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Non sei tu, sono io - divagazioni pasoliniane
By Malgrado le Mosche Posted in Inve(n)t(t)ive, Miscellanea on 24/03/2023 One Comment 34 min read
Ci sono corpi che non hanno voce, ma parlano Previous Budalla Next

di Stefano Trucco
Copertina di Julio Armenante

Parte I

L’altro giorno, avvolto nella solita malinconia che mi prende ogni volta che finisce il festival di Sanremo, mi è capitato di leggere uno dei frequenti post social su Pier Paolo Pasolini ‘intellettuale scomodo’ ucciso perché ‘ciò che sapeva poteva far tremare il Potere’, post che immagino proseguisse con l’ultima versione della sua morte ‘misteriosa’, quella secondo cui fu ucciso dalla Banda della Magliana, che com’è noto si può portare su tutto (e difatti, qualche giorno dopo, l’ennesima richiesta di riaprire il caso, stavolta col DNA).  Malmostoso com’ero in quel momento ho cominciato a rimuginare uno dei miei più radicati pregiudizi nei confronti dell’autore di Trasumanar e organizzar e cioè che quanto più è ammirato tanto meno è letto e che se fosse più letto sarebbe un po’ meno ammirato, tanto che alla fine mi sono deciso a provare a scriverci qualcosa su, partendo da quando provai a leggerlo per la prima volta.

Ma prima, alcune indicazioni di scena.

Quando: da qualche parte fra l’arresto dei leader di Autonomia Operaia (aprile 1979) e il primo caso di AIDS in Italia (ottobre 1982).

Dove: Genova, Quartiere Ina-Casa Forte Quezzi, popolarmente detto ‘Il Biscione’; la stanzetta con troppi libri di un adolescente con gli occhiali che legge disteso sul letto, alla luce di una radio-lampada che in quel momento sta trasmettendo ‘London Calling’ dei Clash. Ai piedi del letto, su un tavolino, un piccolo televisore in bianco e nero senza audio trasmette i Jefferson.

“La nuova generazione è infinitamente più debole, brutta, triste, pallida, malata di tutte le precedenti generazioni che si ricordino”

Insomma… Ma non è che sta parlando di me? Beh, anche del resto della mia generazione, d’accordo. Però…

“Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa – e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione – è nato uno scandaloso rimpianto: quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra”.

Sul senso di colpa ne possiamo discutere, con la coda di paglia esistenziale che mi ritrovavo fra le gambe già allora ma, seriamente, è proprio il caso di ritirare fuori il fascismo?

“Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente condannano per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri”.

Ok, capito il punto. Solo che non trovo molto divertente starmene qui a farmi insultare da uno a cui non posso nemmeno rispondere. Stammi bene, PPP, e insegna agli angeli… Vabbè, come non detto.

Nel 2022 c’è stato il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini e vari pesi massimi e medi della cultura italiana hanno fatto uscire i loro testi più o meno agiografici su uno dei colossi del Novecento e non era proprio il caso di cercare di farsi notare mettendo in mostra la propria, come avrebbe detto Charles Lamb, ‘imperfect sympathy’ per il regista del Vangelo Secondo Matteo, sarebbe stato come entrare da turista in chiesa durante la messa e farsi i selfie davanti all’altare (scena vista un paio di mesi fa, Chiesa del Gesù in Piazza Matteotti, pareva un americano).

Ora è il 2023, che fra l’altro sarà l’anno di Calvino, il tradizionale polo critico alternativo a Pasolini, e perciò la si potrebbe prendere un po’ più scialla, fuori dal cono d’ombra della celebrazione ufficiale e del consenso unanime di supplementi culturali dei quotidiani, influencer e polizia. Certo, a Pasolini sono stati dedicati nove Meridiani (per dire, Calvino si deve accontentare di quattro) curati da Walter Siti mentre il mio maggior successo come scrittore è stato di non dover pagare per la pubblicazione di due romanzi, romanzi che peraltro non mi hanno precisamente portato fama o ricchezza, oltre all’aver partecipato all’unico talent dedicato alla scrittura nella storia della televisione.

Metti poi che sono mesi che non riesco a scrivere niente di serio e in realtà questo articolo servirebbe a farmi in qualche modo ripartire scaricando un po’ di bile nera, una pratica medica medievale che mi dicono all’epoca funzionasse. Comunque, per parlare di Pasolini non mi viene in mente niente di meglio che cercare di spiegare perché quando incontrai la sua opera, da adolescente discretamente ignorante, mi ispirasse da quasi subito una estrema diffidenza, la stessa diffidenza che, qualificata e precisata, nutro tuttora. Autobiografia, in fondo, ma il più possibile astratta e col minor numero di possibile di dettagli concreti perché parlare di me con qualche serietà mi deprime non poco. Ma, appunto, non mi è venuto in mente niente di meglio. Non è un caso se i miei romanzi parlano di tutto fuorché di me. In compenso, il mio metodo quando provo a scrivere di letteratura o simili è quello di prendere idee che potrei trattare in due o tre pagine e allungarle a dieci o venti parlando molto di me e tirando fuori un mucchio di informazioni e storie che a me paiono interessanti e che spero possano interessare chi legge, specie se chi legge in realtà non sa moltissimo dell’argomento. Come dicevo, sospetto che Pasolini in realtà sia più citato e ammirato che letto o visto.

