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Non si può morire sempre
By Malgrado le Mosche Posted in Inve(n)t(t)ive, Miscellanea on 01/08/2021 0 Comments 8 min read
La parte Previous La mangiatoia Next

di Vargas
Copertina di Susan Orlok

Leggere Contro l’impegno di Walter Siti è un’esperienza bizzarra, quel tipico caso in cui un individuo intelligente e preparato si incarognisce a sostenere un’idiozia.

Per dire, l’idea portante di una letteratura dello sconvolgimento (che piace a Siti e quindi è quella vera) contro un’idea di narrativa come farmaco rassicurante non è esattamente una cosa di mo’. Più ci si sposta verso il grande pubblico e meno i lettori sono disposti, dopo il consueto ammontare di feci ingollate durante la giornata, a raccogliere un’ulteriore coltissima cucchiaiata di guano e farne un dessert.

Un esempio scemo può essere quello di Notre Dame de Paris di Victor Hugo, storia di un nichilismo esasperante su quanto le grandi tragedie umane siano transeunte e alla fine sono sempre i sassi che si godono il fluire della storia (la cattedrale in questo caso). Trovandosi però ad adattare Notre Dame per l’opera lirica, un genere che all’epoca era ancora riconosciuto per quello che era, cioè una roba estremamente pop, Hugo capisce immediatamente che forse è il caso di tirare il freno sulla morte e distruzione, creando una versione della storia (La Esmeralda) più appetibile e meno “vita di merda muoiono tutti” che non a caso sarà quella recepita dall’Impero del Male nel ’96 (con alcuni passi aggiuntivi) per creare Il Gobbo di Notre Dame.

Prendere e smontare tutti gli strawmen argument usati nella raccolta di saggi sarebbe un’operazione di una semplicità avvilente, nonché una discreta vittoria di Pirro, visto che Siti stesso (che come ripeto scemo non è) ha timidi sprazzi di autocoscienza dove si mostra consapevole di aver scritto alcune coltissime pagine di sommario gne gne gne.

E a dirla tutta non è nemmeno quello che vorrei discutere. Ciò che trovo interessante è un certo approccio alla realtà, di derivazione, sospetto, prettamente letteraria, che Siti usa come assioma e che costituisce uno dei rari casi in cui credo che i testi abbiano un vero impatto sul reale.

Nell’ultimo decennio (per lo più fuori dalla nostra nazione, fondata su rigidi principi di popi popi) si è fatto un gran parlare di rappresentazione nei media. La parte più visibile riguardava quella delle minoranze, etniche e non, sulla base del fatto che se non ci sono storie che parlano di noi diventa più difficile definire l’orizzonte degli eventi che ci concesso. Non è letteratura farmaco, ma costruzione del possibile: senza l’esempio degli uccelli sarebbe impensabile levarsi in volo.
In questo le scienze si mostrano più oneste, ammettendo di essere per il 99% ingegneria inversa.

C’è però una frazione di questo dialogo passata sottotono, per via della difficoltà di costruirci attorno qualcosa di indignante e scandalistico.

Il romanzo come la intendiamo oggi è un prodotto legato a doppio filo con la borghesia che l’ha portato in auge (e che con la propria graduale decimazione se lo sta portando nella tomba). L’attenzione della forma libro va quindi verso l’autoanalisi (abbastanza indulgente) o si concentra su salti esotici nel torbido, alla ricerca di brividi e compassione facile. Le storie del romanzo borghese che parlano di ciò che socialmente sta sotto di sé sono facilmente identificabili: il punto di vista è sempre dall’alto, si parla magari di sottobosco svantaggiato senza porsi il problema di spostare il grado zero della narrazione al livello del suolo.

Se c’è una letteratura che veramente è farmaco per il lettore implicito di cui parla Siti, è quella morbosa del degrado, dell’intellettuale che si affaccia su un mondo che non gli appartiene, con la sua funzione edificante che ci permette di esprimere compassione per gli ultimi e allo stesso tempo rassicura che noi “non siamo così”. Pescando un po’ nel genere si troveranno una nutrita sfilza di romanzi letterari ed apprezzati, quelle opere di sconvolgimento che Siti porta ad esempio.

Ciò che esula da questi due filoni viene guardato con sospetto o diretta repulsione. La letteratura fantastica, per esempio, svicola (a volte solo apparentemente) dal patto di rassicurante autoreferenzialità che associamo alla cultura e impone uno straniamento volto a non interrogarci tanto sulla nostra relazione con un determinato tema, quanto al tema stesso. Al contrario opere che si focalizzano su ciò che sta “sopra” la borghesia provocano fastidio. Class di Francesco Pacifico parla di gente ricca, stronza e compiaciuta, la stessa che il lettore implicito non può guardare identificandosi né con compassione. Al massimo rosicare (eccezione il filone “Anche i ricchi piangono”, sul serio, sono proprio come noi, pikoli anciely).

