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Fiori gialli
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 06/06/2023 0 Comments 37 min read
Menelao nello stagno Previous Ultima chiavata - la playlist finale Next

di Elisa Carini
Copertina di Cirkus Vogler

La signora Testi ha gli occhi fissi nell’argenteria ordinata al di là del vetro. Si tormenta il bordo della gonna, la cuticola di un’unghia. Sospira, alza lo sguardo. Suo marito cammina avanti e indietro, dalla porta della cucina fino al divano. Ha le mani sui fianchi, la bocca asciutta. Arianna è in silenzio accanto all’ingresso, tiene gli occhi bassi e le mani incrociate sul grembiule grigio. Una macchina si ferma davanti a casa. Arianna incontra lo sguardo della signora Testi, che cerca quello del marito. Lui bisbiglia: «Eccolo» e lei si alza in piedi.

La macchina riparte e, dopo un istante di silenzio, il campanello suona.

Gliel’avevano detto, che sarebbe arrivato così.

Il signor Testi deglutisce a fatica, poi apre la porta.

Oliviero indossa il maglione blu a rombi, sorride. Fuori c’è il sole, è una bella giornata. Il signor Testi stringe gli occhi trafitti dalla luce del sole. Nel giardino dei Marchetti gli irrigatori sono accesi e c’è odore di carne grigliata, le ragazze ridono. Il signor Testi le immagina correre sotto i getti d’acqua fredda, pensa ai loro piedi ancora vivi tra i fili d’erba e le margherite bagnate. Le figlie dei Marchetti ridono, e suo figlio è tornato. Arianna guarda il maglione blu a rombi, guarda Oliviero – il suo Oliver – che sorride, e si fa il segno della croce.

Natalia Testi si porta le mani alle labbra sottili. «Il mio Oli» dice, sul mento ha una sbavatura di rossetto color corallo. «Entra».

Il signor Testi prende il viso di Oliver tra le mani. Dice: «Figlio mio» e lo stringe a sé.

Oliver posa il mento sulla spalla del signor Testi, respira il suo odore sconosciuto, e incrocia lo sguardo di Arianna, che chiude gli occhi per non guardare.


Natalia Testi apre la porta della camera e dice a Oliver di entrare. «Sarai stanco» dice, «c’è sempre tanto traffico per andare all’aeroporto. E la zia ha pure perso l’aereo! Tanta fatica per niente…» – si liscia la gonna senza mai smettere di ridacchiare – «Vuoi riposarti un po’ prima di cena?»

Sulla parete vicina al letto – le coperte e i cuscini blu, un pupazzo a forma di squalo – il poster di Pablo Honey dei Radiohead e delle polaroid. Ci sono i compagni di classe, la squadra di pallanuoto, gli amici del quartiere. Oliver sa tutti i loro nomi. C’è anche la fotografia di Lola: due trecce di capelli biondi, occhi scurissimi e unghie smaltate di nero. Oliver si volta verso Natalia – che ridacchia senza mai sbattere le palpebre e sembra spaventata, e Oliver lo sa, che è spaventata per colpa sua – e fa per parlare. Natalia fissa il maglione di Oliviero e cerca di ricordare dove l’ha messo, quello che indossava lui quella sera. Non se lo ricorda, e quindi le viene da vomitare. Oliver tossisce e risponde: «Si, grazie» e la signora Testi abbassa lentamente lo sguardo. Accenna un sorriso e dice: «D’accordo. Mando Arianna a chiamarti quand’è pronto». Oliver si guarda le punte delle scarpe nuove: «Va bene…». Gli hanno detto di chiamarla “mamma”, perciò dice: «Va bene… mamma» e senza alzare lo sguardo, senza parlare, Natalia se ne va.


Oliver sente Natalia che cammina veloce verso le scale, che scende al piano di sotto, che dice ad Arianna: «Comincia pure ad apparecchiare, grazie,» e si chiude in salotto insieme al marito. Un fulmine illumina il cielo turchese, comincia a piovere. Piano, poi sempre più forte. Un tuono fa vibrare i vetri delle finestre e i coniugi Testi si guardano. Arianna stringe la croce d’oro che ha al collo e un ramo sbatte contro il vetro. Natalia chiude gli occhi – sospira –, poi li riapre e guarda la fotografia commemorativa di Oliviero, che se ne sta appesa alla parete fra una natura morta e una lampada. In bianco, sotto l’immagine stilizzata di una colomba, la scritta: Oliviero Testi, per sempre con noi.


Oliver si stringe fra le braccia e cammina verso la libreria. Trofei di pallanuoto e libri di scuola. Prende il quaderno di letteratura – la copertina a righe bianche e blu, un adesivo della squadra – e lo sfoglia lentamente. La calligrafia di Oliver è disordinata, piccola e storta, pende verso sinistra. L’ultima pagina è datata al 20 dicembre.

e ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti –
gli occhi che ti fissano in una frase formulata,
e quando sono formulato, appuntato a uno spillo,

quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro
come potrei allora

A margine che palle cazzzoooo, quattro occhi stilizzati a penna blu, e “Ciao Oli, by Susie”, un cuore sulla i. Le pagine che seguono sono bianche. Oliver sfiora i rilievi tracciati dalla penna, dal polso, dalle dita di Oliver impressi nelle pagine sottili. Guarda fuori dalla finestra senza lasciare il quaderno. Gli irrigatori dei Marchetti sono ancora accesi nonostante la pioggia, e il cielo è di un blu uniforme e brillante, senza nuvole. Sui marciapiedi, nelle pozzanghere scure, si scioglie l’arancione delle luci accese. Oliver pensa che è la prima volta che si trova nel mondo fuori, e che sembra tutto finto. Oliver fissa le finestre chiuse cha galleggiano nell’acqua, le luci accese, e continua a stringere il quaderno, la copertina a righe bianche e blu con l’adesivo della squadra. Al piccolo fiore disegnato sull’angolo, a quello non ci ha fatto caso.