Appoggerò la mia francamente fallace memoria agli scritti su Pasolini di alcuni scrittori che si occuparono di lui: in primis Alberto Arbasino, suo amico e interlocutore e in un certo senso alter ego, ma soprattutto mio scrittore italiano minore preferito; poi il critico Marco Belpoliti, che nel 2022 ha fatto uscire per Guanda Pasolini e il suo doppio, una sua raccolta di scritti che da un lato mi pare estremamente acuta e corretta, ma dall’altro non è altro che il suo Pasolini in salsa piccante uscito nel 2010 con qualche piccola aggiunta; e Paolo Monelli (1891-1984), uno scrittore e giornalista piuttosto famoso ai suoi tempi, molto reazionario ma piuttosto intelligente, che nel 1961 si fece portare in macchina da Pasolini a visitare una borgata romana.

Quando Pasolini morì, nel 1975, avevo solo 13 anni e mi rimane solo un vago ricordo di battute sgradevoli in classe o, peggio, nella cucina di casa dove mangiavamo. Il mio vero incontro con Pasolini avviene quindi nei primi anni Ottanta, quando avevo fatto il minimo indispensabile di chiarezza preliminare nella mia vita e mi ero reso conto di avere una cosa, una sola ma abbastanza importante, in comune con lui, oltre a un acuto interesse per la politica. Ero quel che si dice un giovane proletario (famiglia operaia, quartiere difficile etc) piuttosto timido e pochissimo assertivo che trovava nella lettura, praticata in modalità binge, un rifugio a una crescente sensazione di alterità. Alterità dovuta sia alla cosa in comune che avevo con Pasolini che al fatto di non avere assolutamente nessuno con cui parlare di niente di quel che mi importava, non in famiglia, non fra gli ‘amici’, non alle superiori e non all’università che potevo frequentare solo lavorando. La ‘cultura’ in cui mi rifugiavo – in gran parte mediata dalla religiosa lettura settimanale dell’Espresso, all’epoca vera stazione centrale del campo culturale italiano – mi si depositava dentro senza essere digerita e senza la possibilità di essere comunicata ad alcuno senza provocare reazioni di scherno o peggio. Una cultura di sterile, per me, e fastidiosa, per gli altri, erudizione che sarei riuscito a digerire solo verso i quarant’anni, non prima. Ben contento, oggi, di aver messo da parte un ricco magazzino di nozioni potenzialmente utili, che se non altro fanno arredamento, ma all’epoca erano più parte del problema che soluzione. Insomma, ero molto solo e leggere non migliorava la situazione e probabilmente la peggiorava, regalandomi un senso di superiorità del tutto immaginario sui miei persecutori, che tali li percepivo. Quindi chi meglio di Pasolini, la vittima per eccellenza, come santo protettore del mio male di vivere, così specifico e al tempo stesso così comune?

Invece…

Si comincia dai romanzi, come sempre. Ragazzi di vita, Una vita violenta… Non ero in grado di apprezzarli allora. Leggevo solo fantascienza o gialli (oppure storia, la mia vera passione). Il mio ideale di romanzo era La tigre nella notte di Alfred Bester, a pari merito con La svastica sul sole di Philip K. Dick. Fra i gialli invece se la giocavano Agatha Christie, Ellery Queen e John Dickson Carr; solo più tardi mi sarei innamorato di Simenon. L’unico classico canonico che leggessi e amassi era Charles Dickens, che ancor oggi è la mia idea di cosa dovrebbe essere un romanzo. Fra l’altro non leggevo romanzi italiani, come non vedevo film italiani e non sentivo musica italiana – esilio interno, duro e puro. Il malvagio Demiurgo aveva incarnato la mia anima americana in uno squallido corpo italiano. Quindi non ci trovavo nulla di interessante né di attraente nei romanzi di Pasolini e di certo non mi riconoscevo in alcun modo nei suoi personaggi, per quanto avessero più o meno la mia età. Pensavo fosse passato troppo tempo, come minimo, e che Genova fosse molto diversa da Roma. Quando rilessi Ragazzi di vita, un po’ più maturo e criticamente allertato, quando avevo deciso di provare a diventare uno scrittore italiano e non uno scrittore doppiato in italiese e perciò recuperavo la tradizione italiana, il mio giudizio non cambiò di molto – il Pasolini romanziere non reggeva il confronto con Elsa Morante, per citare una scrittrice che gli fu vicina, ma nemmeno con l’immenso Aldo Busi, not by a mile -, anche se ora era in grado di apprezzare certe descrizioni puramente liriche, come pure la poesia di Pasolini, che all’epoca non mi sognavo neppure lontanamente di leggere. Non leggevo poesia, period. Essere uno scrittore, per me, voleva dire scrivere romanzi (e questo valeva e ancora vale per gran parte del pubblico, tutto sommato) e Pasolini non era essenzialmente un romanziere. Non avevo ancora recepito la distinzione fra scrittore, romanziere e narratore ma pazienza.

