisse una relazione tecnica di parte civile (una relazione per sentito dire, parrebbe), in cui questi era etichettato come ‘coprolalico… psicopatico dell’istinto… anomalo sessuale… omofilo nel senso più assoluto della parola… omosessuale esibizionista e skeptofilo’  (questo sono dovuto andarlo a guardare: vuol dire godere dal masturbarsi in pubblico, e più in generale ‘infermo di mente’ e ‘persona socialmente pericolosa’. Anche se forse non pericolosa quanto lo stesso Semerari, legato tanto ai servizi segreti che ai gruppi terroristi di estrema destra (fu indagato e arrestato per la strage di Bologna su segnalazione del SISDE), che a organizzazioni criminali come la Banda della Magliana e la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Tanto legato da essere ucciso a Napoli nel 1982, probabilmente a causa di una faida fra gang rivali: il suo cadavere venne trovato nel bagagliaio di una Fiat 128 parcheggiata davanti alla casa di un boss della camorra; la testa decapitata era poggiata sul sedile davanti, lato guida. Erano anni così.

Quindi sarebbe disonesto negare qualsiasi possibilità di ‘foul play’ dietro la morte di Pasolini, anche scontando le teorie più assurde, tipo quelle che fanno capo a Cefis. Se è vero che il setting complottista è ormai quello di default della Rete ma anche dei media tradizionali e che si tratta di una specie di cementificazione del pensiero che impedisce un rapporto sensato con la realtà, un perverso rasoio di Ockham dove è inutile moltiplicare le ipotesi dato che quella del complotto basta e avanza per tutto, è anche vero che nella sacrosanta battaglia per mantenere in vita il pensiero critico si finisce per esagerare sul lato opposto, finendo per negare che esistano i servizi segreti (sì, ci sono ma non fanno nulla che non faremmo anche noi) o anche solo che succeda qualcosa di più o meno legale dietro le quinte degli studi televisivi e se succede non possono essere altro che terroristi, cioè esseri fuori dal discorso umano condiviso.

La Legge di Eco è sempre valida: se non esiste il Grande Complotto, di singoli piccoli complotti ce ne possono essere eccome, come ce n’è sempre stati. Certo, è difficile scoprirli e trattarne in maniera sensata: i principali giornali di sinistra italiani ancora a metà degli anni Settanta parlavano di ‘sedicenti Brigate Rosse’. Lo stesso Umberto Eco, nel 1975, analizzando un comunicato dei Nuclei Armati Proletari vi identifica gli stili e stilemi di un brigadiere dei carabinieri, di un colonnello dei servizi, di un cancelliere di tribunale e anche alcuni americanismi che inchiodano la CIA alle sue responsabilità: ‘Chi c’è dietro i NAP? Linguisticamente parlando ci sono almeno tre Italie, e forse persino un’America. Chi tra costoro tiene le redini?’. Cioè, se anche il ben più attrezzato culturalmente Eco poteva incappare in simili belinate allora si diventa necessariamente più comprensivi con il più umorale Pasolini.

Quindi, se non è interamente disonesto credere ancora in un complotto resta che non è certo disonesto credere che la parabola sempre più vertiginosa degli ultimi anni, le posizioni sempre più estreme e controverse, il tentativo sempre più frenetico di tenere il centro della scena, l’allarme più o meno giustificato per la china presa dall’Italia, china che identificava sempre più strettamente con quella presa dalla sua vita in direzione di una crescente infelicità, possa coincidere con una morte per mano di uno o più di quegli stessi ragazzi di vita che aveva imposto all’attenzione del mondo vent’anni prima, in pieno controllo della sua potenza creativa. Quello che è fondamentale, per il mito, è la morte violenta, quale che sia la motivazione, il sacrificio pubblico. Ennio Flaiano, anni prima, aveva detto che Pasolini sarebbe morto ‘in odore di pubblicità’ e in un certo senso ci indovinò, anche se probabilmente non come avrebbe voluto.

‘Per il mito, leggere effettivamente le opere di Pasolini non è affatto necessario, né è necessario confrontarsi con la critica che ha cercato di capirle’, dato che ci troviamo di fronte a un artista sì grandissimo e degno di decenni di studio, ma anche di un artista ‘che ha spesso sprecato il suo talento in testi ridondanti e non esenti dal kitsch’. A dirlo, in un articolo uscito sul blog ‘Le parole e le cose’ nel 2015 e intitolato ‘Il mito Pasolini’, è Walter Siti, che della sua opera si è incaricato di conservare l’aspetto più letterario, lasciando a altri il tentativo di incarnarne lo status profetico, magari non morendo. Rispetto alla realtà contingente, in tutta la sua immediatezza e difficoltà il mito, che si presenti come religione, filosofia o scienza, ordina, spiega, consola e giustifica ed è comunque più facile. La realtà di Pasolini, i nove volumi dei Meridiani curati dallo stesso Siti, ha il suo posto sugli scaffali delle biblioteche, dove prende polvere, mentre il mito corre nei tubi alla velocità della luce.

