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Non ci vuole un fiore - diario di lavoro per uno spettacolo con non attori del carcere di Nisida
By Malgrado le Mosche Posted in Altra letteratura, Arte piuttosto varia on 23/05/2022 0 Comments 17 min read
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di Adriana FollieriManovalanza
Copertina di Manovalanza

8 maggio 2022  

Per fare uno spettacolo non ci vuole un fiore.   
Può anche darsi che ci sia qualche teoria teatrale non troppo nota che fondi le sue radici nei fiori, ma di solito non è fondamentale averne. 
Cosa ci vuole allora per fare uno spettacolo?     
Intanto occorre definirlo, o meglio definirsi attraverso la definizione che se ne dà.          
Aderendovi in pieno, prendiamo in prestito l’esaustiva tabella delle Macroscopiche differenze tra “spettacolo” e “teatro” elaborata da Claudio Morganti, che qui potete consultare. 


Teatro dunque e non spettacolo.            
Il momento dello spettacolo, ovvero l’atto di pubblica apertura del proprio operato potrebbe chiamarsi piuttosto Manifesto, ché ciascuno dovrebbe esserlo e non come un proclama, ma come una dichiarazione, come un pensiero d’amore che si manifesta, che accade, appare. Come un’epifania.           
La direzione è ambiziosa quanto precisa: teatro e manifesto.    
Rettifichiamo allora: per fare spettacolo teatro non ci vuole un fiore.    

Cosa ci vuole?  
Attori e attrici. 
Regista.
Uno spazio fisico in cui agire.     
Tempo.
Pubblico.

Questo ci sembra davvero fondamentale. Ma potendo e volendo ci si può avvalere di un testo o più testi (di autori e autrici viventi o no), di musiche, luci, costumi e scenografie, di scarpe, parrucche, maschere, microfoni, oggetti e attrezzeria dagli stili e utilizzi più disparati, maestranze specializzate per grandi movimenti di scena, figure artistiche e tecniche, supporti materiali… ed è probabile che qualcosa useremo più avanti.

Questi brevi Diari di lavoro raccontano il processo creativo condiviso, tappa per tappa, che conduce ad un evento particolare di teatro-spettacolo-manifesto, principalmente dal punto di vista della regista che sono io, con qualche generoso inserto a cura di altri attori e collaboratori, magari di spettatori e spettatrici.

Partendo dalla complessità, ci alleniamo a fare un esercizio di semplificazione che speriamo non assottigli, anzi renda visibile e trasparente ciò che spesso resta ben nascosto sotto la forma finita di qualunque lavoro.
Ci piacerebbe far nascere da questi diari una conversazione aperta, che coinvolga soprattutto gli estranei, i non addetti ai lavori, così che l’esercizio artistico sia anche un esercizio civico, di comunicazione, di creazione e condivisione di aperture. Partiamo dal diario di regia, un racconto personale in cui le lettere del desiderio e della possibilità formano la fitta corrispondenza tra realtà schiacciante e nuova realtà, verso il sacro delle cose e della persona.      

Carissimo Armando,      
da quasi un mese stiamo entrando a Nisida e pian piano affondando le mani e tutto il resto in quel luogo incredibile. Sento forte e chiaro il privilegio di essere presente, in mezzo a una stanza brutta, piena di umanità ferita che brilla di forza, che si mostra e raramente si lascia guardare, che rivela subito le sue sovrastrutture, le paure, le schermaglie, le tattiche da enciclopedia generazionale.     
       

Vedo la bellezza di questi ragazzi esposti, delle ragazze invece velate e lontane da loro anni luce. Vederli insieme gestire questo spazio di prossimità fisico e onirico, vederli disegnare centimetro per centimetro il loro confine, vederli studiare per capire dove metterti, da che parte, dentro o fuori, stare contro e chiedere di stare dentro, esserci o scusarsi per dover andare via, pulire, esserci, entrare a guardare, negarlo, gridare, chiudersi a riccio… vederli e capire da dove cominciare, questo è forse adesso l’esercizio più difficile.


Il carcere non si vede tanto nella struttura quanto nei loro occhi, che ne sono pieni zeppi, come i discorsi e le conversazioni, come i molti silenzi in cui si rifugiano, in loro vedo carcere dappertutto e desidero scrostarne ogni centimetro.    
  


Intuisco che la strada da qualche parte è aperta e desidero fare da leva per aprire


Non ho ancora scelto un testo o un tema, mi passa molto per la testa mentre sono lì e vorrei aspettare ancora un poco per entrare con un’idea forte.  
Volevo raccontarti, perché vi porto dentro con me ogni volta.   
Adriana



Per fare teatro non ci vuole un fiore, l’abbiamo detto, ma questa volta  è diverso. Stavolta qualche fiore non potrà mancare. I fiori che ci servono vengono dalla carta, per l’esattezza sono origami nati dalla sapienza manuale di uno dei giovani attori detenuti che partecipano al progetto teatrale “Per Aspera ad Astra / Come riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza” ideato sul modello artistico sperimentato da Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza a Volterra, esteso in rete nazionale (isole comprese) e giunto per gemmazione fino all’Istituto Penale per i Minorenni di Nisida.      
A Nisida abbiamo iniziato il lavoro ad ottobre, con due incontri alla settimana; ora entriamo per quattro volte alla settimana e a giugno presenteremo al pubblico in anteprima il lavoro.  

