Di Giacomo Cavaliere
Copertina: C’è stato chi lo aveva previsto – Julio Armenante
La suola rigida delle sue scarpe di cuoio fatte a mano scandiva gli apici delle sinfonie colpendo le piastrelle d’ardesia. Ma concedeva ai muscoli la licenza del ritmo solo nei lunghi vuoti durante la giornata, non certo agli albori del mattino. La maggior parte delle volte, preferiva starsene seduto in poltrona a suonarsi l’oboe da solo, lasciandosi incantare dalle ascese all’orgasmo sempre diverse della segretaria, stravaccata sul sofà. Ma non quella mattina. Non con la giornata tutta davanti a sé. Doveva incontrare una donna. La domanda era calata, le cartelle nello schedario diminuite. Ma non se n’era fatto un cruccio, non aveva perso il sonno arrovellandosi su una specializzazione comoda nella quale riciclarsi. Dove la sua professione era stata accolta, la legalità non costituiva un problema.
Diana era ancora piegata sull’acciaio del tavolo operatorio, la gonna del tailleur tirata su fin sotto le ascelle, le calze color carne penzolanti tra i polpacci, i muscoli delle natiche irrigiditi. Le lancette dell’orologio segnavano le sette e diciassette del mattino ed erano entrambi a stomaco vuoto. Entro pochi minuti avrebbero avuto una gran fame. Tutti gli orologi dell’ambulatorio, dell’ufficio e dell’anticamera avevano il quadrante in numeri romani, come pure gli svizzeri che portava al polso. Tollerava l’esistenza della numerazione arabo-indù solo per questioni di praticità, ma non esisteva alcuna ragione che avrebbe mai potuto obbligarlo a tollerare un orologio con gli indici.
Appena finito, il dottor Santiago, Sepp, Miranda-Roja sospirò rumorosamente, si sistemò le bretelle subito dopo aver estratto l’uccello dalla fradicia fessura in cui lo infilava quasi tutte le mattine, tra le sette meno un quarto e le sette e venti, nell’ambulatorio attiguo allo studio.
Quella mattina, consumò il proprio apice senza dare il tempo, all’accompagnamento orchestrale che fuoriusciva dal giradischi, di entrare nel vivo. Ne aveva uno sia nell’ambulatorio, per le operazioni, e un altro nel suo ufficio, dentro lo sportello della console rococò ridipinta di nero. Per ogni scopata, che fosse per espletare un fisiologico bisogno, per stemperare il fastidio di un risveglio ingiusto o per godere ancora dell’impareggiabile soddisfazione di saper dare piacere a una donna molto più giovane, sceglieva un’accurata colonna sonora. Una pista magnetica applicata direttamente a quella che il dottore architettava come una precisa e ordinata sequenza. Deformazione professionale, pensava. S’era soffermato più d’una volta sulla propria tendenza a trasformare qualunque azione umana in un’operazione chirurgica. No, concludeva ogni volta, non trasformare, elevare. Qualche idiota avrebbe detto ridurre.
Persino nell’eiaculazione, nell’ubriacarsi dei gemiti altrui e di distillati zuccherini, non riusciva a essere meno chirurgico. Non aveva la presunzione di ritenersi un amante infallibile, semplicemente, definire la genuinità di quei mugolii risultava del tutto ininfluente. Un giorno, si riprometteva, quando sarebbe stato abbastanza ricco e anziano da non temere l’inquisizione della classe medica, avrebbe scritto un trattato filosofico sulle infinite applicazioni della musica nel piacere sessuale. E molte altre cose. Quell’interminabile dissertazione critica allo Psychodiagnostik di Hermann Rorschach e alla kleksografia. Un paio di vademecum d’etologia evoluzionistica applicata alla classe degli entomi, Peculiarità comportamentali e adattabilità evolutiva della Pepsis formosa pationii, volgarmente detta Vespa falco della Tarantola.
La vespa ha un comportamento alquanto raro nel mondo animale. Come quasi tutti gli esseri viventi, necessita per riprodursi, ma seleziona l’incubatrice della sua prole in un ordine e in una famiglia tassonomica del tutto diversa dalla sua. La vespa segue la marca olfattiva dell’aracnide fino ai cunicoli in cui è solita rintanarsi. Nonostante le dimensioni e la forza muscolare del ragno, è molto raro che la vespa abbia la peggio. Non appena il pungiglione della vespa penetra la carne della tarantola, i suoi arti si ripiegano all’interno per una repentina atrofia seguita da un irreversibile stato di morte apparente. A quel punto, la vespa trascina il ragno per molti metri verso la sua tana, all’interno della quale vi depone un uovo nell’addome. L’uovo cresce sino a diventare una larva, disciogliendo in una salamoia lattiginosa le viscere, la carne e i muscoli del ragno. Perché l’embrione di vespa riceva i necessari nutrimenti della sua incubatrice, è indispensabile che il ragno rimanga vivo, neurologicamente vegeto fino a che la piccola vespa non avrà esaurito la sua placenta.
Curiosi, brillanti, avveniristici studi scritti e concepiti per il grado di comprensione di una lontana e mirabile posterità.
Ogni mattina, nella fossa della sua orchestra, ad accompagnarlo dentro e fuori dalla sua segretaria dattilografa non ancora laureata, Diana Del Rio, era quasi sempre Beethoven. Benché la scenografia fosse pressoché immutabile, non più dell’anonimo arredamento di una ricca camera d’albergo, movimenti, atti e passaggi erano scelti con cura minuziosa, come non dipendessero dall’arbitrio ma da un rigoroso calcolo matematico. Oggi, era la quasi dimenticata Sinfonia n.1. La suite era entrata nel vivo del secondo inciso quando la sola imposizione dell’indice appuntito al centro della schiena nuda impedì a Diana di tirarsi su.
Le diede il tempo di ricomporsi, sistemò il nodo a scappino della cravatta italiana e i gemelli, infilò la giacca e abbassò il volume del giradischi. Lasciò che l’ultimo movimento si consumasse in un sottofondo in dissolvenza.
Seduto alla scrivania, attese la ragionata e invariabile quantità di tempo necessaria a Diana per attraversare l’anticamera, puntare all’ascensore e prendere posizione al banco dell’accoglienza un piano più sotto.