Figuriamoci il suo cinema. Blues Brothers, Blade Runner, Apocalypse Now e Woody Allen (e, curiosamente, Amarcord di Fellini; per lui facevo un’eccezione al mio embargo anti-italiano), quello era cinema. Quello e Ombre Rosse. E Metropolis. E… Avvertivo che il Vangelo Secondo Matteo era in qualche modo ‘bello’ ma la religione ancora non mi interessava. Uccellacci e Uccellini era… beh, curioso. Ma poi il Cineclub Lumieré di Piazza Martinez annunciò la proiezione del mitico Salò, o le 120 Giornate di Sodoma, un film che non davano certo in televisione e non era facile da vedere a quei tempi. Feci l’errore di andare. Errore che fecero anche molti altri, la crema della cinefilia genovese post-sessantottina. Io uscii a metà, altri molto prima. Il commento più benevolo fu ‘ma chi me lo fa fare?’. Magari quelli che lo videro fino in fondo ne dissero meraviglie. Io continuo a pensare che quel film si possa vedere solo per scommessa.

Insomma, come scrittore, come regista, come artista, Pasolini non era per me.

Questo però non era il punto. Ero conscio dei miei limiti estetici: la sua opera non mi piaceva ma probabilmente il problema ero io e non lui (a parte Salò, che non potevo davvero perdonargli). Pasolini già allora era principalmente un’icona, un monumento, un maestro di saggezza, soprattutto emotiva, per quel ceto medio riflessivo di cui certo un giorno avrei fatto parte, soldi permettendo, ma soprattutto per me poteva essere una guida su quell’unica cosa che avevamo in comune in un momento in cui ne avevo un gran bisogno e il poeta con la ‘faccia ossuta a forma di pugno’ (come lo descrisse Parise) e la maglia del Genoa sembrava il candidato perfetto.

All’epoca avevo cominciato a interessarmi di politica in maniera quasi ossessiva (non che ‘facessi’ qualcosa, aderissi a partiti o movimenti o che altro: leggevo e parlavo, null’altro). Non ero davvero di sinistra, malgrado il mio ambiente, anzi; però sul tema dei diritti civili ero fermamente convinto e non avevo dubbi che si trattasse di una cosa buona e che lo fosse la cosiddetta ‘liberazione sessuale’ e che questa comportasse una maggiore tolleranza e libertà per quelli che stavo imparando a riconoscere come miei gusti. Quindi le posizioni di Pasolini, specie dell’ultimo, quello degli anni Settanta, mi lasciavano perplesso.

Quello che, per intenderci, che considerava il referendum sul divorzio del 1974 come una vittoria della destra e che allo stesso modo era pochissimo entusiasta nei confronti del diritto all’aborto. Si trattava, in entrambi i casi di una ‘una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero praticamente più ostacoli’.

Ora, non capivo perché questo fosse un male: poteva anche non interessare a me ma l’accoppiamento eterosessuale era favolosamente popolare fra praticamente tutti i miei coetanei e chi ero per dargli torto? Ma no, apparentemente la ‘liberazione sessuale’ altro non era che un inganno del potere per rendere più popolare la coppietta lui e lei intesa per facilitare i consumi di massa, una cosa all’epoca ancora talmente nuova da essere in effetti vissuta in maniera frenetica.

‘Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore’.

Questo mi dava da pensare perché, da piccolo aspirante intellettuale, non potevo fare a meno di accettare la condanna del consumismo che veniva da praticamente chiunque allora scrivesse, con accenti più o meno enfatici. Una condanna largamente morale, dato che la sensibilità ecologista era allora nuova e marginale e la distruzione della Terra era immaginata più per mezzo delle bombe atomiche che dell’inquinamento, che veniva condannato per motivi estetici (rovina le città) o di salute più che per i suoi effetti sistemici.

Inoltre, le posizioni di Pasolini sui ‘diritti civili’ erano a dir poco ambivalenti anche in altri ambiti.

‘Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono, o addirittura ci rinunciano. Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli)’.

