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Giordania delle sabbie. Della pietra. Degli uomini
By Malgrado le Mosche Posted in Inve(n)t(t)ive, Miscellanea on 01/08/2023 0 Comments 11 min read
Quel che esce dalla ferita - divagazioni attorno a ‘Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale’ di Simone Sauza Previous Caffè lungo in vetro Next

di Silvia Penso
Copertina di Andrea Calisi

Deserto. La prima immagine che ho della Giordania è quella di un bambino. È un segno d’interpunzione in mezzo al giallo, e cavalca un leone che in realtà è una roccia, sta vicino a una casa bassa, in muratura, ai fratelli impolverati in scala di età e alle capre che si parlano con i suoni gutturali dell’infanzia. L’immondizia sparsa sulla sabbia macera sotto la punizione del sole, la plastica delle cose in disuso brucia affumicando le gole. La casa del bambino una volta si chiamava Mezzaluna Fertile, vi ondeggiavano le spighe, e nei primi villaggi, gli uomini e le donne di ottomila anni fa, piantavano semi, coltivavano cereali, disegnavano se stessi sulla roccia, pregavano davanti alle statue della fertilità. Oggi invece la chiamiamo Giordania e ha confini diversi, ben delineati dalla storia e dagli Stati invadenti, contornata da guerre e popoli in lotta. I vicini transitano nelle proprie vite sull’altra sponda del mare e la Giordania li guarda dalle alture del monte Nebu da cui un tempo si sarebbe potuta osservare la grandiosità del Mar Rosso prima che si ritirasse dal Wadi Araba formando due laghi separati, il Mar Morto e il Mare di Galilea, nel 100000 A.C. Da lì Mosè vide la Terra Promessa prima di abbandonare la vita e il suo successore Giosuè guidò in vece di lui gli israeliti sulla sponda ovest del fiume; lì presero Canaan e fondarono la città-stato di Israele nel 1436 A.C. 

Attraverso i millenni si snoda in Giordania una storia che riguarda non solo le genti che vi abitano, ma la storia dell’umanità tutta che riassume se stessa. Qui sono custoditi un numero altissimo di insediamenti preistorici appartenenti al Neolitico preceramico e lungo i suoi territori sono state trovate frecce e asce di selce con cui nel 250000 A.C. gli antenati cacciavano gli elefanti nella Valle del Giordano. Guardare questi oggetti preziosi, quasi ancestrali, incredibilmente arrivati fino a noi, attraverso le teche della nostra modernità mi commuove, mi fa piccola e densa, sottrazione del tempo e strato attuale derivato da tutti quegli altri strati dell’umana storia.

L’enormità misteriosa e magica dei Dolmen che costellano i dintorni semidesertici di Madaba realizzati nel 4000 A.C. ci ricordano quanto non sappiamo, quanto ignoriamo, ma significano un bisogno tutto antropico di innalzare e credere, spalancare le porte sull’aldilà, considerare se stessi non esseri soli, ma in caso unici, né il mondo un luogo senza senso né scopo, parte di un piano comprendente la sfera dei vivi con le sue leggi naturali, la sfera dei morti con altre leggi ancora. 

Le rovine e i ritrovamenti delle fornaci usate tra il 4000 e il 1200 A.C., le tonnellate di scorie di rame nero sparse nell’aridità suprema del paesaggio, nell’odierna Riserva della Biosfera di Dana, bisbigliano storie, nascite di civiltà raffinate: le città di Amman, Pella, Deir Alla, Tell Irbid, storie di utensili cesellati e ornamenti pensati per abbellire le grazie del corpo. È l’età dei commerci. Indaco, fosforo, zucchero, arrivano in Europa attraverso le distese della terra, del mare. Poi è la volta del bronzo, unione di rame e di stagno e di altre sapienze e di altre narrazioni ancora, quelle legate all’invenzione delle armi, alle guerre avviate a difesa dei domini innalzati, dei denari, dell’avidità di chi ammassa, possiede, e di chi concupisce, depreda. La ricchezza richiede mura, esige difesa per le cose. Arrivano gli invasori, gli amoriti tra i primi, che distruggono le città delle pianure, radono probabilmente al suolo Sodoma, Gomorra. Non Dio, no, ma gli uomini sugli altri uomini. Storia antica, storia perenne. Il mondo arabo è in guerra, le città-stato della Siria distrutte, gli egizi confinati, i popoli del mare, tra cui i filistei, estorcono il potere, si sostituiscono ai vecchi padroni. Sono loro per primi a occupare la sponda occidentale del Giordano dandole il nome di Palestina.