«Vuole controllare l’agenda, per favore?», soggiunse premendo sul pulsante rosso dell’interfono che emergeva dalla scrivania. Formalità: qualcosa che gli avevano insegnato a pretendere, in diverse declinazioni di buongiorno e buonasera. Avrebbe potuto aprire la valigetta e dare un’occhiata alla sua, ma pagava qualcuno apposta per recitare quello di cui anche lui aveva già preso nota. Pagava qualcuno per sentirne la voce, in qualche modo. E parecchio altro.
«Chi abbiamo oggi?», incalzò lui. L’interfono gracchiava per il trafficare indistinto di Diana che rovistava da qualche parte.
I pazienti erano dispersi in punti sempre più casuali e l’agenda sempre più bianca. «Ce ne sono due oggi, dottore», guizzò d’un tratto con l’entusiasmo della buona novella. Non capitavano spesso simili giornate di lavoro al dottor Miranda-Rocha.
«Teresa Amanda Scaligeri, da Verona. E, prima di cena, l’incontro col solito medico ispettore della Procura generale e col dottor Vincente, per l’intervento di mercoledì al Maria Teresa de Setubal.»
«Sì, se c’è tempo.» Il dottore sbuffò due volute di fumo biancastro dalle narici, consumò i primi tiri di sigaretta post-coitale prendendosi tutto il tempo di rispondere. Premette di nuovo sul pulsante e chiese a Diana di ragguagliarlo sulla donna. Erano mesi che inviava plichi di corrispondenza da Milano e Verona, eppure, per qualche motivo, non immaginava che gli sarebbe toccato vederla davvero. Iddio solo sapeva quanto poteva aver speso in francobolli.
Le richieste dei privati erano meno di un terzo dei suoi interventi. Ormai, lavorava soltanto su disposizione straordinaria del tribunale seguita da specifiche richieste e perizie psichiatriche, di solito su soggetti a lungo sottoposti a ricoveri coatti. Su richiesta dell’Ordine di Santo Spirito o dei Servi di Maria che dirigevano l’Opera di Carità della Santissima Annunciazione. Dalle lettere, si prospettava una donna abituata ad annegare i suoi interlocutori in fiumi di parole e nauseanti salamelecchi.
«È già arrivata?»
«È giù nell’androne. Intanto ha chiesto al portiere di salire a portarle dei presenti.»
«Quali presenti?»
«Scotch delle Orcadi, mi pare d’aver inteso.»
«Faccia salire entrambi.»
Consumò in un tiro quel che rimaneva della Gauloises più amata della giornata. Con reticenza e un filo di rammarico, stroncò l’apice finale della Sinfonia n.1.
Stava ammirando le tre bottiglie consegnate dal portiere quando la signora Scaligeri fece capolino dalla porta socchiusa. «Entri pure», dovette dire, per spingerla a varcare del tutto la soglia. Era una signora piuttosto giovane, sulla quarantina o poco più, molto ben curata e piacevole alla vista, una figura all’apparenza del tutto immune alle afflizioni delle gravidanze e della puericoltura. Eppure, aveva la reticenza della vedova che passava le giornate a pregare i soffitti e non si perdeva una messa. Una che, per quanto abbiente, avrebbe considerato qualunque dottore, maresciallo, avvocato o sindaco alla stregua di cardinali, e i cardinali alla stregua di faraoni.
«Si metta comoda, la prego.» L’accento del medico la spiazzò, lo immaginava diverso. Non aveva mai sentito una voce così priva d’accento, neutrale, priva di una specifica inflessione. Forse era ciò che accadeva a chi parlava troppe lingue.
«Ho letto che parla molte lingue, dottore.» Lui tese la mano senza alzarsi dalla poltrona, sotto i baffi tinti si spalancò un sorriso non proprio alabastro e i muscoli della faccia, dapprima tesi e corrugati da ispidi pensieri, si rilassarono. Non aveva davanti la solita madre isterica e, in quel fiume di reticenza, sentiva palpitare una sorta di venerazione.
«La ringrazio moltissimo per la gentilezza, ma non doveva. Ho chiesto a Marcelo di andare a prendere del ghiaccio. Mi rendo conto che è presto, ma sono sensibile all’adulazione.»
«Sono ben felice che mi abbiano dato la giusta indicazione.»
«E chi gliela avrebbe data?»
«Padre Klaus Altmann, del collegio gesuita del Sacre-Coeur e Sua Eccellenza Monteferro, patriarca vicario di Venezia. Prima che mio figlio venisse espulso anche dalle loro istituzioni.»
«Oh, sì. Abbiamo condiviso delle esperienze comuni, sia in Germania che in Italia, prima che anche la professione medica venisse criminalizzata. Abbiamo lavorato per qualche anno per un’organizzazione sanitaria a Sonnenstein e Hartheim.» Una faticosa espirazione decapitò qualunque cosa volesse dire.
«Ormai quasi trent’anni fa…» Il fiato gli si spezzò in gola: no, dovette correggersi, non era così tanto. Quindici, venti, qualcosa del genere. Forse anche meno, pensò. Non gli capitava spesso d’abbandonarsi ai ricordi, e apprezzava ancora meno rimanerci a galleggiare.
«Ricordo dalle sue lettere che suo figlio ha frequentato molti collegi.»
«È stato bandito da molti collegi, sarebbe più corretto. Verona, dai Sacri predicatori della Regola di Sant’Agostino, al rinomatissimo San Paolo, in ultimo anche dal corso di rigore della Scuola navale miliare “Morosini”.»
«Uno spirito eversivo, mh?» Goffo alleggerimento, l’ironia stridette come unghie sull’ardesia.
«Un giannizzero senza speranza, dottore», volle stare al gioco lei. «Abbiamo tentato anche con un istituto di rieducazione militare per teste calde, ma niente. Due anni fa, si è rotto sei ossa in undici mesi, è riuscito a lussarsi clavicola e radio calandosi da una finestra del secondo piano mentre era allettato per un’altra frattura. Questo, dopo avere chiuso a chiave la governante nel ripostiglio per scassinare gli armadietti degli alcolici.»
«In che modo? Non gli armadietti, intendo: in che modo si è procurato le prime fratture?»