Non ero sicuro di capire cosa volesse dire. Ed eccolo in un articolo del 1974 discutere il libro di due autori francesi sull’omosessualità:

“Dal libro di Daniel e Baudry risulta, almeno implicitamente, che un omosessuale ama, o fa l’amore, con un altro omosessuale. Mentre le cose non stanno affatto così. Un omosessuale, in genere (almeno nei paesi mediterranei), ama e vuol fare l’amore con un eterosessuale – ok, hai la mia attenzione – disposto a una esperienza omosessuale, ma la cui eterosessualità non sia posta minimamente in discussione. Egli deve essere ‘maschio’ (da ciò la mancanza di ostilità verso l’eterosessuale che accetta il rapporto sessuale per semplice sfogo o interesse: cosa che garantisce infatti la sua eterosessualità)”.

Scusa, Pierpaolo, ma mi stai dicendo che gli eterosessuali te la possono dare, tipo, gratis? E dove, esattamente?

Questo era per me così nuovo e inusitato, così diverso dalle povere idee e dalla poverissima pratica raccattate fino a quel momento sull’argomento che mi ci volle un po’ per capire dove PPP volesse andare effettivamente a parare. Perché, molto semplicemente, questa cosa, per quel che ne sapevo io, NON ESISTEVA.

Eppure avevo lo scrittore-testimone di controllo, uno scrittore che a differenza di PPP mi fece immediatamente simpatia, una simpatia rimasta intatta con l’età e malgrado abbia finito per ammettere che si tratta di un autore intensamente minore: Alberto Arbasino. A quanto pare, secondo il Venerato Maestro di Voghera, le cose stavano davvero così. Anche lui parlava di una ‘ultima età d’oro per la bisessualità mediterranea, latina, rinascimentale, sia popolare sia d’élite’ fatta di ‘incontri maschili immediati e anonimi, di sfoghi sfrenati di gruppo, senza criminalità né polizia’ e dovuta al fatto che le ‘condizioni maschili erano semplici e basiche, secondo i requisiti più tipici d’una bisessualità ‘di necessità’ in una società dove le ragazze sono tradizionalmente inaccessibili: non parlare e lasciare agire, perché la “cosa”, finché non viene nominata e riconosciuta, non esiste, e non va vidimata neanche con l’offerta di una sigaretta’.

(Solo più tardi avrei scoperto che l’associazione dell’Italia con l’omosessualità era storia antica, specie fuori dall’Italia. Per esempio, all’inizio del Settecento Daniel Defoe in un poema satirico, The True-born Englishman, assegna a ogni nazione il suo vizio, tipo l’orgoglio alla Spagna, l’ubriachezza alla Germania, la frivolezza alla Francia e la lussuria alla ‘torrida zona dell’Italia, dove il sangue fermenta nello stupro e nella sodomia’. Ai primi del Novecento, invece, uno scrittore di origine americana che viveva in Italia e si firmava Xavier Mayne pubblica uno dei primi libri a favore dell’omosessualità, che però chiama ‘similsessualità’, e ci ricorda che ‘gli italiani saranno eternamente similsessuali e eterosessuali, a livelli tali che ci lasciano a volte perplessi. Hanno, per via ereditaria, un senso profondo della bellezza maschile, associato a un apprezzamento sensuale e sessuale del fascino femminile’. Ma questa è erudizione e sarebbe arrivata molti anni dopo: all’epoca certe cose erano difficili da sapere perché in biblioteca non c’era il prestito automatico così che per prendere in prestito un libro di storia LGBT+ avrei dovuto praticamente fare coming out col bibliotecario che mi avrebbe guardato con aria allusiva e non me la sentivo).

Mi stavo forse perdendo qualcosa di assolutamente fantastico?

Non proprio.

L’altra mattina, portandomi in macchina al quartiere Tiburtino e alle borgate orientali di Roma mi diceva Pasolini con candido compiacimento: “Sono popolare fra quella gente. Basta che entri in un bar che poco dopo ho attorno una ventina di persone che mi chiedono che cosa faccio, mi dicono che stanno leggendo il mio libro. Per la strada c’è sempre qualcuno che mi chiama a nome, altri che mi vengono dietro con la motocicletta.

Nell’ottobre del 1961 Paolo Monelli, all’epoca uno dei più noti giornalisti italiani, pubblica sulla rivista ‘Il Successo’ un ritratto di Pasolini, parte di una serie sugli scrittori italiani del momento intitolata Scrittori al girarrosto (titolo abbastanza infelice, tanto che il libro in cui saranno raccolti si intitolerà Ombre cinesi). Monelli (1891-1984) era un anziano gentiluomo reazionario – negli anni Trenta aveva guidato la campagna per purgare l’italiano dalle parole straniere e seguito con entusiasmo le truppe italiane in Etiopia – ma sapeva scrivere e era tutt’altro che stupido: i suoi libri sul fascismo – Roma 1943 e Mussolini piccolo borghese – sono ottimi. Resta che immaginarlo (ah, fu uno degli ultimi a usare regolarmente il monocolo) con Pasolini sulla Giulietta Sprint che questi ha potuto comprare grazie ai proventi cinematografici di ‘Accattone’ fa strano.