Il primo esito scenico ha preso il nome di FIORITURE | FRATELLI e già nel titolo i due temi che guidano il lavoro si svelano con chiarezza.  
FIORITURE, ché di fioriture fisiche e simboliche siamo ampiamente testimoni e speriamo artefici in questa primavera del lavoro.         
FRATELLI (e come farne guida e protezione), ché di fratelli siamo arrivati a parlare quasi subito, mettendo insieme i pezzi dei primi faticosi incontri con il gruppo di attori e attrici.              

Diario di ottobre             
Ho fatto domande, è arrivato un fiume di desideri dolorosi.       
Vogliono le cose serie questi ragazzi, non distrarsi, non alleggerirsi, vogliono parlare la lingua adulta della vita vera. Occorre che riconoscano questa potenza nel teatro.      
Niente pazzielle. Va bene.          
Rimoduliamo ogni giorno la nostra proposta perché nasca una lingua possibile da parlare insieme.         
Se esiste una complessità in questo lavoro è il non poter usare schemi o strutture prefissate e consolidate. La pedagogia e le pratiche del lavoro teatrale non reggono.   
Stiamo mettendo noi stessi alla prova. Stiamo mettendo il teatro alla prova.     

Ho chiesto ad ognuno, il primo giorno che li ho visti, qual è il tuo pensiero ricorrente?  
Mi hanno risposto:         
Mio fratello.     
Mio figlio.          
La libertà.          
‘E femmene.    
Ecco cosa mi hanno risposto, cosa mi hanno consegnato.            
Così ho aspettato, ho lasciato che tutto si posasse un poco a sedimentare, poi ci sono tornata su.           
A cosa pensi? Cosa ti piace?       
Le mie domande, le loro risposte, il desiderio finalmente dopo tanta resistenza di esporsi e dire.             
È arrivato un fiume di parole: i valori che dichiarano sono velati di squallore carcerario. Cosa c’è oltre? Cosa arriva diretto fino a me, oltre questa rappresentazione di giovani detenuti che cercano di mostrarsi come il personaggio-figurina bidimensionale di certe pessime narrazioni televisive? 
Sguardi pieni di verità che vivaddio superano la rappresentazione. Il teatro ci svela tutti. Ricominciamo a parlarci da questo spiraglio di verità e di bellezza. 
Hanno corpi quasi sempre ripiegati su sé stessi. Hanno voci bellissime. 
Ogni giorno li guardo per la prima volta. Il lavoro continua anche quando torno a casa. Cerco di trovare la chiave di lettura per ciascuno, come faccio sempre con i miei attori, ma stavolta il lavoro è doppio, perché prima di dirigerli e guidarli occorre stanarli, occorre riconoscerci.             
Occorre che noi vediamo quello che gli altri non vedono. Stupire anche loro di cosa c’è, un po’ nascosto, in loro stessi. Lasciare che vedano, lasciarli ascoltare ciò che noi abbiamo scorto, fare in modo che si lascino guardare in questo modo nuovo, diverso dalle formule a cui sono abituati. Il teatro è questa possibilità. Per loro e pure per noi.      
Occorre che si lasci da parte il gioco abituale dei ruoli per fondare la nuova relazione tra uguali: artisti, compagni di viaggio.
Intuire e restituire, con un quotidiano atto di coraggio, con un atto poetico prolungato.
Amnistia del giudizio.    

Il destino, il futuro è nell’infanzia.           
Questo futuro sembra non esistere. Si è rotto. Aggiustare come?            

Diario di novembre       
Il nucleo narrativo dei fratelli, della separazione e della riconnessione, dell’attesa, della speranza e della fiducia in un amore assoluto, leggibile e puro come quello fraterno resiste alle varie prove.
Nei mesi la suggestione si è fatta più chiara, il sottotesto sarà “Elettra”.
È bello ascoltarli leggere. Qualcuno non è capace, allora io leggo e loro ripetono. Il canto entra prorompente… speriamo di poterlo fermare in una forma alta e seducente come quella che ho potuto sentire inaspettatamente.
Ricordare: la regia non è altro che la direzione da dare al tutto.