«Risse, botte a scuola, per strada, ovunque. Le dita della mano non sa quante volte. Qualche caduta in motocicletta. Suo padre, prima di morire, ha fatto in modo di rinchiuderlo per quattro mesi in un riformatorio maschile. Quell’estate, aggredì un prete che l’aveva colpito colla punta di un ombrello. Ha atteso nascosto in sagrestia per tutto il giorno successivo con un mattone. Se non ci fossero stati i chierichetti, l’avrebbe certamente mandato all’ospedale, forse anche…»
«I chierichetti sono riusciti a fermarlo?»
«Non si aspettava ci fossero, immagino. Da quello che so si è bloccato. Il prete deve essersi messo a gridare e Ludovico glielo ha lanciato in faccia.»
«Quanti anni aveva… Ludovico?» Sepp non amava pronunciare i nomi dei pazienti, pur riconoscendo la calma che il suono del proprio nome in una frase infondeva a chi l’ascoltava.
«Tredici, forse qualcosa meno.»
«E oggi?»
«Diciassette compiuti lo scorso diciannove febbraio.»
Il tracciato della stilografica sulla carta ruvida scandiva gli intervalli tra le domande. «E cosa aveva fatto per essere infilzato con un ombrello?»
«Litigava, schiaffeggiava, inseguiva le ragazzine nel cortile, fumava i mozziconi raccolti da terra. Ludovico tentò di nuovo di scappare. Ma, vede, non è solo quello che fa, è l’ascendente che esercita sul prossimo. Non è solo la sua inquietudine, non solo gli abomini che è capace di compiere, è ciò che la sua sola presenza provoca in chi gli sta intorno. Crea scompiglio, inquieta anche gli animi più miti, la sua sola presenza in una classe impedisce agli insegnanti di svolgere il loro lavoro. Niente è mai servito, né i gusci delle noci né la cinghia di suo padre. Suppliche, salmi e nemmeno le imprecazioni. Si figuri cosa può fare l’amore di una madre. Non sono bastati i giocattoli, la scherma, gli scacchi, le lodi e nemmeno le privazioni. Lui ha sempre avuto il fuoco dentro, il diavolo in corpo.»
Nella voce tenue della donna irruppe la paura di una madre, un misto di timore e occultato senso di colpa s’incuneò tra le sillabe. Trascinava le parole in una penitente confessione. Santiago aveva inforcato gli occhiali di tartaruga e s’era messo a spulciare il faldone con i carteggi e i documenti inviati dalla madre a cui non aveva prestato la minima attenzione fino a quel momento.
«È interessante che abbiate scelto la struttura di Padre Altmann, e ancor più interessante che sia stato espulso. Sia io che padre Altmann abbiamo maturato una certa esperienza nel raddrizzare le schiene, se così vogliamo dire, e la Compagnia di Gesù ha sempre preferito esplorare diverse forme di catechizzazione prima di espellere. Non è certo la prima testa calda o il primo ugonotto dal Concilio di Trento.»
«È fuggito da una cella di rigore, è stato sorpreso chiuso in uno stanzino con una ragazzina di un anno più piccola fuggita dall’ala femminile. Si sono rifiutati di uscire per due ore, hanno dovuto scardinare la porta.»
«Ha trovato un’amica insofferente quanto lui alla confessione?»
«Dubito abbia coscienza delle sue azioni. Volevano andare a ballare.»
«Suo figlio balla?» Non poté fare a meno di enfatizzare l’alieno verbo.
«Grazie Iddio non l’ho mai visto, ma qualcuno sì, anche con altri maschi. Non fa che ascoltare quella musicaccia infernale che cantano i negri d’America. Sono andati a vedere l’esibizione di un negro venuto dall’America. E di un altro folle biondo ossigenato, che pare abbia sposato una bambina e incendi i pianoforti, a Ginevra. È scappato a Ginevra dopo aver rubato degli assegni.»
Il portiere entrò con il secchiello del ghiaccio, la bottiglia di Scapa invecchiato sedici anni e due bicchieri.
«La ringrazio, ma io non bevo la mattina.»
«Le darei ragione se si trattasse di qualunque altra bevanda alcolica nota all’homo sapiens. In trecentomila anni non siamo riusciti a partorire granché di meglio. Ma questo particolare scotch, come lo champagne, non conosce mattino, pomeriggio o notte. Non conosce tempo, momento o circostanza. Qualcuno sostiene che lo champagne possa abbinarsi a tutto tranne che alla cipolla, ai dolci e ai fagioli. Io credo invece che non esista qualcosa che non possa accompagnare, tutto sta nel saper scegliere la giusta bottiglia per il giusto momento. Un po’ come gli abiti. O la musica. Suo figlio…» cercò tra le carte un nome letto e sentito cento volte. «Lucrezio», gli sovvenne. Dovette sforzarsi per non rivoltare gli occhi dall’imbarazzo.
«Ludovico. Oh sì, fin da bambino. Rubava i distillati dagli armadietti.»
«Suo padre beveva?»
«Se n’è andato due anni fa.»
«Da cosa era affetto?»
Il volto di Teresa divampò di una vergogna ben peggiore di quella in cui era inciampato poco prima Santiago. «Il mal francese», guaì con un filo di voce.
Non ricordava quanto era passato dall’ultima volta che aveva sentito qualcuno riferirsi alla sifilide con quell’epiteto. Mai, da una bocca così giovane. “Syphilis pater”, annotò il medico senza fiatare, in una didascalia a margine di una pagina già riempita. Poi richiuse il quaderno di pelle; la vista dei fogli bianchi inibiva il flusso dei pensieri.
«Spesso mi sono domandata se i peccati del padre e della madre non siano passati al figlio sotto forma di tare mentali», singhiozzò lei, castrando il pianto prima che le si gonfiassero gli occhi. Santiago stirò un sorriso che millantava comprensione.
Tutti avevano i loro momenti bui. A questo serviva la fede. Le persone felice e fortunate non avrebbero mai avuto alcun motivo di cercare dio alle sette di domenica mattina. Invece che ispessirla, motivarla, l’incedere della vecchiaia non aveva fatto che metterla in ridicolo. La sua fede era diventata presto un pagliaccio a cui colava il cerone. Più gli anni passavano, più si allontanava da ogni salvifica speranza. “Il morbo della scienza”, avrebbe potuto battezzarlo.
«Il padre di cui ha parlato poco fa, è il suo padre biologico?»