Nel 1200 A.C. la Giordania è composta di tre regni: Edom, Moab, Ammon. Israele ha già conquistato la Siria e la Palestina e in poco tempo, sotto il regno di Davide uccide tutta la popolazione maschile di Edom e costringe schiavi gli abitanti di Moab. Dopo il regno di Salomone i territori vengono divisi in Israele e Giudea. Ma la guerra è sempre in agguato, scorrono le ruote dei carri, corrono i soldati con gli scudi sbeccati di morte, i calzari consumati dalle sabbie, le labbra rose dall’arsura, si mescola il sangue di invasi e invasori, assiri, babilonesi, persiani.

Nei luoghi dove oggi turisti panciuti in costumi fiorati si godono la balneazione, a Eilat e Aqaba, salpavano navi stipate di merci preziose giunte fino al Mar Rosso sulle carovane, le quali attraversavano i deserti dall’Arabia all’Eufrate. Trasportavano l’oro dell’Africa, l’incenso d’Arabia e seminavano intanto un intreccio di vite, una storia di transiti e incontri che hanno lasciato radicati retaggi artistici e culturali.

Dal 300 A.C.  al 300 D.C. circa, tre popoli si stabiliscono in Giordania: i greci di Alessandro Magno, la tribù nomade dei nabatei, i romani.

I nabatei erano eccellenti commercianti e intermediari, profondi conoscitori del deserto avevano imparato a sfruttare le pareti di roccia incanalando in circuiti le acque piovane e convogliandole dentro enormi cisterne scavate nella pietra. E avevano creato avamposti nel deserto, caravanserragli dove i mercanti potevano scambiare gli animali stanchi, riposarsi, mangiare in ampie sale scanalate nella roccia multicolore, rifornirsi dell’acqua. 

I nabatei detenevano il monopolio delle spezie che dalla Somalia, dall’Etiopia e dall’India affrontavano le maree irrequiete per approdare in Arabia. Non costruirono un impero ma ebbero grande influenza dalla Siria fino a Roma. La loro città è Petra, gioiello nascosto ai romani, impenetrabile all’occhio, germogliata alla fine di un canyon desertico. Petra, contornata di sabbie e rocce dai colori rosati, con le sue costruzioni ancor oggi intatte, le incredibili maestose colonne innestate nella pietra, imitazione di quelle greche e romane, le abitazioni-grotta, le tombe solenni che si erpicano attraverso piccole alture. Al di là della parte turistica che le guide accompagnano a visitare esistono ancora abitazioni ancorate ai costoni, solitarie, abbarbicate in salita. Sulla cima più alta resta intatto il luogo dove in tempi aviti avvenivano i sacrifici, è un luogo permeato di una strana malia silenziosa interrotta solo dal fischiare del vento, una piattaforma aerea contornata da montagne che si perdono di cima in cima in un orizzonte infinito di spazi geometrici, perpendicolari. Quello che la gente del posto chiama ‘il sacrificio’ è un circuito di pietra incavato nel pavimento spianato dove il sangue delle vittime, uomini e animali, scorreva roteando, seguendo vortici simili a piste di biglie per poi consumarsi, infine, sulla pietra, sotto i gesti ritmati e ossessivi e le parole ipnotiche sussurrate al Khamsin, lo scirocco, versi dispersi tra le altezze proterve. Dabbasso le case di pietra scavate nelle rupi salgono man mano accompagnando i sentieri strettissimi, incuneandosi in pareti che il vento e il lavorio degli elementi hanno intagliato per gli uomini. Queste case magnificenti, più simili a templi che ad abitazioni, incastrate nei manti rupestri a diverse altezze, nei colori cremisi dei tramonti orientali, altissime, immense, sormontate da sculture, sono oggi ancora abitate. Qui c’è un altro bambino. È arrabbiato perché non riesce a mungere una capra riottosa e s’infiamma di pianto. Anche la capra è non poco indignata, perciò dalla casa-tempio-caverna esce una vecchia increspata di rughe, come le sabbie ondulate dal vento, e si siede su una roccia in mezzo al nulla silente, dove solo il belare e il pianto del bimbo riecheggiano. Tiene la capra per le corna e spiega in un lessico a noi sconosciuto e aspirato cosa il bambino deve fare facendolo, munge la capra. Guardano le altre capre la scena e anche noi e poi scompariamo, dietro la pietra, dietro la storia. 