Stando così fermi a guardare ci passa accanto una motocicletta con due ragazzi a cavalcioni; riconoscono Pasolini al volante, gli fanno cenno; lasciano la macchina al margine della strada, tornano indietro di corsa, tappano il finestrino con i volti alacri. “Embè” fa uno dei due, avrà si e no vent’anni, un viso dai lineamenti fini, sfrontato, una ciocca leggera di capelli gli scende con grazia sulla fronte, “embè, quando se fa sto filme?”

La ‘ciocca leggera di capelli’ ricorda tanto ‘i fieri ciuffi innocenti’ dei ragazzi di vita. Monelli, sottilmente ironico, non può però fare a meno di notare quanto conti per Pasolini ma anche per i ragazzi l’auto nuova: “Con la Giulietta è un’altra cosa, ispiro rispetto a tutti, si fanno subito da parte”. Monelli, inoltre, è molto attento alle dinamiche interne al campo letterario italiano, specie fra i giovani emergenti: la Giulietta “è bianca come quella di Calvino?” “Sì, è bianca come quella di Calvino”. Lo scrittore sanremese, dal canto suo, intervistato da Monelli qualche mese prima, pare anch’egli molto orgoglioso della sua velocissima Giulietta sprint che “fa i 180, però non la spingo mai al massimo” e che gli serve, dichiaratamente, per andare con le ragazze anche se “le donne passano, la macchina resta anche se ogni tanto la si deve cambiare, ma le donne cambiano più in fretta e contano meno, ci mancherebbe altro se non fosse così” e il minimo che posso dire è che francamente Calvino così non me lo aspettavo.

“Come va Giorgio?” domanda Pasolini al ragazzo bello, “lavori?” “Nun me va de lavorà” risponde il ragazzo, sereno.

Ovviamente poi non succede nulla di sconveniente ma ci siamo fatti un’idea di Pasolini nel suo ambiente preferito e benché Monelli sia un testimone tutto sommato ironico, se non proprio malevolo, il tono della scena è sostanzialmente positivo, grazie anche al fatto che Pasolini è in un periodo di grazia in termini di creatività e, diciamolo, di carriera.

Dieci anni dopo, l’editore SugarCo commissiona al giornalista Gianfranco Finaldi un libro che uscirà col titolo Guida ai piaceri di Roma, con illustrazioni del giovanissimo e praticamente irriconoscibile Altan. E’ un libro godibilissimo e indispensabile per chiunque volesse ambientare una storia nella Roma dei tardi anni Sessanta e primi anni Settanta. Finaldi è un personaggio abbastanza ripugnante, un missino legato ai servizi segreti e coinvolto perciò in alcune storie abbastanza brutte di quegli anni, ma scrive con brio e humour, ed è chiaramente molto ben informato. La Guida, che pure comprende un bel dizionario delle strade della capitale si concentra però sui piaceri: su ristoranti, negozi, locali etc, oltre che sui personaggi più in vista della città. Largo spazio è dedicato alla prostituzione, con indicazioni molto precise sul dove e sul quanto.

Finaldi dedica alcune pagine alla Roma omosessuale (che ovviamente dice di non conoscere affatto ma di aver chiesto ai competenti), sotto forma di un immaginario ‘safari’ fra i luoghi deputati da cui esce un quadro brulicante di attività ma tutto sommato piuttosto deprimente dove la ‘classica bisessualità mediterranea’ appare decisamente in crisi, in quanto “se tirando le somme verrà fuori che la selvaggina di tali safari è prevalentemente mercenaria, è inutile e ingeneroso incolparne gli omosessuali: anche in amore è finito il tempo dei ruspanti, tutto è mercificato e supermercatizzato” (carina questa accezione negativa di supermercato).

Non per niente la zona di maggiore attività risulta essere attorno a un bar sulla Nomentana, quartiere Montesacro, vicino a un certo numero di caserme, frequentato da “uomini più o meno ben vestiti, ma sempre ricercati, con nello sguardo un non so che d’indefinibile; e altri uomini giovani, alti in uniforme, che giungono al bar con la stessa sicurezza con cui i battelli imboccano l’entrata del porto dopo giorni di navigazione… Quindi i giovanotti in uniforme verranno riaccompagnati nei pressi della caserma e poco dopo, in braccio questa volta a Morfeo, sogneranno la fidanzata lontana in quel di Pordenone… il militare più che per lucro accetta le profferte particolari come vago surrogato dell’avventura eterosessuale, per lui difficilmente attingibile…”

In queste pagine Pasolini viene citato solo di sfuggita: “e quanto agli aspiranti mantenuti scoraggerebbero persino Pasolini”. Del resto, anche i ragazzi di vita risultano molto meno simpatici: dalle parti della Stazione Termini “il safari si fa davvero pericoloso: tra le ‘prede’ ci sono autentiche belve, selvaggi ragazzi di borgata destinati alla cronaca nera. I romani li chiamano icasticamente ‘ammazzabozzi’, magari non li ammazzano, ma il portafoglio sanno come strapparglielo via al momento giusto: non foss’altro che per perdonarsi lo sgarro alla regola della virilità, buttandola sulla bravata malandra”.