«Ma certo che lo è!», guizzò la donna. «Sono rimasta vedova dopo un solo anno di matrimonio, prima ancora che potessi partorire il primo figlio. Era di salute cagionevole. Avevo diciassette anni. Mi sono risposata con suo padre quand’era già in pensione. Era molto più anziano di me, ma, disgraziatamente, dovetti tentare due volte prima di scoprire di non essere fatta per i matrimoni. Spero il Signore possa perdonarmi. Lui solo sa quanti sforzi ho speso per diventare una brava moglie. Ho fatto del mio meglio, ma il padre di Ludovico non aveva le stesse ambizioni nel fare il marito. Lui amava essere un ufficiale in pensione, ogni volta che usciva di casa metteva in tasca la fede. Un uomo buono, anche se fatto di carne…. Ho sempre temuto che nostro figlio prendesse il peggio di entrambi. Ha fatto di tutto per raddrizzarlo, senza mai fargli mancare nulla. Le migliori scuole, i corsi di piano, violino, scherma. Ha una cicatrice sul volto, che gli è stata inferta dal suo maestro di sciabola, a seguito di un litigio. Ha aggredito il suo maestro alle spalle, così mi ha riferito, e lui l’ha colpito. Non per vendetta, mi è stato detto, ma affinché non potesse dimenticare i principi cavallereschi.»
«Ne ho visti di simili, lo chiamano “duello Mensur”. Non sapevo lo praticassero ancora.»
«Non ne ho idea», tentennò lei afferrando il bicchiere che lui le aveva ugualmente riempito. Lo trangugiò in pochi sorsi, lui lo riempì di nuovo e le offrì una sigaretta dall’astuccio in argento con un elefante e il vessillo della Nuova Guinea tedesca in altorilievo.
«Capisco le sue difficoltà, signora Scaligeri.»
«Ho quasi avuto un tracollo. Senza contare l’emorragia di capitali, le spese, le notti insonni. Mio marito era già un uomo maturo, ma credo proprio che la presenza di Ludovico abbia acuito una malattia che sono certa avrebbe avuto un decorso meno implacabile.»
«Ha altri figli?»
«Due. Matilde, due anni più grande di Ludovico, sposata l’anno scorso. Telemaco, figlio della mia prima unione, è morto a cinque anni di meningoencefalite.»
«Mi perdoni, signora, non intendevo spingerla a rivangare certe esperienze.»
«Non credo esista più altro genere di esperienze che io possa rivangare.»
«Ludovico dove si trova?»
«In albergo. Ho pagato il concierge perché lo chiudesse a chiave nella stanza, per sicurezza. Non credo si sveglierà prima di oggi pomeriggio. Ho lasciato che stanotte facesse bisboccia fino a tardi, è tutto esaltato dalla nuova città. È la prima volta che sale su un aeroplano.»
«Con che pretesto siete venuti qui?»
«A Ludovico non interessano, i pretesti. A lui interessa solo la sua musica demoniaca e il rum. Ho chiesto di accompagnarmi in visita qui a Lisbona, che avrebbe avuto i conti aperti e il servizio in camera. Ha letto le valutazioni dei suoi colleghi che l’hanno esaminato?»
«Trovo le anamnesi psichiatriche delle accozzaglie di parole vane. Ma le ho lette. Cinque esperti, cinque diagnosi diverse. Dementia preaecox, sarebbe la più coerente. Sebbene l’attuale denominazione di schizofrenia non si ravveda in nessun dettaglio di questo quadro clinico, continua a rimanere un coperchio per tutte le pentole. La mia opinione è diversa, ma marginale.»
«Ha sofferto di sonnambulismo fin da quando ha iniziato a camminare. Una notte per poco non ha dato fuoco alla casa. Se n’è andato in giro, al buio, ad accendere tutte le candele e le luci che trovava, e gettava a terra i fiammiferi. Aveva l’abitudine di parlare da solo, dentro e fuori dal letto. Su consiglio medico, abbiamo cominciato a somministrargli il Veronal, ma non è servito a niente. Così, suo padre, decise di provare con lo scotch. E, in effetti, smise di parlare da solo.»
«Quindi non si è avvicinato all’alcool autonomamente?»
«Certo che ci abbia preso gusto, ma no, non proprio. Ci è stato consigliato come medicinale, per quietarlo. Dissero che fosse più salutare dei barbiturici. E più efficace, in alcuni momenti. Abbiamo provato anche con l’elettroshock, come avrà letto nei referti. Una volta a Losanna, a dieci anni, tre sedute in un ricovero di dieci giorni. Poi l’anno dopo, dodici sedute in cinquantacinque giorni di degenza.»
«E poi?»
«Poi… ecco… la pratica ha avuto risultati deleteri. La sua mente è divenuta ancor più imprevedibile, se possibile.»
Il dottor Miranda-Rocha emise una sorta di mugolio dubbioso, lo mascherò schiarendosi la voce. Si accese la terza sigaretta nel giro di pochi minuti e versò quel che rimaneva della bottiglia nel suo bicchiere.
«Di solito la schizofrenia non colpisce così precocemente, ma la psichiatria è tutto meno che una scienza esatta, e io non sono uno psichiatra. Sono un neurologo e un neurochirurgo abilitato in quattro paesi. Uno solo, ormai, ma non certo per questioni di pratica medica. Il mondo cambia velocemente, fagocita sé stesso senza saziarsi mai, eppure, a dispetto dei suoi balzi evolutivi, non riesce a svincolarsi dalle sue tradizioni.»
«A cosa si riferisce, dottore?»
Santiago si accorse d’essersi addentrato in un terreno spinoso. S’inumidì le labbra, tergiversò per qualche secondo alla ricerca di una buona argomentazione. Si schiarì la gola.
«Le persone, specialmente i professionisti e i maestri di disciplina, temono le novità non meno della peste o dell’invasione dei marziani. Per accettare l’esistenza di una malattia mentale che escludesse le possessioni demoniache occorsero secoli. La medicina, se di scienza possiamo parlare, è senza dubbio quella più restia ad abbracciare il futuro.»
Teresa dubitava, ma indole ed educazione le impedivano di interrompere un medico, fosse anche per chiedere delucidazioni su cosa stesse dicendo. Medici, avvocati, architetti, l’universo di dotti e dottori non conosceva contraddizioni né errori. Aveva fatto molta strada per trovarsi a quella scrivania. Molta più di lei.