Il mito di Pasolini incarna in primo luogo la ‘poesia assassinata dalla società’. Pasolini aveva anche il fisico del poeta orfico e veniva benissimo in fotografia, anche nudo, come nelle famose e un po’ hitchcockiane foto di Dino Pedriali, in cui un Pasolini non più giovanissimo mostra un invidiabile fisico da modello. ‘La poesia è una cosa rara, e hanno assassinato un poeta’, come disse Moravia al funerale. Una poesia che si legge poco, come tutta la poesia, ma nel suo caso ‘non importa quello che ha scritto. Pasolini ci regala la soddisfazione di amare la poesia senza la noia di leggerla’. In secondo luogo, il mito ci conferma, è sempre Siti che parla, che ‘esistono i profeti, che intuiscono e vedono per noi’ e da cui deriva la nostalgia per gli intellettuali pubblici come lui (e in seconda fila Sciascia) che ci mostravano un futuro da evitare a tutti i costi e che chiaramente abbiamo almeno in parte evitato, dato che è piuttosto diverso da quello che prevedeva lui, tipo quando nel 1963, intervistato da Arbasino, azzarda che il Ghana sarebbe in pochi decenni diventato ricco come la Svizzera. Come diceva il grande Yogi Berra, ‘le previsioni sono sempre difficili, specie quando riguardano il futuro’. Però è un fatto che lui vedeva, da un punto di vista suo particolare e spesso problematico, i fenomeni del suo tempo con una lucidità e una intensità diversa da quella di altri osservatori, apparentemente più ragionevoli e concreti – tipo Umberto Eco – ma che poi hanno finito per sbagliare anche loro tutte le previsioni. Il male, piuttosto, viene dal considerare quella di Pasolini una ‘testimonianza che si stava meglio prima’, perfetta per un paese dove la piramide demografica si è rovesciata rispetto ai suoi anni e dove predominano i vecchi, cioè la nostalgia e la paura e dove perciò si può sostenere che ‘i suoi sottoproletari erano adorabili mentre quelli di adesso fanno schifo; ma chi lo dice avrebbe trovato che facevano schifo anche quelli di una volta, se solo ci fosse capitato in mezzo’. Dobbiamo tornarci, ma il mito di Pasolini fa parte di quella montagna di scorie tossiche da sotto la quale l’aspirante scrittore d’oggi è costretto a cercare di strisciare fuori per avere almeno la possibilità di provarci, anche quando arriva a capire che il mantra del ‘oggi non si può più’ è drammaticamente vero, benché non nel senso giornalistico corrente, e che il ‘fail better’ beckettiano pare l’unica possibilità concreta.

Fondamentali per il mito, poi sono la convinzione decisamente tossica che ‘basta la passione per capire’, di cui abbiamo già detto, unita al ‘coraggio della proprie idee, fino alla morte’, idee che poi, per esempio riguardo alle sue concezioni riguardo all’omosessualità, di cui parlavo nell’articolo scorso, sono a dir poco discutibili e sarebbero considerate molto negativamente se prese sul serio. Ovviamente il mito non può negare l’omosessualità di Pasolini ma ne fa una ‘omosessualità esemplare’, virile e sprezzante verso gli omosessuali attirati dagli altri omosessuali fino al punto di volerli sposare (cosa che sono abbastanza certo avrebbe combattuto strenuamente, come pure politically correct, cancel culture e #metoo, cioè tutti gli spauracchi degli intellettuali di mezz’età che hanno bisogno di qualcosa su cui indignarsi. Oso sperare che Pasolini l’avrebbe fatto con un minimo di originalità). La sua condizione l’ha pagata, però. ‘Da perfetto capro espiatorio, ha peccato ed è stato punito per tutti. Questo segmento del mito dà la soddisfazione di sentirsi tolleranti e superiori’ e di derubricare la sua pederastia a tratto caratteriale e non allo strumento conoscitivo e ragione di vita che era per lui. Lo si rimuove dalle sue analisi socio-politiche mentre, come ci ricorda Belpoliti ‘l’omosessualità rimossa di Pasolini è trattata come una sorta di vizietto, un elemento su cui sorvolare, mentre costituisce la radice vera della sua lettura della società italiana, l’elemento estetico su cui egli ha fondato la critica della società dei consumi. Le lucciole, scomparse per via dell’inquinamento di fiumi e rogge, non sono solo la metafora della modernizzazione senza sviluppo denunciata da Pasolini, ma anche della scomparsa dei ragazzi eterosessuali disposti all’incontro con lui. Le lucciole sono i ragazzi’.

Siti conclude notando come il mito di Pasolini ‘può contare su quelli che in Italia promuovono la cultura’ ma non sono davvero interessati né alla poesia né alle idee, perché ‘c’è un Pasolini che appartiene ai letterati italiani, e un Pasolini che appartiene a un microcapitolo di storia delle religioni. E non è affatto detto che il Pasolini del mito, tra i due, sia il meno interessante’ (il tipico understatement sitiano: Dio, come lo odio, anche quando ha ragione).

Detto questo, però quel che mi chiedo io è un’altra cosa e cioè, come c’è riuscito? Come ha potuto Pasolini vivere in quel modo, così in pubblico, così costantemente sotto processo (letteralmente sotto processo: fra il 1955 e il 1975 si dovette presentare in qualche tribunale praticamente ogni mese) pur rimanendo uno scrittore e regista importante, pubblicato da Garzanti e editorialista dei maggiori giornali oltre che regista che trovava facilmente i finanziamenti necessari per i suoi film? Persino la RAI, da lui tanto odiata, gli commissionò un reportage dall’India. Oggi, chiaramente, non sarebbe possibile, di certo non così in pubblico, e non è nemmeno del tutto preciso dire che oggi la morale è cambiata, dato che il suo ‘stile di vita’ (come avrebbe odiato questa frase) era attaccato e condannato anche allora. Allora, come fu possibile?

Questo sarà l’argomento del prossimo – e ultimo, lo prometto – articolo.

[CONTINUA…]


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    Di Simona Zecchi

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