Funziona solo se fa male

di Angela Angelastro
Copertina di Cirkus Vogler

Dee do de de, Dee do de de. Striscia bianca, asfalto. Striscia bianca, asfalto. Piede destro dopo piede sinistro.

«Voltati, te lo insegno io. Una boccata e non ingoiare».

Lei si riempì le guance.

«Assapora, non ingoiare».

Sometimes I feel I’m gonna break down. E sputò piano.

«Non distrarti, sorridi».

Lei ricominciò. I get so lonely.

«Occhi aperti», a lui piaceva credere che lei avesse voglia di guardare. Le spinse la fronte indietro, ficcando tra i capelli le dita sporche di vernice. Le strizzò l’occhio e inarcò la schiena. E lo fece ancora, a ogni boccata. Il corpo della ragazza restò lì, talmente immobile da sembrare intero, mentre la mente se ne andava a cercare aria

Sputati gli ultimi morsi di giornata giù per lo scarico della doccia, comincia il rituale. La porta chiusa, il vinile graffiato, la sedia trascinata al centro della stanza, davanti allo specchio che sta in piedi da solo. Ti arrampichi, non ti siedi. Fingi di avere gli anni che bastano per non toccare terra, con quei piedi talmente piccoli che pare non appartengano più al tuo corpo, nascondi mani e fogli tra le cosce e aspetti che arrivino le storie.

Ti inventi un dolore buono da raccontare, una ferita anestetizzata, che solo per sbaglio ti assomiglia. E poi ti trattieni. Sigilli lo sguardo, rarefatta, come questo riflesso dentro la penombra, e seducente, come solo il terrore e l’innocenza sanno essere. Dentro lo specchio osservi la bambola di madreperla prendere forma, fiera come chi sa andare in pezzi e ingoiarne il rumore. Chiudi gli occhi e credi che non guardare basti per smettere di esistere. Ci credi come ci credono i bambini: ficcano la testa sotto un cuscino e immaginano che il mondo scompaia; infine, si spaventano e si rompono in decine di singhiozzi. Ai bambini fortunati, però, accade che qualcuno di tanto in tanto si prenda la briga di guardare, che gli vada incontro, che raccolga il rumore dei singhiozzi e tutta quella paura di morire.

È una fortuna toccata anche a te, ma non te lo puoi ricordare: è successo prima che lei si ammalasse. Prima che i crampi nella pancia le piegassero le ginocchia a un passo dalla porta del bagno; e che tuo fratello franasse sul pavimento chiaro, con le sembianze di un gigantesco scivoloso grumo di sangue. Prima che le raschiassero le viscere, per tirare via ogni traccia di quella tardiva e incosciente gravidanza; e che una briciola di quella vita, morta, la infettasse tanto da farle gialla la pelle e procurarle una febbre così profonda da bucarle l’ultimo intestino. Prima che perdesse la voglia di rispondere all’odore buono della tua pelle di latte. Ti assicuro che è successo – che ti corresse incontro e ti prendesse, afferrandoti rapida e salda sotto le ascelle, e ti custodisse stretta al suo corpo, tra il collo e il seno, liberandoti con una risata.

Non te lo sai ricordare, perché è accaduto prima che mamma smettesse di aver voglia di guardarti. Tu e babbo e tutti gli altri eravate il mondo, ma quella mattina, con Prima Pagina che bisbigliava nella camera da letto, il mondo le morì avvelenato nella pancia e poi franò fuori, bagnandole le cosce ormai inutilmente serrate. Tu eri a scuola e arrivò l’ambulanza, che se la portò via a sirena spenta, con tuo fratello dentro un sacco nero, immobile. I medici glielo spiegarono che era troppo presto: quello nel sacco era solo un unico grosso scivoloso grumo di sangue, non era colpa sua, non avrebbe dovuto pensarci più. Invece, mamma sapeva che mancava davvero poco a quel grumo di sangue per spalancare un paio d’occhi grandi e scuri come i tuoi. Sapeva che quel sangue aveva già un nome, lo aveva scelto lei. E non lo pronunciò mai.