«Mi parli della musica», sterzò Santiago, non appena lei fece per ritornare all’embrionale piromania di Ludovico, acutamente desunta dalla sua malsana fascinazione per i camini accesi. Aveva portato dei dischi. Parecchi.
«Sembra il suo unico interesse. La musica, intendo.»
«Il fuoco e il ghiaccio, ha sempre detto lui», volle specificare Teresa.
Il medico abbassò lo sguardo al piano in legno laccato per passare in rassegna dischi dagli autori irriconoscibili. Buddy Holly, Sonny Boy Blue, Miles Davis, Ritchie Valens, Howlin Wolf, John Coltrane, Bobby Fuller Four, Jerry Lee Lewis, Chet Baker.
«Se lo conoscesse, le sarebbe subito chiaro, dottore», gemette.
Il volto di Santiago si compose in un’espressione austera del tutto nuova, Teresa si sentì svuotare i polmoni come palloncini. «Non conosco i pazienti finché non entrano in ambulatorio», disse a voce bassa. «E, una volta entrati, significa che ogni decisione è stata presa oltre ogni ragionevole dubbio, e non sono io a sobbarcarmi quest’onere. Io posso rifiutarmi, non esiste compenso che possa mettermi in collisione con la mia deontologia, ma sono solo un tecnico specializzato nell’utilizzo di uno strumento. Per questo, il mio primo dovere è assicurarmi che lei sia consapevole della gravità. Consapevole di ciò che chiede.»
«Sono sicura di non voler finire i miei giorni in una casa di riposo prima di essere invecchiata. Ho letto molto su di lei e la sua pratica, so che si è evoluta molto negli ultimi decenni. So che è stato tra i promettenti allievi di un certo dottor Moniz, qui a Lisbona, e che ha insegnato in Italia. Ho letto che ne ha eseguite centinaia.»
«Duecentoquarantadue. E debbo darle ragione, i tempi sono cambiati e con loro la musica e le pratiche chirurgiche. Nel millenovecentotrentuno vidi usare un punteruolo da ghiaccio per forare la scatola cranica e iniettare fenolo, mercurio e composti arsenicali nella sostanza bianca dei lobi frontali. Oggi, la leucotomia transorbitale, è un intervento eseguibile anche da un praticante. Una sempre crescente percentuale di pazienti trattati vengono restituiti alla vita civile con capacità d’integrazione relativamente intatte. Ma, se la spacciassi come una pratica scevra da rischi, sarei insincero. Suo figlio non sarà più lo stesso che ha conosciuto, lo stesso che si ricorda, che ha messo al mondo; questo, benché possa sembrare un bene sotto molti aspetti, potrebbe non esserlo per altri.»
«L’amore di una madre verso un figlio non si dissolve per dei cambiamenti.»
«Immagino di no, ma qui non si tratta di cambiamenti. Ma di modificazioni permanenti, irrevocabili. Lo sviluppo cerebrale di suo figlio subirà un arresto, e subito dopo sarà spinto indietro. Quanto indietro dipende dall’utilizzo che farò del mio strumento. Occorrerà un variabile periodo di transizione, potrebbe doverlo aiutare ad alimentarsi e potrebbe aver bisogno di qualche lezione per riacquistare una corretta postura, per riprendere le abilità di prima. Allacciarsi le scarpe, maneggiare le posate, lavarsi.»
«Mio figlio non ha alcuna abilità che valga la pena di preservare. Finirà ammazzato da qualcuno, o finirà i suoi giorni in galera. Posso accettare l’idea di dovergli insegnare di nuovo a nuotare o allacciarsi le scarpe, ma non posso vivere sapendo d’aver cresciuto un reietto delinquente. Il suo destino è segnato da quando ha appreso a camminare. Ha imparato a mentire e a parlare allo stesso tempo. Io vorrei soltanto che smettesse di fare del male a sé stesso e alle persone che gli stanno intorno. Che possa diventare una persona perbene. Non posso sopportare l’idea che lo rinchiudano per sempre in manicomio.»
«Vedo che è determinata.» Santiago le infilzò le pupille con lo sguardo: la sentenza era già scritta prima che partisse. Per un attimo, avvertì qualcosa di simile al disprezzo e, subito dopo, si trovò a domandarsi se gli fosse concesso disprezzare qualcuno. La pausa era stata lunga.
«Sono mesi che leggo dettagliatissimi resoconti sullo stato mentale e lo storico di suo figlio. La decisione spetta a lei.»
«Ho portato il libretto degli assegni.»
Due settimane dopo
«Sa cosa significa persona, in latino?», domandò il ragazzo spalancando un paio di grandi occhi verdazzurri, zaffiri da cerbiatto sotto uno scapigliato cespuglio biondo. La domanda colpì il dottore proprio nella ghiandola rinsecchita che secerneva lo stupore. Se n’era quasi dimenticato.
«Interessante», rispose soltanto, profondendo un sorriso intriso di una spontaneità che pochi avevano visto.
La spavalderia nella voce non era fastidiosa, marcava la paternità di ogni parola senza decadere mai in boria. Quando accelerava la cadenza, la prosa s’inceppava in una balbuzie che lo irritava più di quanto danneggiasse la sua esposizione. Il nervosismo per le sillabe balbettate trasmetteva un’articolata sequenza di tic a palpebre e sopracciglia. Sembrava più vecchio di quanto fosse, la vita, l’elettrocuzione, una desueta pedagogia e un dolore insanabile acquisito con la prima espirazione avevano fatto invecchiare la pelle e incurvato le spalle.
La cicatrice era profonda, lunga una dozzina di centimetri dalla tempia fin quasi allo zigomo, probabilmente aveva leso un nervo oculare che rendeva la palpebra sinistra un poco più bassa. Era una retta obliqua pressoché perfetta, disegnata da una mano abile. Uno sfregio tracciato con la cura dell’odio.
Nonostante l’insieme delle afflizioni del suo fisico, Santiago dovette constatare che fosse riuscito a conservare un fascino innaturale, appariva distinto e ben curato, come una sorta di giovanissimo ufficiale sopravvissuto alla Somme.
«Sì, sono certo che lo sa», continuò da sé Ludovico, infastidito dal papillon.
«Maschera», accondiscese Sepp senza rinfoderare il sorriso. «Leggi molto?»
«Niente affatto.»
«Ma ami la musica.»
«E ho usato il clarinetto per colpire un anziano maestro di musica, come le avrà certamente raccontato.»