Anche i romani approfittarono dei commerci e fondarono alcuni avamposti e città come la meravigliosa Jerash, dagli immensi colonnati, le strade lastricate, il teatro, il mercato. La Roma ambulante e puttana che si spostava mobile attraverso i confini del mondo.

Giordania culla del cristianesimo, conquista dell’islam sotto la dinastia sunnita degli Omayyadi, terra di scontro tra gli immensi eserciti in lotta al tempo delle crociate, Giordania dimenticata dagli Ottomani, ambita meta di affascinati viaggiatori, oggetto delle manovre politiche dell’occidente, Giordania della rivolta araba, raccontata da Lawrence d’Arabia nei Sette pilastri della saggezza, che infiammò il deserto e portò infine l’emiro Faisal e il movimento nazionalista arabo a comandare su Arabia Saudita, Giordania e parte della Siria. Con gli inglesi che appoggiano Faisal e fanno di quei luoghi la loro sfera d’influenza ha inizio il perenne, insanabile conflitto tra arabi e israeliani. È il 1917, e con la dichiarazione di Balfour, documento ufficiale della politica del governo britannico in merito alla spartizione dell’Impero ottomano all’indomani della prima guerra mondiale, si favorisce la creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. 

Oggi in Giordania vivono oltre due milioni di persone registrate come profughi palestinesi e circa la metà della popolazione totale viene dalla Palestina. Ci sono profughi fuggiti dalla Cisgiordania durante i conflitti del 1948 e del 1967 e dal Kuwait dopo la guerra del Golfo. A questi si devono aggiungere i nuovi profughi arrivati dalla Siria in seguito alla guerra civile, e che vivono abbarbicati in misere tendopoli o in strette case in muratura accentrate, accasellate l’una all’altra, lamiere bersagliate dal sole negli immensi spazi desertici. Sono i campi di Za’atari, al confine siriano, e di Azraq a est di Amman.

Molti palestinesi hanno acquisito la cittadinanza giordana, altri sognano di tornare un giorno in una Palestina indipendente ed è forse questa la ragione per cui ancora circa 370.000 profughi restano nei campi amministrativi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA), la quale fornisce assistenza sanitaria, istruzione e soccorso. I campi più grandi si trovano a nord della Giordania e le tende sono state sostituite da veri e propri sobborghi. Questi campi, come altri sparsi nel mondo e invisibili, ricordano le guerre e gli scontri e le cacciate, i genocidi subiti nel corso della storia da una parte e dall’altra, in un odioso alternarsi di vinti e vincitori, di persecutori e perseguiti che si scambiano ruoli.

Oggi in Israele il governo palesa ogni giorno di più i propri fini coercitivi nei confronti della situazione palestinese e di un popolo che forse si vuole far scomparire dalle pieghe della storia. E quel sogno, di integrazione e di pace, sembra sempre più lontano, impossibile da raggiungere, non voluto.

In questo disumano disastro la Giordania resta apparentemente un’oasi di tranquillità e accoglienza. Un luogo contornato da guerre e disordini che cerca di destreggiarsi politicamente mantenendo la sua indipendenza dalle questioni del vicinato. Un paese che tiene alla propria modernità e rispetto ad altri del Medio Oriente permette libertà maggiori, sebbene ancora troppo poche e sebbene sotto la patina superficiale permangano vecchi retaggi e precetti stringenti, soprattutto legati alle differenze sociali e di genere. Un paese a due strati, uno sotterraneo non visto, dove forse stanno le donne che non ho mai incontrato, uno sopra, sulla strada, che espone orgoglioso il progresso come una mercanzia, ma che vive in una complessità delicata, accerchiato da devastanti insolute criticità.

Questa terra emana un’energia particolarissima e arcaica. Permane il suo fascino, non si adombra la sua bellezza, corteggiano i sensi gli odori del cibo per le strade, di hummus, falafel, i colori e i profumi ammalianti delle spezie, i mosaici antichissimi, il suono delle campane delle chiese, il canto monocorde del muezzin perso nel silenzio dell’alba a convocare i fedeli alla preghiera. Per me rimarrà un paese legato agli occhi e ai venti che muovono sabbie, tra le dune del Wadi Rum o nelle tende beduine del deserto, dove ancora oggi i discendenti degli antichi nomadi offrono il tè a coloro che transitano sulle vecchie strade dei re e sulle vie delle carovane.


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Andrea Calisi Giordania Israele Palestina Silvia Penso Viaggi


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