Nella villetta accanto a quella dei Testi, il signore e la signora Marchetti e le loro figlie Susanna e Angela stanno cenando. Oliver incrocia lo sguardo della più piccola, che smette di masticare e rimane immobile mentre i genitori parlano e gesticolano e la sorella più grande si versa un altro po’ di vino e il signor Marchetti la rimprovera perché è ancora piccola e «guarda che poi diventa un vizio, io te lo dico» e la signora Marchetti ride perché suo marito è sempre il solito melodrammatico e ripensa a quell’indovina quando viveva in spagna e faceva l’università che le aveva detto che era dovuto al fatto che fosse bilancia e le aveva anche detto che sarebbe morta giovane e infatti stava morendo «è solo un po’ di vino» dice ripensando all’indovina e sorride con intesa a sua figlia che fa «ma papi ho preso il massimo in geometria» e il signor Marchetti scuote piano la testa e dice che ai suoi tempi era un dovere prendere il massimo dei voti e non si beveva vino per festeggiare soprattutto se si aveva ancora quattordici anni «ma papà ne ho quindici e sette mesi praticamente sono maggiorenne» e in effetti la signora Marchetti pensa che tra poco Susie avrà la patente e che i fiori gialli le mettono tristezza ma continua a ridere e accarezza piano la schiena del marito e dice che più invecchia più diventa polemico «ma anche attraente» e Susanna fa «bleah» e la signora Marchetti pensa che è bello che sono tutti lì a casa al caldo mentre fuori piove è proprio una bella sensazione da tirare un sospiro di sollievo poi pensa ai panni stesi fuori e al traffico se domani piove poi però si ricorda dei Testi e di Oliviero e si dice almeno siamo tutti qui loro sono tutti lì a casa al caldo vivi sono vivi respirano Susanna e Angela e suo marito respirano e se stanno bene va tutto bene va bene così stanno bene respirano e fuori piove poi Susanna fa di nuovo «bleah» e Angela non parla strano che Angela non parli invece il signor Marchetti guarda sua moglie e con gli occhi le dice che andrà bene tranquilla ci sono io ma in realtà sta pensando che è proprio vero che nessuno è davvero speciale che le ingiustizie quindi forse non esistono «susanna basta con quel vino» guardala nemmeno mi ascolta sembra mia sorella alla sua età indisponente stronza maleducata mentre mi dice «non rompere pà dai» lo dice e intanto ripensa al bacio con Pierre dopo il compito di geometria che non ha preso proprio il massimo ma quasi e vabbè tanto la firma di papà è così facile da imitare scriviamo uguale e oddio cazzo Susanna vorrebbe morire proprio morire che schifo che vergogna quel ragazzo col nome strano che pensa che lei abbia un nome strano da vecchia e da attrice porno povera nonna Susanna che era vecchia e sorda e pure un po’ stronza ma i porno non li girava chissà da dove deriva la parola porno che dopo un po’ che lo dici non ha più senso come Susanna oddio che male allo stomaco ma quindi l’amore è un dolore intercostale un intossicazione alimentare una nausea che non finisce che schifo magari passo da Clarissa stasera che c’è la festa così mi distraggo e non penso a Oliver che è morto ma figurati se papà questo rompicoglioni testa di cazzo mi ci manda che nausea devo andare in bagno domani c’è Pierre Pierre con il suo nome strano e i capelli troppo lunghi e quella lingua la lingua di Pierre che piace anche a Margherita che ha il nome di un fiore e si muove aggraziata si muove nell’aria senza mai appoggiare i piedi a terra per me la gravità invece è doppia e non voglio morire non voglio soffrire voglio vivere e ho paura di tutto e non mi fa paura niente e Margherita è come le tazze di porcellana della nonna Susanna quelle che ne ho rotte tantissime e oddio che palle papà con ‘sta storia del vino che non mi piace nemmeno ma voglio solo dargli fastidio io faccio quello che voglio e mi gira già la testa tutta la testa tutta


Oliver si siede sul bordo del letto. Si passa da una mano all’altra il peluche a forma di squalo – una canna e un accendino nascosti dentro da dicembre – e fissa lo sguardo nel muro, nel calendario fermo a dicembre. Dicembre. Dall’altra casa – quella che dalla stanza di Oliver non si vede, quella del signor Chiaro che ha lasciato i figli soli per il weekend – dall’altra casa viene della musica assordante. La canzone chiama You Should All Be Murdered e Oliver pensa che sembra una bella canzone, ma non capisce le parole, pensa anche che la stanza – gli viene in mente in quel momento, lo sguardo fisso nel pavimento – pensa che la stanza ha l’odore di un’altra persona, della pelle di un’altra persona, dei capelli di un’altra persona, del suo sapone, dei suoi vestiti, la stanza ha l’odore di un’altra persona. E pensa a Denise, al suo corpo senza cuore.