«Senza dubbio deve averlo scritto. Non ti è mai interessato imparare a suonare uno strumento?»
«Non particolarmente. Ne strimpello molti, clarinetto, oboe, flauto traverso, viola, violino, sassofono, pianoforte, chitarra, anche un po’ di clavicembalo, e ho rotto due arpe. Hanno sempre detto tutti che avevo un ottimo orecchio. Da piccolo soffrivo di acufene, gliel’hanno detto?»
«No, in effetti. Qual è il tuo compositore preferito?»
«Jerry Lee Lewis. Ma io scelgo la musica come si sceglie una colonna sonora. Una pista magnetica di accompagnamento, non so se riesco a spiegarmi.» Il dottore congelò i nervi: si spiegava eccome.
«Sa perché la chiamano colonna sonora?», proseguì ancora retorico. Non era difficile cogliere cosa gli facesse guadagnare un’unanime insopportabilità, eppure Santiago ne era tutt’altro che infastidito. Il suo cervello non sapeva biasimare quella che era pareva in tutto e per tutto una piccola e strana versione di sé stesso.
«Si tratta davvero di una colonna, lungo il margine verticale della bobina di pellicola. È così che le orchestre sono rimaste disoccupate e i teatri sono falliti. Anche le prime pellicole necessitavano della presenza di un’orchestra nella fossa.»
«Ma i teatri non sono falliti e le orchestre non sono finite tutte disoccupate.»
«Non ancora, no.»
«Sai perché sei qui, vero?»
«So che non è uno psichiatra, ne ho dovuti incontrare anche qui in queste due settimane. Sono stato più in ospedale che fuori. Ero sicuro di non star accompagnando mia madre in un soggiorno di piacere. Non ho ricordi di alcun soggiorno di piacere da nessuna parte, specie con mia madre. Ero curioso di sapere cosa avesse preparato. Non so a cosa serva tutto questo, ma i suoi colleghi con cui ho parlato questa settimana mi hanno incuriosito. Mia madre dice che devo sottopormi a un intervento, e che dopo smetterò di essere un problema per tutti.»
«Incuriosito, non spaventato?»
Ludovico abbozzò qualcosa che somigliava alla tristezza; gli occhi s’incrociarono e lo sguardo cadde sulle piastrelle color petrolio con venature bianche. Paura, eccola. Breve, abortita in fretta. Quando alzò di nuovo la testa, lo sguardo era del tutto diverso, il volto rabbuiato.
«Con buona approssimazione, direi di sì.»
«A cosa ti riferisci?
Questo circo non finirà mai. I preti, il Sant’Uffizio, la polizia, ci sarà sempre un Torquemada ogni volta che mi verrà voglia di girare l’angolo per vedere cosa si nasconde dietro. Ogni volta che deciderò di fare qualcosa, sarà quella sbagliata. Non mi fraintenda, dottore: se si tratta di scegliere è molto probabile che io faccia la scelta peggiore. Vorrei dirle che me ne rendo conto solo dopo ma credo che non con lei non serva mentire.»
«Ti piace Mahler? Quintetto per piano e archi, in la minore. È quello che preferisco ascoltare ogni volta che eseguo questo tipo di intervento. Non sempre, devo ammetterlo, ma se dovessi scegliere quale melodia s’accompagni meglio, sarebbe il Quintetto. Anche i Notturni di Satie non sono male, se si rinuncia a concepire la melodia come pura e semplice…melodia.»
«Posso chiederle una sigaretta?» Il dottore gli allungò l’astuccio in argento e Ludovico l’accese con un fiammifero preso dal vassoio di marmo.
«Ho notato che alcune composizioni aiutano i pazienti a rilassarsi, e riducono gli spasmi involontari. Ma, non devi preoccuparti, ti somministrerò della torazina e dell’acido barbiturico tre o quattro ore prima dell’operazione. Poi, appena il cloroformio farà effetto, non sentirai più nulla.»
«So che mia madre ha portato dei dischi.»
«Parecchi.»
«Posso chiederle di poter scegliere da solo la musica, se non le dispiace. Non so quando mi ricapiterà di ascoltarla.»
«Potrai ascoltarla quando vuoi. Magari imparerai ad apprezzare dell’altra musica. Più adulta, forse.»
«Beh, proprio per questo, ridacchiò Ludovico. Vorrei poterla scegliere, almeno adesso.»
Un cappello di silenzio calò su entrambi, bocche chiuse, i reciproci sguardi aggrovigliati in una matassa inestricabile. Ludovico era sicuro che il dottor Santiago capisse, che anche lui, in qualche recesso della sua memoria, conservasse un fotogramma ingiallito della volta in cui aveva incendiato qualcosa solo per il piacere di farlo. Che nemmeno un uomo come lui, nemmeno il genere di medico che era, potesse ignorare la richiesta d’un essere umano a un passo dall’essere scorticato della consapevolezza d’esistere. Gli occhi di Ludovico pizzicarono delle corde che Santiago si era impegnato a lasciare afflosciate.
Pensò a quanti dei suoi pazienti avevano poi avuto la forza e la reattività di rimpiangerla, l’ignorata consapevolezza d’esistere. Alle stentate, traballanti e infantili calligrafie dei biglietti di Natale che ogni anno ancora gli mandavano, alle lettere dei padri di figli invertiti prontamente restituiti a una sana assenza di desiderio, congelati in un’eterna e comoda fanciullezza. A quelli morti per setticemia nei giorni seguenti, alle meningoencefaliti e alle setticemie sviluppate anche dopo settimane, alle operazioni sin troppo efficienti nell’estirpare la devianza insieme alla capacità di stringere e allargare i pugni e masticare la carne. Quanti erano? Quel numero improvvisamente non lo ricordava.
«Non vedo perché no», replicò Santiago. Strinse tra le labbra l’ennesima sigaretta, estratta da uno dei pacchetti che Marcelo gli aveva recapitato in mattinata. Riempì i polmoni di catrame, la nicotina gli imburrò i nervi.
«Cosa vorresti ascoltare?»
«Non saprei, magari Coltrane. O Chet Baker. Un suono ascendente.»
Santiago stirò un embrione di sorriso, la faccia prese a sgorgare rammarico come escrementi dalle conduttore spezzate di una fogna. Avrebbe preferito che Ludovico non se ne accorgesse, ma l’inspiegabile compiacimento che gli tingeva il viso pareva suggerire al mondo che sapesse più di quanto sarebbe mai stato necessario.