Metodi e tecniche vanno messi da parte, o meglio il programma funziona se aperto e flessibile.
Stare in ascolto, essere pronti, guardare e lasciarsi guardare, leggere insieme, cantare.
È questo l’esercizio condiviso. Con qualche parentesi che mi viene concessa, qualche esercizio di tanto in tanto.
Una pratica teatrale che mi piace molto è quella delle diagonali: due attori camminano, l’uno verso l’altro attraversando la stanza in diagonale, al centro si incontrano, si guardano, tra loro accade qualcosa. L’incontro non dura più di tre secondi. Il tempo è fondamentale per la tenuta dell’esercizio.   
Il ritmo del loro incedere può cambiare, può esserci una musica ad accompagnare l’azione, o un canto che arriva dall’esterno, talvolta un’indicazione precisa per i due attori, e così via… quasi sempre però preferisco lavorare sulla sottrazione, sulla tensione verso la neutralità fisica ed emotiva, restando concentrati sull’azione del camminare, sulla non previsione della risultante dall’incontro, quindi sull’osservazione di quanto accade.
Nei primi incontri a Nisida il lavoro sulle diagonali si è sviluppato in narrazione: due persone sedute nei due angoli opposti della stanza sono pronti con carta e penna, tutti gli altri in piedi; le camminate si susseguono, e ciascuno al termine del proprio attraversamento si ferma un momento a dire sottovoce cosa gli è accaduto in quell’incontro di pochi secondi. Vengono presi velocemente appunti.     
Eccoli:

DIAGONALI
(ovvero come abbiamo cominciato)       
Una valigia con dei libri pesanti
Lei mi ha dato un peso in mano
Un passaggio di pensieri              
Le ho dato dei libri          
Una cassa di frutta         
Mi sono messa nei suoi panni   
Le ho dato una pietra    
Fiori
Provo a prendere il suo idioma 
Mi ha buttato una cosa e ho ricambiato
Le ho tagliato l’orecchio              
Una sfera magica            
Mi ha sparato   
Senza mani        
L’ho offesa        
Fiori
Le ho ridato il suo dolore            
Boh, niente       
Le ho dato i guanti         
Una bottiglietta d’acqua              
Mi ha dato dei soldi e mi sono sparata  
Ho fatto un cuore. E anche lei   
Libri
Un volo
Ho scambiato un impulso           
Un saluto           
Time out            
Diciamo un pugno… è capitato…             
Buonasera
Sei libera!          
Mi ha buttato. 
Ho buttato la paura       
Un dito
Niente
Capoccia testa 
Si è sparato       
Un cuore            
Mi ha dato il suo bambino          
Ho buttato la giacca       
Il suo fascicolo 
Salute
Boh
Ciao
Volo
Incoraggiamento
Il dolore forte  
Gli ha regalato vestiti    
Gli ha dato il cappello   
Mi ha tirato il suo dolore             
Gli ho dato il mio peso 
La felicità           
Ho buttato una borsa    
Voglio seguire le sue orme         
Mi ha preso la bocca     
Gli ho dato il cuore        
Non vuole che nessuno la ascolti             
Un giro
L’ho uccisa         
Una bomba       
L’ho presa in giro            
Balletto.

Appunti di regia (ottobre, novembre, dicembre)             

PRIME FONTI    
Elettra di Sofocle            
Elettra di Von Hofmannsthal     
Filosofia della resistenza di Simone Weil              
La persona e il sacro di Simone Weil      
Il libro del potere di Simone Weil            
Corpo teatro (Saggio sulla Tragedia) di Nancy    
Stralci da Amleto            
Stralci da Il giardino dei ciliegi di Čechov             
La poesia di Rilke, di Eugenio Montale, di Kavafis, Majakovskij  

LUOGHI INTERIORI         
Penso a una struttura aperta con stanze (mi torna il numero sette: i livelli di tensione per declinare stili, umori, generi e possibilità…)     
La stanza dell’attesa      
La stanza dell’umano fattosi belva          
La stanza del teatro       
Le stanze sono una griglia celeste o un condominio        
Le cornici dipinte dei quadri dentro cui si incasella la vita             
Lo scorrere di questa vita (o meglio il sovrapporsi e l’incastrarsi)              
La stazione radio (il marconista sulla sua torre e le lunghe dita celesti nell’aria) 
Dei pittori adesso frequento ancora un poco con loro Vermeer e poi i quadri scelti da loro dall’Art dossier sul Realismo Magico

RELAZIONI
Le serve             
Le due sorelle  
Sorella e fratello             
Becchini / Sentinelle     
Madre e figlia   
Il coro  
Il pedagogo       
Gli amici              
I messaggeri     
L’eroe

AZIONI
Come un quadro, riconoscersi nell’immagine e poi rappresentarsi.         
Le vestizioni e le svestizioni dell’eroe, pezzo per pezzo.

MUSICA
La musica ha già cambiato tutto. Mi piacerebbe una scrittura inedita, un paesaggio sonoro che calzi come un guanto. Amplificarsi, ascoltarsi e riconoscersi, registrarsi e riascoltarsi il giorno dopo, sovrapporre musica e parole. Alternare letture a improvvisazioni. Sentire come cambia la parola, il ritmo, il senso, la recitazione (che qui è sempre e solo su uno spiazzante piano di verità).        
Lo strumento tecnico eleva l’attore, che così si manifesta. Ecco cosa sta accadendo.      

Cosa ci vuole adesso per fare uno spettacolo con giovani attori e attrici detenuti?          
Fiori, sì, l’abbiamo detto. E prima ancora: reimparare a vedere.


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