Finalmente Angela Marchetti ingoia il boccone di pasta e ruba un sorso di vino a Susanna. Sul suo diario quella sera scriverà: “Oggi ho visto il fantasma di Oliviero Testi” e quella storia la racconterà per la prima volta all’uomo che sposerà – brilla, ad una festa – molto, molto tempo dopo.

Oliver siede a tavola di fronte al signor Testi, che gli sorride in silenzio, la testa che si muove piano avanti e indietro, gli occhi nel maglione blu a rombi. Sulla tovaglia bianca, pane, insalata, pomodori e un vaso di orchidee gialle che Arianna ha comprato al mercato. Natalia Testi prende posto di fianco al marito, poi guarda le orchidee per qualche secondo e socchiude gli occhi. Chiede ad Arianna di portarle via e il signor Testi abbassa lo sguardo nel piatto vuoto.

«Arianna ha fatto l’arrosto che piace a te» dice Natalia Testi dopo un sospiro, «quello con i funghi».

Oliver annuisce. «Grazie» dice, ma il signor Testi coglie una stortura nel suo sorriso, nella sua espressione.

Pensa che Oliver le sopracciglia non le ha mai mosse così, che quello non è il suo maglione a rombi. Pensa, Questo non è mio figlio, e lo guarda. Poi si dice che No, che è lui, è Oliver. Guardalo, gli occhi scuri che corrono per la stanza, tre nei sulla guancia, l’incisivo scheggiato. È lui. Solo per questa sera.

Natalia posa la mano sul braccio del marito e per la terza volta gli chiede: «Basta così o ne vuoi un’altra fetta?» Arianna è in piedi con il vassoio della carne, arrosto e funghi, gli occhi nella camicia del signor Testi. Oliver la guarda e lei sente il cuore batterle forte nelle orecchie, un suono ovattato, come un martello che colpisce della stoffa. Edoardo Testi risponde: «No, grazie. Così va bene».

Arianna serve Natalia, poi Oliver. «Grazie» dice Oliver, poi fissa per qualche secondo il posto vuoto alla sua destra. Natalia alza lo sguardo dall’arrosto e sospira. Lancia un’occhiata al marito, poi torna su Oliver. «Lola non è potuta venire» dice alzando le spalle, e Oliver annuisce. Assaggia l’arrosto, e il sapore dei funghi gli fa venire la nausea. «Molto buono» dice. Il signore e la signora Testi si guardano, sorridono. «Un brindisi» fa all’improvviso Natalia Testi, «Un ultimo brindisi al nostro Olli».


In fondo al cassetto della biancheria, tra i boxer neri e blu e i calzini spaiati, Oliver trova un walkman verde acqua, un paio di cuffie attorcigliate e un cd. In viola la scritta: “Ti amo x sempre. – LOLA”, e un cuore trafitto da una freccia.

Oliver si sdraia sul letto con gli occhi nel soffitto bianco e le mani incrociate sul maglione blu a rombi. Pensa che ha ancora in bocca il sapore dei funghi, che la prima traccia – la canzone si chiama Beach Baby e non è triste, ma nemmeno allegra – pensa che la prima traccia non gli sta piacendo. Oliver sa, lo sa, ne è sicuro perché lo sente pensante nel petto, Oliver sa che la canzone, anche la canzone è di qualcun altro, e ad ascoltarla si sente come quella volta che gli è venuta la febbre a quarantuno. Pensa che non appartiene, e chiude gli occhi. Forse, pensa Oliver, Oliver e Lola hanno fatto sesso la prima volta ascoltando questa prima traccia, una canzone che si chiama Beach Baby e che a lui non sta piacendo, forse hanno ascoltato questo disco con la scritta “Ti amo x sempre” e forse mentre Lola scriveva “Ti amo x sempre” con il pennello dello smalto viola – un mucchio di vestiti a terra e i compiti di matematica da finire e un preservativo rubato dal cassetto del fratello nella borsa – forse mentre Lola scriveva “Ti amo x sempre” ci credeva davvero. Dei rami sbattono contro la finestra. Oliver si gira sul fianco e inspira a lungo, gli occhi chiusi. Arrotola la manica del maglione. Sottopelle, il timer conta -17 ore 43 minuti e 04 secondi, 03, 02, 01. 17 ore, 42 minuti e 59 secondi. Le cifre sono rosse, luminose, e si intravedono appena. Un tuono scuote il vetro della finestra e una voce grida: «Ehi! Apri!» Oliver si mette a sedere. Il signore e la signora Testi dormono, Arianna è tornata a casa sua. «Mi senti?» Bussano sul vetro. «Svegliati! Apri!» Oliver corre alla finestra è scosta la tenda. Lola rimane immobile, gli occhi spalancati, le nocche bianche sul vetro bagnato. Oliver apre la finestra e la aiuta a entrare. Ha i capelli zuppi, i vestiti appiccicati alla pelle chiara e il trucco sbavato, una cicatrice sulle labbra screpolate.