Presto, sentì Santiago, sarebbe venuta la colpa.
***
Diana chiese attraverso l’interfono se il dottore se volesse cambiare disco, appena il paziente avesse perso conoscenza. Disse di lasciare il settantotto giri americano, di lasciar sfogare quel clarinetto esotico e non così insopportabile.
Rimase accanto al tavolo operatorio per oltre tre ore, la mano grinzosa poggiata sulle ginocchia per fermare gli spasmi persistenti delle gambe. L’avrebbe fatto portare di sopra e l’avrebbe vegliato tutta la notte. Non profondeva tante premure a un paziente dai tempi del praticantato.
S’assicurò che le cinghie di contenzione tirate sotto le ascelle, appena sotto l’addome e sulla fronte, non stringessero troppo. Gli era capitato che una paziente femmina di quindici anni si procurasse un trauma cranico sbattendo contro il sostegno in acciaio del tavolo. Il cloroformio l’aveva stordita, ma la sua mente aveva fatto resistenza. Praticò lui stesso un’iniezione di Tiopental sodico e scandì il tempo ad alta voce.
L’orbitoclasto penetrò la minuscola sezione d’osso tra l’angolo della palpebra e il naso con un singolo colpo di martelletto, lentamente e senza sbavature affondò nel tessuto molle del lobo frontale. Una barbara tecnica di lobotomia transorbitale definita totale si basava su delle rozze rotazioni concentriche dell’orbitoclasto, così da scavare nel lobo una caverna piramidale. Ne esistevano altre, altre ancora ne aveva elaborate lui stesso. Qualcosa lo fermò. Non eseguì che un’infinitesimale rotazione; l’assistente chiese se fosse sicuro e Sepp replicò con eloquente disinteresse. Concluse l’operazione e fece chiamare all’interfono le infermiere. I pochi letti per i degenti erano collocati due piani più sopra. La clinica occupava il quinto, il sesto e il nono piano del palazzo, interrotta da un’agenzia stampa che non batteva alcuna notizia.
Per un po’ di tempo avrebbe faticato a parlare, ricordò alla madre. Il dottor Santiago Miranda-Rocha impugnò le maniglie della carrozzina e la spinse lungo il breve corridoio che portava all’ascensore. Era la prima volta che Diana lo vedeva spingere una sedia a rotelle. La madre diede un bacio sulla nuca reclinata di Ludovico, l’attaccatura dei capelli molto più arretrata dalla rasatura a pelle, simile a una sorta di tonsura medica. Teresa Amanda Scaligeri soffiò via i vapori arsenicali sedimentati in quegli anni di vilipesa maternità e irradiò ogni cellula con tutta la sua ritrovata serenità. Le lacrime solcavano timide le guance e fendevano un lieve strato di trucco, avvertiva il sollievo di un naufrago salvato dall’oceano.
«Grazie, dottore, la ringrazio davvero! Non può sapere quanto! Spero davvero che Ludovico riesca finalmente a godersi la pace che da sola non sarei riuscita mai a dargli.»
«Vi auguro tutto il bene!», la congedò Santiago, con tutto lo slancio emotivo possibile, dopo aver ripulito il rivolo di bava che sgocciolava dal mento del ragazzo e aver lasciato alla madre il fazzoletto. «Lo terremo in osservazione per una settimana, anche meno, Ludovico è un ragazzo forte. Stanotte starò io di guardia. Si prenda cura di suo figlio, e grazie dello champagne.»
Il manovratore chiuse l’inferriata dell’ascensore e tirò la leva della salita. La madre ancora piangeva la gioia della provvidenza quando raggiunse il reparto degenti. Il sole era appena tramontato, l’avrebbe messo a letto con l’aiuto di due infermiere mozambicane e se ne sarebbe andata libera ovunque volesse.
Santiago, ritornato nel suo ufficio, vide che i dischi erano ancora lì. Li ignorò, l’indice indugiò sulla sua collezione da sublime melomane nella vetrina, ma si rivolse di nuovo ai dischi sulla scrivania. Quarantacinque, trentatré giri, persino un paio di settantotto in gommalacca. Quel Coltrane non era poi così male. Non aveva mai ascoltato quel tipo d’improvvisazione. D’un tratto si sentì pervaso da una curiosità sconosciuta, relegata nei recessi di un passato remotissimo.
Quali mirabili imprese l’uomo aveva compiuto grazie alla musica, rifletté. Molte aveva avuto modo di sperimentarle lui stesso, nel corso della carriera. Scienza e musica sarebbero sempre state inseparabili compagne di letto. Al castello di Hartheim, l’impianto di filodiffusione era tenuto in funzione costante da quattro addetti con turni a rotazione, giorno e notte. Per evitare qualunque genere d’intervallo di silenzio, avevano installato tre grammofoni e un nuovo apparecchio fonografici, prodotto su commissione dalla Deutsche Grammophon in un unico esemplare, corredato da una selezione di settantotto giri riversati su appositi cilindri in resina e lacca. Quella stanza da sola pareva essere un prodigio della scienza. Durante la notte, a seconda dell’esigenza o della semplice ciclicità, veniva scelto il reparto nel quale continuava a trasmetterla, mentre agli altri venivano prescritte cinque ore di silenzio prima della sveglia. Nessuno permaneva al castello molto a lungo, non più di due, tre settimane al massimo.