Dopo molte settimane, babbo la riportò a casa, in un lunedì mattina di un azzurro talmente brillante da bruciarti gli occhi. Ti chiese di non correre dentro casa, di parlare piano e di abbracciarla senza stringerla. Ti insegnò a contare venti di quelle gocce opache ogni mattina, prima di andare a scuola, e a guardare che le bevesse tutte. Mamma imparò a passare il tempo seduta in cucina, accanto alla finestra, in silenzio. Diventò qualcuno che non le somigliava: qualche volta cucinava, si sedeva a tavola e mangiava appena, spesso faceva fatica a respirare. Smise di toccare il tuo corpo, che cresceva ma ai suoi occhi pareva evaporare. Non ti baciò più sulla fronte, quando dicevi di avere la febbre, e non venne più a cercarti, di notte, quando singhiozzavi e mordevi le coperte. Ti sembrò di sparire.

Successe di notte che cercassi di scoprire se questo corpo fosse vivo, se ci fosse ancora qualcosa da toccare, anche solo da rompere. Senza troppa convinzione, cominciasti a scarabocchiare qualche minuscolo taglio, a smagliare questa tua guaina d’avorio e a fingere che quel che scorreva sottile fosse inchiostro. Lo spavento fece rumore, ma non venne nessuno, e una ragnatela leggera di sangue si disegnò tra le cosce e tenne insieme i fogli.

Oggi credi d’esser più viva su quella carta che dentro la tua vita e non ti accorgi che sei diversa da lei, tu non sei morta. Ti annodi attorno a quel quaderno, già strappato cento volte, e ti inventi slegata dalla fame che ti prende quando la vita degli altri ti sfiora e non s’avvicina. Ti ripeti che quella degli altri è solo una vita raccontata meglio. E che a te basterebbe che qualcuno ti insegnasse a raccontare, poi sapresti procurarti un corpo intatto, capace di restare.

Mi guardi con quegli gli occhi liquidi, adesso: vuoi che mi venga voglia di toccarti? Mi spiace ma funziona come con tua madre, solo se a muoverti sei tu ci possiamo avvicinare. Forza, sciogli le gambe e avvicinati, un piede davanti all’altro: non manca molto, saranno in tutto sei passi. Dentro questo specchio non esiste nulla che non ti assomigli, guardami. Solleva la sedia, cerca i tuoi occhi e colpisci, ora. Calpesta. Frantuma. Dammi retta, funziona solo se ti fai male. E adesso inginocchiati e osserva in quanti modi siamo capaci di andare in pezzi. Non è stupefacente quanto diventi affilata l’anima quando la mandi in frantumi? Decine di schegge minuscole, tutte diverse e tutte ugualmente capaci di contenerci intere entrambe, vive. Scegline una, una a caso. Ora taglia, cerca appena oltre il rumore della pelle che si rompe, poco sopra il polso, non più scarabocchi ma un segno breve e profondo. E il corpo si spalanca. Lascia andare il fiato, tossisci, sputa. Funziona solo se fa male. Lentamente stai scoprendo come disseppellire una bambina rotta, ingoiata col dolore: rimetterla al mondo, partorirla dalla bocca, insieme alle urla, alle parole che piangi a caso. A tratti ti pare di impazzire, lo so, non smetti di pensare che sarebbe stato meglio non sentire niente che lasciarsi attraversare da questa tua vita che viene al mondo franando, tenuta insieme da una ragnatela di sangue calpestata sopra un foglio strappato. Eppure, eccoti, ora sei qui in questa stanza, una bambina tutta intera dentro ognuna delle schegge di quella bambola di madreperla frantumata nello specchio.

altrove, in un posto qualunque nel quale vomitare.

So lonely, living on my own my own. Striscia bianca, asfalto. Striscia bianca, asfalto. Piede sinistro dopo piede destro.

«Voltati, non scappare».

Got to be some good times ahead. Dal Gianicolo il cannone sparò, «Mamma sta per tornare».

Dee do de de, Dee do de de.


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3 Comments

  1. Stupendo, commovente, diretto al cuore, autentico. Grazie per questa perla condivisa

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