«Addolorata…»

Lola si stringe tra le braccia e annuisce, batte i denti dal freddo, «Lola» dice. «Addolorata è un nome orribile e deprimente…»

Oliver sorride e pensa che forse un po’ è vero. «D’accordo, Lola» Incrocia le braccia sul petto. «Non sei venuta a cena».

Lola lo guarda in silenzio e pensa che più di ogni altra cosa, quello che più di ogni cosa vorrebbe fare è uccidere la persona che ha messo a Oliver quel maglione a rombi, vorrebbe uccidere la persona che ha comprato lo stesso identico maglione blu a rombi, la persona che ha cercato il negozio e ha chiesto la taglia e si è assicurata che fosse lo stesso identico maglione blu a rombi.

 «No» risponde Lola dopo una mezza risata. Torna seria e gli chiede: «Perché sarei dovuta venire?»

Oliver apre la bocca, ma rimane in silenzio.

«Hai tre nei» dice Lola, e gli sfiora la guancia con la mano bagnata. «Come lui». Sorride. «Lo stesso naso, le stesse labbra.» Oliver chiude gli occhi e si lascia toccare come una statua di creta modellata dalle dita sottili di Addolorata, dalle sue dita sottili e bagnate e smaltate di nero. «Chi sei?» bisbiglia.

Oliver apre gli occhi e rimane in silenzio. «Sono Oliver» risponde distogliendo lo sguardo.

Lola indietreggia e guarda altrove, le polaroid appese al muro, il poster di Pablo Honey, un disco che a lei non piaceva. «No» dice, «Non s –.»

«Hai freddo.» Oliver è accigliato, lancia un’occhiata all’armadio, poi torna a guardare Lola e Lola pensa che Oliver le avrebbe sfregato entrambe le mani sulle braccia e avrebbe domandato: «Hai freddo?» e le avrebbe detto che non poteva uscirsene sempre così senza giacche, felpe, ombrello, e poi avrebbe sorriso e le avrebbe dato una sua felpa brutta che lui non metteva più perché sapeva che non gliele avrebbe ridate. Lola pensa che Oliver non faceva affermazioni, ma domande, e che le sue felpe ce le ha ancora tutte.

«Non sei Oliver.»

Oliver si avvicina all’armadio, ma Lola lo supera. Apre le ante – una ciocca di capelli che si alza e le sfiora il naso – e rimane immobile.

L’odore.

L’odore dolciastro, di pulito, caldo e intenso e buono, ma anche umano, vivo.

Lola prende la felpa della squadra di pallanuoto appallottolata in fondo a un cassetto e la annusa. Sa della palestra della scuola, degli spogliatoi umidi, di cloro, di sudore.

Lola pensa al sapore salato del sudore di Oliver, al sudore tra il suo petto e quello di Oliver, al sudore tra i capelli appiccicati alla schiena, Lola pensa al sapore amaro del suo sperma, poi si spoglia e infila la felpa.

Oliver ha lo sguardo nel poster di Pablo Honey, ma la vede. La schiena bianca, un enorme livido giallastro sul fianco.

 «Andiamocene» dice Lola stringendosi nella felpa spiegazzata.

Oliver si volta e la guarda senza capire.

«Andiamocene» ripete Lola alzando le spalle. La felpa spiegazzata, azzurra e con le maniche bianche e lo stemma a forma di squalo, le arriva alle ginocchia. Un altro livido giallastro, un graffio. «Via da questi pazzi da internare.»

Oliver solleva la manica del maglione e dice: «Non posso.»

«17 ore e 24 minuti a…che cosa?» domanda Lola sfiorandogli la pelle con le dita fredde.

Oliver ha un sussulto, Lola scosta la mano e la infila in tasca, stringe la stoffa.

«Domani passeranno a prendermi» risponde lui, «dopo che avrò salutato il signore e la signora Testi. L’iniezione entrerà in circolo e porteranno via il mio corpo.»

Lola rimane immobile con gli occhi scuri nei numeri rossi e Oliver pensa a Denise, al suo corpo senza cuore.


Il signor Testi apre gli occhi. Gli manca l’aria. Non sa dove si trova, cos’è successo. Poi ricorda. Si mette a sedere. Gli sembra di non riuscire a riempire i polmoni. Una macchina attraversa il vialetto. La luce dei fanali filtra attraverso i fori della tapparella e proietta sul soffitto deboli fasci luminosi. Sono a casa e non è successo niente, e Oliver è morto. Il signor Testi sente il battito cardiaco che rallenta, le spalle che si rilassano. Beve un sorso d’acqua che è lì dalla sera prima e chiude gli occhi. Inspira una lunga boccata d’aria, trattiene il fiato per tre secondi ed espira lentamente. Ripete tra sé il proprio nome, cognome e data di nascita. Come gli ha raccomandato l’analista. Nome, cognome e data di nascita. Dalla casa accanto, la villa dei Chiaro, si sente ancora della musica. Edoardo Testi si sdraia e rimane con gli occhi aperti a fissare il buio. Prima di addormentarsi, si domanda se mentre Oliver cantava i King Crimson alla radio – nell’auto distrutta hanno trovato un disco dei King Crimson, forse non lo stava ascoltando, Oliver, ma quando Edoardo Testi ci pensa in sottofondo ci sono sempre loro, che infatti non ascolta mai –, si domanda se mentre usciva dal vialetto di casa per poi fermarsi, aprire la portiera e dire a Lola: «Sei in ritardo, come sempre», se mentre imboccava la strada provinciale che portava all’autostrada, se mentre prendeva l’uscita per l’aeroporto, il signor Testi si domanda se mentre le gomme scivolavano sul ghiaccio, se mentre perdeva il controllo dell’auto e si schiantava contro il guardrail suo figlio fosse felice.