Insomma, la Mutazione Antropologica sta andando a gonfie vele e malgrado Pasolini non sia mai stato così famoso e importante anche internazionalmente (tanto che i Monty Phyton gli dedicano uno sketch del loro Flying Circus in cui è interpretato da John Cleese) la sua visione del mondo è sempre più angosciata e apocalittica. Sente che il suo mondo si sta disintegrando e ne registra i sintomi in maniera al tempo stesso puntuale e grottesca: L’Italia non è più pittorescamente caratterizzata dalla presenza di gruppi di giovani maschi, che se ne vanno in giro, o sostano nelle piazzette, da soli, coi loro motori o le loro complicità virili: ora in mezzo a questi gruppi c’è “sempre” qualche ragazza. Addirittura nei prati dove i ragazzi giocano a pallone, che è un gioco da maschi, e dove è dunque naturale che essi siano soli tra loro, c’è sempre qualche ragazza. La presenza di queste ragazze tra i maschi, che una volta erano soli tra loro, cambia la fisionomia dell’Italia. Questo da un articolo del 1972 intitolato Troppa libertà sessuale e si arriva al terrorismo che si legge come una parodia e personalmente quel “sempre” tra virgolette mi suona terribile. Però era vero, se pure i maschi giovani continuavano a passare del tempo fra di loro le ragazze ora c’erano. Quando arrivai io questo mi parve perfettamente naturale e non potevo immaginare che un tempo fosse stato diverso.

Certo, la Mutazione Antropologica di uno può essere il Boom Economico di un altro. Arbasino la prende con filosofia, anche se un po’ gli dispiace (del resto il Casalingo di Voghera dev’essere l’unico scrittore italiano di una qualche importanza che dedicasse al Boom un romanzo ‘positivo’, Fratelli d’Italia): la definitiva vittoria della ‘coppietta’ era la ‘smentita, empirica, della tesi della bisessualità antropologica, pagana, dei ragazzi italiani’ da cui derivavano tutta una serie di sviluppi sgradevoli ma inevitabili che portavano i gay a chiudersi in ‘discoteche dove si investe il tempo e i soldi del sabato sera in un amalgama impersonale, o in baretti dove si passano le ore gemendo sui bei tempi passati e sulle nuove malattie’. Il mondo poteva anche essere più brutto e squallido ma non era un complotto del potere se ‘i ragazzi adesso hanno soldi e automobili, oltre che le ragazze. L’arrivo di un’Alfa Romeo in una piazzetta non è più un avvenimento, l’offerta di una pizza fa sorridere di compatimento’.

Personalmente di soldi in famiglia ne giravano pochi e non c’era granché da scialare ma eravamo poveri in maniera diversa dal passato, più relativa che sostanziale. Abitavamo in un gigantesco casermone LeCourbuseriano (oggi vincolato dalle Belle Arti e presente in tutte le storie dell’architettura italiana), con luce, gas e acqua corrente. La macchina ce l’avevamo e così pure tutti quegli elettrodomestici che nell’immaginario dei letterati dell’epoca rappresentavano grosso modo il Male, televisione in testa, anche se ben pochi con la radicalità di Pasolini, radicalità che lo portava a nostalgie per l’Italia del passato facilmente fraintendibili: ‘Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata…’

Era un mondo dove, semplicemente, i giovani erano più belli perché ‘la naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza’. La bellezza fisica, ancora corrente una decina d’anni prima – ‘figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffi innocenti’ – corrispondeva direttamente alla bellezza morale, che faceva sì che un ragazzo fosse ‘amato subito per la innocente disposizione del suo cuore, per l’abitudine a una obbedienza e a un rispetto non servili, per una sua libertà dovuta alla sua grazia; per la sua rettitudine’. Ma tutto ciò è passato: i giovani maschi, sempre e solo loro, tormentati dalla presenza delle donne in mezzo a loro, ‘si vergognano dei loro eventuali ricci, del roseo o bruno splendore delle loro gote, si vergognano della luce dei loro occhi, dovuta appunto al candore della giovinezza, si vergognano della bellezza del loro corpo’.

Insomma, questi giovani così belli, così umili, così retti – così, come dire, a disposizione – non c’erano più.