Il comitato direttivo del Programma di eutanasia di Tiergartenstrasse 4, nel quale venne inserito a partire dal secondo anno come consigliere, apprese che alcune armonie erano più efficaci di altre per tenere quieti i pazienti durante le lunghe ore di attesa. E non si trattava di una questione di tempi e ritmi. Un adagio non infondeva necessariamente più calma di una follia. I soggetti più complessi non erano i dementi, i malformati, i malati di Huntington o affetti da altri parkinsonismi, ma gli epilettici, i ciechi e, più d’ogni altri, gli alcolisti cronici. Per il primo anno da membro del comitato, dalle cento alle cinquecento pagine – delle sette, diecimila che componevano i rapporti mensili – riguardavano gli effetti psicofisici derivati dall’ascolto prolungato di composizioni musicali. I più disastrosi, come sarebbe stato lecito prevedere senza eccessi di fantasia, si ebbero con Beethoven – e, con maggiore sorpresa, Chopin. I quartetti d’archi per musica da camera di Haydn, al contrario, sembravano mantenere le menti più fragili in perfetto stato di quiescenza. Così pure si rivelarono Gershwin, gli Strauss viennesi, gran parte dei madrigali del rinascimento italiano, Felix Mendelssohn – era il solo posto nel Reich nel quale fosse possibile ascoltare compositori ebrei –, mentre Vivaldi, Bach, gli oratori barocchi e i balletti fornivano risultati contrastanti. Le volte in cui era toccato a lui stilare i rapporti, aveva constatato non senza sconforto quanto fosse difficile condurre accurati esami scientifici senza una vera scienza a sostenerli. Quando il Programma cessò, negli anni successivi venne erogato un memorandum ai comandanti dei campi affinché evitassero di affidare opere di Beethoven alle orchestre dei deportati. Non aveva idea se qualcuno avesse mai letto quel memorandum, né se realmente fosse stato fatto circolare o se servisse soltanto a giustificare l’ordine di redigerli.
A quel tempo andava spesso all’opera, frequentava una cantante italiana di origini caucasiche e ungheresi. Un mezzosoprano, Fabiola. Un vulcano di fascino, e problemi. Santiago non sapeva dire se avesse iniziato ad amarla per la sua vulnerabilità, né se fosse davvero amore. No, certamente non lo era. Ma aveva davvero tentato di tenerla al riparo da medici in tutto e per tutto simili a lui. E, per un po’, c’era riuscito. In un anno ebbe due crolli nervosi e trascorse lunghi soggiorni in una clinica sul lago Weissensee. La benzedrina non l’aiutava, e nemmeno l’opera.
Una sfibrata sequenza di ricordi mal incasellati gli scivolava davanti agli occhi come uno di quei pessimi film di propaganda che giravano agli Ufa in quegli anni. Ne ricordava uno piuttosto bene, L’eredità, sulla trasmissione delle tare genetiche alla progenie, girato come una specie di diario scientifico. E quello di Liebeneiner su una donna malata di sclerosi multipla che implora per l’eutanasia, presentato a Venezia per celebrare il Programma appena concluso. Sulla carta, almeno. Nei fatti, proseguì fino alla fine della guerra.
Alla fine anche Fabiola non fu più capace di schivare le retate, e la deportazione. Smisero di vedersi circa sei mesi dopo il parto. Se anche non fosse andata così, se anche lui fosse stato un diverso uomo, un diverso cristiano, il figlio di una schizofrenica non avrebbe potuto aspirare a una vita longeva. La genetica risultava molto più gestibile quando si davano per scontati i suoi meccanismi. Confessioni e follia rimanevano attaccati alla pelle per sempre. Santiago provò a consigliarle di darlo in adozione, ma lei volle tenerlo e dargli il suo cognome. Non a lungo, questo lo sapeva. Quantomeno, si disse, le avrebbe risparmiato la verità.
Il bimbo venne ricoverato per una febbre invernale e ne venne dichiarata la morte per polmonite. Il piccolo entrò al castello di Hartheim con un nome del tutto tedesco, un nome che ora il dottor Miranda-Rocha si sforzava di ricordare, e che proprio non gli sovveniva. Non avrebbe avuto modo di recuperarlo da nessuna parte se le paludi della memoria non avessero deciso di restituirglielo. Col tempo, aveva cominciato a credere di non averlo mai saputo, come non fosse mai neanche nato. Il che non era molto distante dalla verità. La vita di ogni medico è costellata di pazienti, di nomi, e di facce stinte e spaventate senza altri segni particolari.
E così era stata la sua. Ma solo avvertiva il peso di trent’anni di carriera spesi a prescrivere diverse forme di morte come panacee per ogni dolore. Del resto, non ricordava nemmeno quale fosse l’ultima opera che era andato a vedere. No, quella, invece la ricordava. Il mondo alla rovescia del Salieri. Forse la più soave di tutte le nottate trascorse al Salone Margherita.
La musica, da allora, era molto cambiata. Più di quanto fosse cambiata tra i suoi tempi e quelli di Salieri. Ora, niente di quel mondo sembrava più sopravvivere. Poteva anche darsi che non fosse un male, che anche lui diventasse polvere. Quanto tempo ancora sarebbe passato? Quanta musica avrebbe ancora ascoltato?
Raccolse un quarantacinque giri dalla pila poggiata sulla scrivania, quello che pareva più nuovo, un titolo che anche il suo inglese poteva tradurre. Buddy Holly, Everyday. Decise di metterlo.
Buddy Holly, gli pareva d’aver sentito il nome alla radio. La puntina graffiò il vinile riproducendo una voce che pareva d’un bambino.
Everyday, it’s a-gettin’ closer, Goin’ faster than a roller coaster, Love like yours will surely come my way, A-hey, a hey-he!
Il livello dello scotch nella bottiglia era destinato a scendere. La musica non era male. Non era male per niente. Non avrebbe buttato i dischi. Alla fine della canzone cambiò il lato. Ne aveva già scelto un altro quando la canzone terminò. Quel titolo non gli era nuovo, ma dovette ascoltarla quasi tutta per liberarsi dal tarlo.
You shake my nerves and you rattle my brain, Too much love drives a man insane, You Broke my will, but what a thrill, Goodness gracious, great balls of fire! I laughed at love ‘cause I thought it was funny, You came along and you moved me honey, I’ve changed my mind, this love is fine, Goodness gracious, great balls of fire!
Via col vento, l’aveva visto in almeno tre lingue per una decina di volte.
Great ball of fire don’t bother me anymore and don’t call me sugar!
E quello che sarebbe potuto essere rammarico e, addirittura, pentimento, si disciolse nel miele colato dal ricordo dell’ineguagliabile Vivien Leigh, della Scarlett a cui tutti gli uomini della sua generazione sarebbero sempre stati sposati.
No, la musica non era affatto male.
Antonio Salieri Beethoven Buddy Holly Chet Baker Chopin Danse macabre op. 40 In tre movimenti Fascismo Felix Mendelssohn Fogliettòn Gesuiti Giacomo Cavaliere Haydn Jerry Lee Lewis John Coltrane Julio Armenante lisbona Lobotomia Mahler Nazismo Racconti Sinfonia n. 1