«Venivate qui spesso?»

Dal tetto si vede tutto il quartiere. Ha smesso di piovere. Gli irrigatori dei Marchetti sono ancora accesi, i panni stesi nel giardino sul retro gocciolano piano. Le strade sono allagate, le gomme delle auto parcheggiate nei vialetti sommerse. Dalla casa dei Chiaro si sente ancora della musica, il volume basso, poche persone rimaste a ballare nel soggiorno ricoperto di festoni e bicchieri vuoti e lattine di birra e patatine schiacciate. Nora Lou ha finalmente avuto il coraggio di chiedere a Tommaso di ballare, i suoi tacchi troppo alti schiacciano dei dolci alla cannella che Federico ha fatto cadere perché era ubriaco e recitava Shakespeare («Ascolta la mia anima parlare!») e Nora Lou pensa che sfiga proprio davanti a Tommaso ma Tommaso pensa che Nora Lou è così bella con quel vestito azzurro che forse gli comincia a tirare e quindi si dice che è un altro di quei momenti in cui deve pensare a quando ha lavato la dentiera di nonna e poi ha usato lo stesso spazzolino e ha bevuto dallo stesso bicchiere dov’era immersa la dentiera perché era distratto e – no, niente da fare, però almeno trova il coraggio di dirle: «Sì, balliamo… Ma non so ballare» e Nora Lou risponde che è perfetto perché nemmeno lei sa ballare e Tommaso dice «Figa questa canzone» e lei dice che sì, è fighissima, e Tommaso sorride e si lascia prendere le mani e Nora Lou se le porta alla vita e stringe le sue attorno al collo di Tommaso, Tommaso che lava la dentiera della nonna e che per farla ridere una volta si è messo i suoi vestiti e ha preso a suonare la chitarra elettrica e per poco la nonna non è morta di infarto e infatti si è pure preso uno schiaffo dal padre. Tommaso, che è buono che è gentile ma che, pensa Nora Lou, è piuttosto brutto e gracile e si veste di merda ma quando c’è lui in classe lei ride sempre fino a perdere il respiro e si sente le mani sudate e pensa che non gliene frega niente dei suoi vestiti di merda e dei suoi denti storti, che vuole che si metta i suoi vestiti e che la faccia ridere e che le racconti ancora di quella volta che ha pulito la dentiera di sua nonna e ha bevuto l’acqua e –

Lola si siede accanto a Oliver e sospira, «In realtà no» risponde. «Oli aveva paura dell’altezza» sorride tra sé e lo guarda. «Era un po’ un cacasotto, in realtà».

«Eri in macchina con lui».

Lola appoggia il mento alle ginocchia – il polpaccio destro è pieno di lividi gialli e cicatrici violacee – e sospira, «Stavamo andando all’aeroporto a prendere sua zia».

«Lo so».

Lola guarda Oliver e sorride. «Non ricordo niente».

«Forse è meglio così».

Si sfiora la cicatrice sul labbro. «Già». Lola chiude gli occhi, poi sospira. «Parlami del Centro, cos’è? E tu chi sei? Da dove vieni? Come stai?»

Oliver risponde che non è importante, poi si sdraia. Il tetto è bagnato. Pensa che non ha mai fatto il bagno del mare perciò dice: «Non ho mai fatto il bagno nel mare. Non ho mai visto il mare.»

Lola guarda Susanna che sbuca dalla porta sul retro di casa sua, quella della cucina, e sgattaiola verso la festa di Clarissa Chiaro. Le sorride anche se lei non può vederla e ripensa alle serate al bowling e al cinema e alla piscina della scuola, di notte, insieme a lei, Oliver, Clarissa e Tommaso. La guarda scomparire dietro un camion parcheggiato e si sdraia. Sente la stoffa del maglione inzupparsi d’acqua e mischiarsi all’odore acre del sudore stantio di Oliver. Si volta verso il ragazzo. «Quanto ti rimane?»

«16 ore 14 minuti e 02 secondi.»

«Non hai paura?»

«No.»

Lola lo guarda guardare il cielo. «Il mare non è così lontano» dice. «E io so guidare» le sfugge un sorriso. «Meglio di Oli, questo è sicuro».

Oliver accenna un sorriso, poi torna serio. Si volta verso Lola e le stringe la mano, le dita ruvide in ammollo nell’acqua gelida. Lei chiude gli occhi e dice: «È che non so più cosa farmene di tutto… quello che provo per lui» e Oliver stringe più forte, le fa male, ma lei ricambia la stretta. «Ce l’ho qui – si porta l’altra mano all’altezza dello stomaco – ce l’ho fermo qui, come qualcosa che non ho digerito. È grande, gigantesco e io non so dove metterlo».   
Oliver chiude gli occhi. «Lo so».

«Chi è Denise?» chiede Lola dopo un istante. Le sopracciglia aggrottate, i capelli sparsi sul tetto bagnato. «Ti prego, parlami del Centro… è vero quindi quello che dic–».