Ce l’eravamo giocata, apparentemente. Facevamo – facevo – parte di una generazione degenerata, una generazione ‘infinitamente più debole, brutta, triste, pallida, malata di tutte le precedenti generazioni che si ricordino’. Per non parlare di quella meravigliosa e naturale bisessualità che ci apparteneva fino a pochissimo tempo prima e che ora pareva un miraggio. Intorno al 1980 il sesso omosessuale con eterosessuali come l’intendevano Pasolini e Arbasino era strettamente cash, era quello descritto dieci anni prima da Finaldi. Dalle mie parti i marchettari erano identificati come tali senza ambiguità: poi, a seconda del loro status nei network relazionali del quartiere potevano essere giudicati con estrema severità non disgiunta dalla possibilità di violenza (‘buliccio di merda’) o con una certa tolleranza compassionevole (‘dai, che c’ha di bisogno, mica che gli piace’). Vi lascio immaginare il mio, di status relazionale: chiaramente, non potendo assolutamente passare per ‘buliccio’ dovevo passare per uno che semplicemente non ne beccava, cosa, all’epoca, perfettamente credibile, timido e insignificante com’ero.

Poi ok, il quartiere era quello che era, ma alla fine potevo prendere un autobus e spostarmi da qualche altra parte; oltretutto andavo alle superiori a Sampierdarena, praticamente dall’altra parte della città. Genova era ed è una città, come dire, molto lunga e diversificata. Un minimo di impegno e persino io, in quegli anni pre-Internet, scoprivo cosa la Superba potesse offrire a quelli come me e dove, così che i primi anni Ottanta mi videro mettere in scena in diverse location una serie di piccoli e sventati coming out che se pure di solito mi lasciavano il cuore spezzato, in compenso mi lasciavano miracolosamente intatti i denti: a ripensarci fui persino fortunato. Insomma, stavo dispiegando le mie alucce multicolori, malgrado le mie insicurezze e malgrado la Mutazione Antropologica. Pasolini, mi era già chiaro anche in quei giorni quasi felici prima della gelata precoce, non sarebbe stato d’aiuto.

Leggendo per conto mio e parlandone con altri della lobby similsessuale ero giunto quindi a alcune conclusioni poco simpatiche, temperate solo dal rispetto dovuto a un autore così celebrato dall’Espresso, che allora era per me il Vangelo settimanale. Intanto, che, per citare le parole di un conoscente del tempo, il problema di Pasolini è che aveva il braccino corto e non accettava che i prezzi delle marchette fossero saliti: era uno di quelli che la voleva gratis (sì, lo so, non è simpatico, ma c’è del vero). Avevo deciso, con un certo sconcerto, che molte delle sue prese di posizioni più politiche erano in realtà sostanzialmente estetiche, di quell’estetica che capivo benissimo anche senza aver studiato perché era quella cui pensavo tutti i giorni: i corpi degli altri maschi giovani. Questo mi pareva vero tanto per la famosa condanna degli studenti di Valle Giulia a favore dei poliziotti ‘proletari’ che per la sua leggermente isterica tirata contro i ‘capelli lunghi’, proprio il primo articolo degli Scritti Corsari e che a me, giovane metallaro a cui i capelli lunghi piacevano moltissimo, non poteva che indisporre oltre che parere sostanzialmente incomprensibile. Come ci ricorda Marco Belpoliti ‘il metodo attraverso cui Pasolini legge la realtà è visivo. Egli infatti osserva i segni, i comportamenti, i gesti; osserva i corpi e i segni fisici… al centro dell’attenzione di Pasolini corsaro ci sono dunque i corpi, i corpi dei giovani ragazzi’. Il fatto è che applicare così direttamente e apertamente le proprie preferenze estetiche alla cosa pubblica mi pareva sbagliato. Soprattutto, capivo che la famosa naturale bisessualità pagana e mediterranea, quella dei soldati senza soldi in libera uscita, oltre a non esistere più, dipendeva sempre e comunque da un rapporto sociale asimmetrico in cui io, fossi anche nato vent’anni prima, avrei dovuto fare la parte del povero sedotto e abbandonato (e nemmeno quello, insignificante com’ero), un rapporto che Pasolini stesso riconosce quando accenna al romanzo postumo di E.M. Forster Maurice, fortemente autobiografico e apertamente gay, paragonandolo all’Ernesto di Umberto Saba: ‘Nel primo caso, Maurice, un uomo dell’alta borghesia inglese, vive, nell’amore del “corpo” di Alec, che è un servo, un’esperienza eccezionale: la “conoscenza” dell’altra classe sociale. E così, rovesciando i rapporti, l’operaio nello studentello triestino. La coscienza di classe non basta, se non è integrata dalla “conoscenza” di classe (come dicevo in una mia vecchia poesia).’

Insomma, no, grazie. Mi chiamo fuori. Capisco l’esigenza di, come dire, rimanere al mio posto e essere puro, retto e disponibile, ma no, non faceva per me. Se marcio dovevo essere, marcio sarei stato – nei limiti, chiaro.