Ne consegue che alla fine sono sempre le stesse storie che raggiungono l’immaginario di largo consenso (che non è quello pop, attenzione). Storie di miseria quotidiana, insoddisfazione, ennui o del disegno immaginario più feroce (ma anche più semplice) dell’esotismo del torbido. A forza di convincerci che le storie interessanti sono quelle dove tutti stanno di merda, abbiamo finito per costruire una narrativa che si identifica con un dolore costante e inespresso, o un mondo predatorio e animalesco. Momenti di gioia o tenerezza vengono relegati ad eccezioni luminose con l’unica utilità di evidenziare le ombre del resto della storia.

Il problema è che la realtà, in linea di massima non è così. C’è un motivo se individui calati in situazioni di irredimibile abiezione ne escono talmente segnati da perdere una connessione col resto dell’umanità. Primo Levi, sopravvissuto ad un momento non esattamente roseo (e meno raro di quanto si vorrebbe) della storia umana, invece di fare i salti mortali dal sollievo una volta tornato a casa, ne ha fatto uno solo abbastanza preciso giù dalla tromba delle scale. Tolti invece casi estremi, la faccenda si fa molto più sfumata.

Questo genere di analisi è visibile nell’opera di Neil Gaiman, uno che circa dagli anni ’80 cerca di farci capire che il mondo è un luogo terrificante, confuso e allo stesso tempo dotato di una costante soavità che ci impedisce ogni giorno di fare il bagno col tostapane. Purtroppo questo genere di riflessione nella letteratura convenzionale entra poco. Sì c’è la saltuaria epifania davanti a un tramonto, ma in generale la vita nei libri fa schifo fino a un breve momento di gioia che serve a ricordarti che per il resto fa schifo. Menzione d’onore al contro-trend del Fantastico mondo di Amelie, dove tutto è assolutamente normale ma letto in questa maniera fiabesca e un po’ sbarazzina (tipo Cambiare l’acqua ai fiori, dove Amelie è una cassamortara lirica) creando tutta un’altra romanticizzazione di cui non mi va di parlare qui.

Se quindi le nostre storie “serie e mature” costruiscono unicamente una narrativa di morte e distruzione, cominceremo a leggere anche il mondo attraverso le stesse lenti di morte e distruzione, un po’ come quei poveri maronni degli MRA che classificano i propri simili in base a un saggio di etologia sui lupi talmente baggiano che la carriera successiva del suo autore s’è basata sullo spiegare che no, ho scritto una cazzata, perdonatemi. Cominceremo a percepire il prossimo con quell’homo homini lupus plautino dove chiunque non vede l’ora di piantarti un coltello tra le scapole, mentre l’evidenza fattuale è di un’umanità che tendenzialmente ricerca affetto e stabilità (declinata nei modi più disparati, sia chiaro). E a forza di usare le stesse lenti marroni per valutare il prossimo abbiamo reso homo homini lupus realtà.

Nei romanzi si scherza poco, chi fa le battute ha un ruolo strettamente legato all’intrattenimento (comic relief), o c’è l’autore che usa l’umorismo come mezzo decostruttivo, mentre nel mondo di tutti i giorni la gente fa battute, dice cazzate, ride anche quando sta male perché ridere serve a quello. È uno strumento di sopravvivenza che un determinato ramo culturale vede come simbolo di immaturità: la frivolezza, i momenti positivi vengono contrapposti a una narrazione trucida, pesante e senza alcun contatto con la realtà che però viene percepita come più realistica (COUGH COUGH GAME OF THRONES). Ed è qui che le storie che raccontiamo (cfr. The Danger of a Single Story di Adiche) fanno il giro: la narrativa ci convince che il mondo sia solo una merda (è ANCHE una merda); la lettura della realtà, il nostro grado 0, diventa effettivamente una merda e quindi per creare storie esemplificative di una parabola discendente la narrativa si fa più scura, anche in quei generi che aspirazionalmente fanno speculazione sul possibile: un’esempio è il grimdark, una categoria di letteratura fantastica che alla base è un tentativo di venire a patti con la costante distopizzazione dell’immaginario.

Per farla “breve” la dobbiamo smettere di premiare una letteratura di autoflagellazione, in favore di qualcosa che non è il farmaco che tanto fa tremare Siti, ma un approccio più adatto a comprendere la profonda complessità del reale, l’importanza della gioia come elemento fondante e compenetrato delle nostre vite e soprattutto di quel male che ci ostiniamo con ingenuità a dipingere con la bombastica purezza del Lich o la grigia malvagità impiegatizia del romanzo borghese.

Se no va a finire che, così, per un caso fortuito, a un povero stronzo qualunque capita di essere felice nella vita sua e senza un’alfabetizzazione a riguardo magari pensa di essere uscito scemo.

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