«Non è importante, davvero». Oliver sorride.

«Era la tua fidanzata?»

Oliver ride. «No. Ma penso –».

Lola si mette a sedere e guarda verso la casa dei Chiaro. Ancora musica, il volume un po’ più basso. Nora Lou e Tommaso che ballano nel soggiorno ricoperto di festoni e bicchieri vuoti e lattine di birra e patatine schiacciate, Susanna che apre piano la porta, e le viene da ridere perché si sente un po’ brilla.

«Cosa?»

«Penso di aver provato per lei quello che tu…»

Lola gli sorride. «Andiamo» dice. «Cinque ore al massimo e siamo al mare. Ci guardiamo l’alba».

«Ma… i Testi?»

Lola si alza in piedi e fruga nella tasca dei pantaloni. «È un po’ bagnata, ma…»

 «Cos’è?» domanda Oliver.

«È una lettera che Oli ha scritto ai suoi» gliela allunga, «quando volevamo scappare, l’anno scorso». 

«Volevate scappare?» Oliver apre la lettera. La calligrafia di Oliver è disordinata, piccola e storta, pende verso sinistra. È datata al 15 luglio, l’inchiostro è appena sbavato. Potrebbe raccontarle del piano di fuga che avevano lui e Denise, ma si rende conto di non averne voglia.

Lola annuisce. «Sì. Eravamo entrambi incazzati con i nostri genitori. È stata una mia idea. Oli non voleva. L’ho beccato a sigillare la busta praticamente in lacrime e ho capito che non voleva. Non voleva farli soffrire. Allora una notte ci siamo intrufolati nella piscina della scuola e ci siamo fatti arrestare. Non ha molto senso, ora che ci penso. Volevamo farli incazzare ancora di più, immagino. Mi sembra passata una vita. Una vita intera.»

“17 luglio. Cara mamma, caro papà, a volte vi odio. In un modo che non immaginate. Dite sempre che –”. Oliver smette di leggere e infila la lettera nella busta.

«È giusto che ce l’abbiano loro».

«Ma hanno bisogno del suo addio».

Lola gli strappa la busta dalle mani, «Questo è un vero addio» dice sventolandola in aria, «il tuo no. Tu non sei Oliver». Chiude gli occhi e prova a deglutire. Infila la busta in tasca e allunga una mano verso Oliver. «Tu sei…,» Lola prende un lungo respiro e gli sorride. «Scegliti un nome.»

Oliver pensa che il nome Oliver gli piace, in fondo, che è suo, è il suo nome ed è il nome con cui lo chiamava Denise, il nome che Denise gridava, il nome che Denise ansimava quella notte nel giardino del Centro… tutto pronto per l’operazione, la recinzione troppo alta, ma «Almeno abbiamo questa notte pensa che c’è chi non ha nemmeno questo», «Ma pensa che c’è chi è libero». Oliver gli piace, gli piaceva come lo diceva Denise – la rrr che lo faceva ridere – e lei si arrabbiava e diceva qualcosa tipo: «è il segno lasciato dal falsario per farsi scoprire, perché vogliamo essere tutti smascherati, vogliamo tutti…» Poi non se lo ricorda più, cosa diceva Denise. Oliver, quel ragazzo che giocava a pallanuoto e che ascoltava i Radiohead e che teneva una canna e un accendino nel pupazzo a forma di squalo e che ricopiava le poesie a metà e che non sapeva guidare, che scriveva ai genitori Vi voglio bene, io e Lola andiamo al Sud, faremo famiglia lì, grazie di tutto, gli piaceva quel ragazzo che avrebbe gridato nel vederlo per strada… ma io non sono te Oliver ho la voce più acuta e non conosco Lola, non vedo come vedi tu, non penso come pensi tu, io non vivo come vivi tu, come hai vissuto tu e questo non è il mio maglione e non è nemmeno il tuo, è un maglione nuovo che odora di nuovo e chissà se ti piace o se ti hanno obbligato a metterlo per andare a prendere la zia in aeroporto, chissà se Lola ti ha preso in giro e Oliver, Oliver questa non è la mia vita, questa non è la mia –

«Pablo Honey» risponde Oliver.

Lola aggrotta le sopracciglia bionde. «Pablo Honey?»

Pablo afferra la mano di Lola e si alza in piedi. «Pablo Honey».

Lola gli sorride. «Piacere di conoscerti, allora. Io sono Anna Bolena».