Del resto, la lobby già all’epoca era scettica sulle teorie di Pasolini benché rispettasse il martire. Tanto per dare un’idea ecco il parere di Mario Mieli, un teorico molto radicale, che per buona misura ci mette anche anche Luchino Visconti: ‘E in memoria di Pasolini, regista omosessuale, noi diciamo: basta con l’omosessualità ammessa ma colpevolizzata tra ‘ragazzi di vita’ e roghi a Canterbury, tra un Edipo, un porcile e un teorema e Salò; tra una Morte a Venezia e la morte in fondo al lago di Ludwig Visconti’. Del resto, anche Aldo Busi, cioè uno degli scrittori italiani che più ammiro, era tutt’altro che entusiasta di PPP: ‘puzza troppo di sangue e sperma e peccato e mea culpa e acqua benedetta (ottima per i bidet della mistica che cade) per i miei gusti’.

Poi arrivò l’AIDS. Ci volle un po’ per rendersi conto della minaccia che rappresentava per la lobby ma l’effetto, quando accadde, fu devastante su tutti i livelli. Fu una ‘precoce gelata’, an early frost, come si intitolò il primo film americano sul tema. Ora che pare, in qualche modo, sotto controllo, è facile dimenticare che all’epoca significava morte sicura. Pure io, che non conoscevo poi così tanta gente, mi ritrovai presto a conoscere più morti di quanto sia normale da giovane (sommati ai morti di overdose da eroina, ovvio, che era strettamente collegata e rese i miei anni Ottanta spaventosamente distopici), compreso quello che aveva fatto la battuta su Pasolini col braccino corto. L’idea che si trattasse di una ‘soluzione finale del problema gay’ era diffusa. La sensazione che miliardi di persone provarono nei primi mesi del 2020 fu la stessa di milioni di persone nei primi anni Ottanta, con in più la certezza che, se anche non era un complotto del potere in stile nazista (c’era chi lo pensava; oggi lo penserebbero quasi tutti gli interessati, da quando il complottismo è diventato l’ideologia dominante del nostro tempo), certo quello stesso potere non dava l’idea di preoccuparsi più di tanto per la morte di migliaia di indesiderabili. C’era chi, autorevolmente, suggeriva di chiudere tutti i gay in ‘aree protette’ per evitare che l’HIV si diffondesse fra le persone ‘normali’ alle quali, evidentemente, non era destinato. Giusto nel caso foste troppo giovani per averlo vissuto o l’abbiate rimosso.

Nel mio caso, dopo un periodo di comprensibile ansia e di analisi fatte di nascosto dai miei, rinchiusi nell’armadio le alucce multicolori. Seguirono decenni di recitazione minimalista e dissimulazione onesta, sui quali seguirò l’esempio di Torquato Accetto, per cui ‘se in questa materia avessi potuto metter nelle carte i semplici cenni, volentieri per mezzo di quelli mi averei fatto intendere, per far di meno anche di poche parole’. Solo da pochi anni ho preso a muovermi con un po’ più di libertà ma non troppa: ormai l’abitudine mi ha formato irrimediabilmente e le alucce sono grigie e infeltrite. Pazienza.

Comunque, la lobby sopravvisse. La soluzione finale fu sospesa e l’AIDS, come il Covid in questi giorni, non fu più così vicino al centro delle nostre vite. Quel che poteva distruggere la lobby finì per rafforzarla, come spesso capita con le guerre e le catastrofi naturali, e la diede un’identità diversa da quella di prima, ai suoi propri occhi ancor prima di quelli del mondo. Si dovettero fare delle scelte: oltre a quelle preservativo sì o no (vi fu chi vi si oppose con forza, costasse quel che costasse: se ne volete sapere di più leggetevi il vivace romanzo di Tristan Garcia La parte migliore degli uomini) la scelta più importante fu quella che andava nella direzione dell’odiata coppietta etero consumista tanto esecrata da Pasolini: il matrimonio gay, l’assorbimento e la normalizzazione di una sessualità un tempo anarchica e considerata deviante all’interno di un universo di riferimento in larga misura conservatore, e se i conservatori fossero davvero conservatori e non fascisti apprezzerebbero la cosa. Molti gay anziani che ricordavano il mondo di ieri, gente tipo Arbasino o Paolo Poli, erano tutt’altro che entusiasti dell’idea ma a quel punto la promiscuità come scelta di vita s’era rivelata troppo pericolosa. La ‘naturale’ bisessualità pagana scomparve completamente dal menù, almeno da quello scritto.

Beh, non so voi ma io sto già meglio. Come terapia, questo articolo sta funzionando. La bile nera sta tornando a livelli accettabili. Mi scuso per la cosa delle alucce infeltrite che, lo ammetto, è un po’ camp ma, sapete com’è, it comes with the territory. Visto che c’è ancora parecchio da dire, soprattutto su quel che Pasolini vuol dire oggi, sul suo mito e su quello che nonostante tutto ne fa un autentico poeta ‘prima di tutto’, ne parleremo nella seconda parte, se volete.

[CONTINUA…]


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