Natalia ascolta il respiro di suo marito farsi regolare. Gli accarezza la schiena. Soffriva di insonnia anche da ragazzo, anche prima di Oliver, anche prima del 23 dicembre. Le notti prima del parto non dormiva. Chiedeva, «Sarò un buon padre?» e Natalia rispondeva che «Sì,» sarebbe stato un buon padre perché era un brav’uomo, e lui rispondeva che essere un brav’uomo non significava necessariamente essere un buon padre, e si chiedeva se sarebbe mai stato capace di fare del male a qualcuno. Certe notti si immaginava a uccidere un uomo senza volto, a spaccargli il cranio, a riderne, a trarne del piacere. Si immaginava a stuprare una donna. «Potrei farlo davvero?» Si rigirava tra le coperte e si chiedeva: «Sarò un buon padre?» «Non voglio essere un padre di merda come il mio» diceva a Natalia, «c’ha provato, lui, c’ha provato, ma non… Doveva buttarmi nel cesso», e Natalia si arrabbiava, diceva: «Non dire queste cose ma come ti viene in mente» e qualche volta quando erano ragazzi e lui piangeva lei gli diceva: «Sono io la tua famiglia, e tu la mia.» Si metteva a ridere e diceva: «Ti farò da madre e da padre e da nonna e da figlia» e lui annuiva, sorrideva e le baciava le guance e si sentiva così completo, così felice. «Un figlio. Mio figlio,» diceva sognante, e poi ancora: «E se poi sono un padre di merda? Se è genetico? Se gli rovino la vita?» e pensava a sua madre che lo portava al mare a mangiare il gelato, che lo stringeva e gli leggeva i libri prima di dormire, che cantava per lui. Sua madre che lo chiamava «Amore mio» e che la gente scambiava per sua sorella perché era piccola, minuscola, che quando lui aveva compiuto diciannove anni c’erano giorni in cui avrebbe voluto essere lui il genitore, la guardava dormire e pensava, «Mamma…Ti prego non morire…», poi era morta comunque. «E se sono un padre di merda?» Natalia diceva che era impossibile, che lo conosceva, che c’avrebbe messo non una, non due mani sul fuoco. Ci si sarebbe messa tutta, nel fuoco, «Come Giovanna d’Arco». «Se è una femmina chiamiamola Joan,» aveva detto lui, «Così me lo ricorderò» e Natalia aveva detto: «Va bene, ma se è maschio Oliver». Come Oliver Twist, che era il suo romanzo preferito da ragazza, che poi l’aveva riletto dopo il parto e si era addormentata annoiata a morte, che palle, e se fosse nato qualche anno dopo l’avrebbe chiamato… «Come ti avrei chiamato?» Natalia si infila una mano nelle mutande. «Signora, dobbiamo metterle 15 punti» le avevano detto all’ospedale, suo marito che a momenti sveniva. Natalia avrebbe pianto per settimane, seduta sul vater. «Il rogo di Giovanna d’Arco tra le gambe,» diceva, e lui le stava inginocchiato accanto e diceva: «Io sarei già morto» e le teneva la mano mentre piangeva e Natalia ripeteva: «Il rogo di Giovanna d’Arco tra le gambe». Diceva spesso cose del genere, Edoardo Testi, che sarebbe crepato, che il caldo estivo l’avrebbe ammazzato che – e invece era morto prima suo figlio. Natalia si volta su un fianco. Guarda suo marito che dorme, il per metà illuminato dalla luce arancione dei lampioni. Gli posa una pano sul petto e cerca di accordare il respiro al suo. Da quando Oliver è morto sembra invecchiato di cent’anni, Edoardo. Ha perso la metà dei capelli e tra le sopracciglia gli è comparsa una ruga profonda che prima non c’era. Ripensa a quant’era bello all’università, con i suoi capelli lunghi e i suoi enormi occhi scuri, lo sguardo timido. Aveva scoperto di essere incinta il giorno in cui uscivano i risultati per la borsa di studio. Avevano entrambi fatto domanda per andarsene in Oceania. Studiavano antropologia. L’aveva capito dopo quell’attacco di vomito davanti al caffè che le aveva portato Edoardo, che era sempre gentile. Si posa una mano sulla pancia. Si domanda com’è che la veda Edoardo, se la trova cambiata. Di certe cose ancora non ne parlano. L’unica cosa che sa Natalia è che da quando Oliver è morto, lei ha smesso di essere.


Anna Bolena accelera ed entra in autostrada. Dice: «Non ho mai più fatto questa strada».

Pablo Honey abbassa il finestrino. È notte fonda e l’aria è fresca, pulita. C’è ancora odore di erba e asfalto bagnato. «È successo qui?»

Anna appoggia il gomito fuori dal finestrino. «Ci passiamo davanti tra poco. Lo capirai».

Pablo la guarda per qualche secondo. «Vedrai morire anche me lo sai vero?»

Anna prende una lunga boccata d’aria. «Magari troviamo un modo di… strapparti quel coso da sottopelle…» sorride. «Magari ti taglio la mano».

A Pablo sfugge una risata. «Non c’è problema» dice. «Va bene così, credo».

«È per Denise?»

Pablo la guarda. «Che cosa?»

«Perché speri di… incontrarla, non so.» Si sente subito una cogliona, per avergli fatto una domanda del genere.

«Non lo so. Cioè, sarebbe bello, ma…»

Si fissano un istante senza parlare, senza sorridere, poi Anna torna a guardare la strada e dice: «Lo so» e Pablo chiude gli occhi. «A volte vorrei credere in qualcosa.» Accende la radio, «Country Music Old Times, questo programma mia nonna lo adora! Lo fanno sempre a quest’ora…Ti piace?»

Pablo alza il volume. «Non lo so… Sentiamo.»

Rimangono il silenzio ad ascoltare John Denver finché Pablo non vede un pezzo di guardrail lucido e ricoperto di fiori gialli.


Quando Pablo apre gli occhi, il cielo è di un azzurro pallido striato di rosa e lilla. Anna guida con degli occhiali da sole a forma di cuore e canticchia una canzone alla radio. L’autostrada è deserta.

«Buongiorno» dice, e Pablo sorride. «Ciao».

«Siamo quasi arrivati».

Pablo guarda il bracciale. -10 ore 33 minuti e 51 secondi. La spia rossa del GPS lampeggia.

«Verranno a cercarmi…Sarebbe uno scandalo se si venisse a sapere che hanno davvero –».

«Impossibile» dice Anna. «Non sono una cretina, ho scelto l’unico paesino senza Internet e Wi-Fi. Non è nemmeno sulle mappe. I miei mi hanno sempre detto di non venirci mai, quaggiù, ma sai che me ne importa». Anna esce dall’autostrada e accosta davanti a un benzinaio. «Sei felice?»

Pablo chiude gli occhi e appoggia la testa al sedile. «Da morire» dice, e sbadiglia.

Anna entra nell’alimentari accanto al benzinaio ed esce con una borsa piena di patatine e panini e ciambelle al cioccolato e Coca Cola. Pablo resta in macchina con la radio accesa. Il segale è scarso e la canzone fa Come over to the window, my little darling, e Anna rimane immobile per un secondo, poi alza il volume e accenna un sorriso.

Quando imboccano le strade strette e irregolari che si diramano tra le case in pietra dai balconi in fiore, il bracciale di Pablo si ferma a -9 ore 6 minuti e 1 secondo. Scendono dall’auto. L’aria è ancora fresca, intrisa di salsedine. I gabbiani volano nell’alba stridendo e disegnando cerchi.

Anna e Pablo attraversano il paese camminando in silenzio, ascoltando i gabbiani e gli uccellini e le onde del mare sempre più vicine. Quando arrivano in spiaggia, Pablo si toglie le scarpe e immerge i piedi nudi nella sabbia ancora fresca, nell’acqua tiepida e trasparente e pensa a Denise, al suo cuore che batte nel petto un’altra persona. Pensa che da qualche parte esiste ancora, che non poteva che andare così. Anna lo prende per mano e si immergono fino ai fianchi.

«Benvenuto al mondo, Pablo Honey» dice, e gli bagna il capo con l’acqua tiepida e trasparente e salata del mare, poi comincia a schizzarlo, senza togliersi gli occhiali da sole azzurri a forma di cuore, e Pablo la prende per le spalle e la spinge in acqua.


Dal balcone di casa, Maria cerca di ricordarsi cosa si prova a essere giovani, a nuotare, a ridere e gridare e godere e correre e correre e correre senza che il respiro si mozzi in gola. Sorride ai ragazzi che schiamazzano in acqua, che si immergono e si annegano, che gridano senza che il respiro gli si mozzi in gola, che vivono, che ridono. Le vengono in mente Florence e Diana, Parigi, la loro stanza al n°15, quella volta che si erano tinte i capelli di rosa e di blu e di arancione. Diana, che lavorava al bar del campus e leggeva i tarocchi per pagare l’affitto, che le aveva detto: «La tua carta è La Forza» e poi si era messa a ridere. «Solo tu riusciresti ad aprire le fauci di una tigre». Florence, con i suoi rossetti scuri e le poesie di Anne Sexton – «In me c’è una ferita che nessuno ha mai guarito» – Florence, che era convinta che l’amore della sua vita fosse morto prima che lei nascesse o dovesse ancora nascere, Florence e le sue ferite involontarie e i suoi rossetti scuri e – Maria blocca la sedia a rotelle e si sporge verso le foriere per annaffiare il terriccio secco e arido dei tulipani – e mia dolce Florence, se solo avessi fatto caso a come ti guardavo

Viola si avvicina con il pupazzo a forma di coniglio tra i denti e appoggia il muso sulle cosce di Maria, la saliva che cola dalla lingua e le inumidisce il vestito.

Pensa a Diana e Florence e all’odore di acqua ossigenata e agli asciugamani del bagno a terra e alla musica assordante, Diana che usa la spazzola come microfono e grida No, Je Ne Regrette Rien e –

Viola drizza le orecchie e Maria gliele accarezza piano. L’infermiera le appoggia le mani sulle spalle sottili. «Come stiamo oggi, signora?». Ma d’un tratto, Maria, non ricorda più niente.


Edoardo e Natalia Testi entrano in cucina. Sul tavolo, il maglione blu a rombi e una busta spiegazzata. “X mamma e papà”. Edoardo prende la busta tra le mani, guarda sua moglie. È la calligrafia disordinata, piccola e storta, di suo figlio, sbavata dalla pioggia e che pende verso sinistra. Natalia appoggia la fronte sulla spalla del marito. «No, aspetta» bisbiglia, e lui chiude gli occhi.

«Andiamo a leggerla…»

«Dove?»

«Nel suo posto preferito.»

Il signor Testi si siede al tavolo e inspira a lungo. «Non ci sono mai più tornato».

«Ti ci porto io.» Natalia si asciuga gli occhi e prende la busta dalle mani del marito, piano, come una carezza. Gli appoggia la mano sulla spalla e lui gliela stringe forte. «Ci sdraiamo sul prato, e se ci va ci facciamo pure il bagno nel lago.»

«Abbracciami,» dice Edoardo, e Natalia sa che vuol dire “sì”. Lo attira a sé, la guancia sul suo petto, e quel peso gli ricorda Oliver, la notte che è nato e gliel’hanno messo in braccio sporco di sangue.


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