di Sara Spanò
Copertina di Rocco Carnevale
Venticinque minuti. Rosso magenta.
Cinque minuti. Verde menta.
Venticinque minuti. Rosso magenta.
Cinque minuti. Verde menta.
Ancora un’apnea rosso magenta, una breve riemersione verde menta, ancora un’apnea rosso magenta e poi, finalmente, respirare per quindici minuti verde menta.
Ancora. Resisti.
Venticinque minuti. Giù nel rosso.
Cinque minuti. Su nel verde.
Venticinque minuti. Giù nel rosso.
Su nel verde. Quindici minuti. Un’infinità. Ricordati di respirare a fondo, perché riavrai questo privilegio soltanto tra quattro apnee. In cinque minuti non è possibile fare molto.
Lui di respirare come te non ha bisogno; respira – ammesso che respiri – attraverso quella pelle spessa e opaca come la fodera di un divano. E proprio dal tuo divano lui ti osserva, con i suoi occhietti, compassionevole, giudicante. Sentenzia in silenzio su di te, sulle barricate di libri dietro cui speri di proteggerti, sulle tue lacrime che si mescolano al rosso magenta mentre rischi di annegarci.
Cerchi di non pensarci. Ora lui è verde menta, puoi respirare per un po’.
Ti guarda come se annuisse, il tardigrado. A volte mantiene le dimensioni precedenti, a volte si rimpicciolisce, ma stavolta è cresciuto di colpo: centoquarantasette centimetri. L’hai misurato in un momento in cui non cambiava colore, in cui non spacchettava il tuo tempo in tre unità di misura fisse, in cui i quattro segmenti del suo corpo, la sua testa tondeggiante e le sue otto zampe si confondevano con le pieghe della fodera del divano blu oltremare. Ha capacità mimetiche straordinarie, lui, tra i suoi mille talenti; non lo vedi sempre ma sai che c’è, che ti sorveglia. È un orsetto indifferente a tutto, autosufficiente. Mangiare, dormire: può farne a meno. Radiazioni, ghiaccio, lava: non un graffio. La rottura del settimo sigillo, gli smisurati trenta minuti di silenzio di Dio: lui galleggerebbe serafico nella sua flemma.
I tuoi preziosi quindici minuti verde menta invece stanno colando via veloci, e tu non sai cosa fare, a parte respirare, quando te ne ricordi. Leggere? Impossibile. Quando è rosso è impossibile, quando è verde hai paura. Hai paura che la tua mente non decifri più le parole, che non le trattenga nemmeno: formiche che marciano a falangi sulle pagine allontanandosi veloci da te. Scrivere? Il tuo taccuino verde menta langue da mesi e tu sei angosciata all’idea che le sue pagine si siano ormai incollate. Ascoltare musica? Non si può. La musica per te ora è un’accozzaglia di suoni. Te lo ricordi quando quel concerto di musica sacra al Duomo si è scomposto in note stridenti, nere; terrorizzata dall’idea che un angelo sprangasse il portale sei tornata di corsa a casa, ai tuoi compiti. Alla tua unica realtà, all’unica realtà che definisca il tuo valore.
Il tardigrado ti sta guardando ancora. Non parla ma sa cosa stai pensando. Non riuscirai a fare altro fino alla scadenza, non riuscirai a liberarti dal peso opprimente che senti fin dal risveglio – anche perché ti ritrovi il tardigrado seduto sul petto –, dalle vertigini che ti assalgono quando provi ad allontanarti. Ogni tanto ci provi ma non funziona; ora la tua unica legge è l’alternanza bicolore del tuo tempo. Il resto è irrilevante. Il tardigrado lo sa. Rosso magenta. È ora. Trattieni il fiato e giù. Altri venticinque minuti. Ti sei impegnata a inviarne dieci e dieci ne invierai. Per questa scadenza può bastare anche se potresti fare cento volte tanto. Lo sai tu, lo sa il tardigrado. Sei tu la peggior nemica di te stessa. L’autosabotaggio è la tua inclinazione più spiccata. Non sei in grado di attraversare il rosso magenta fino in fondo, di calarti in verticale in quello che fai, col coraggio di un palombaro, così come dovrebbe essere. E non piangere. Non puoi piangere per venticinque minuti di fila.
No, forse per venticinque minuti di fila no, ma tutti i giorni sì.
Le succedeva sempre, nella Città della Terra di Dove Finisce la Terra, a Nord, lontana da tutto, al primo trasloco.
Tutto era estraneo; lei per prima.
Aveva un ragno addosso, quel giorno, ma non se ne era accorta. Le streghe di Macbeth invece sì, ma chi era più ripugnante, lei o il ragno? Quella fuori posto era lei. Era bastato uno sguardo per vaticinarle non regalità ma fallimento, di quelli irrimediabili. Una delle streghe l’aveva chiamata Diane Selwyn, ma lei non sapeva ancora chi fosse; credeva fosse uno scambio di persona. Basta, adesso: verde esaurito, è scattato il rosso. Ci penserai dopo, se proprio hai voglia di sprecare il tuo prezioso tempo verde menta a pensare al passato. Dopo.
Quel giorno, si era rifugiata da Loudons, l’unico posto dove si sentiva al sicuro: in casa succedevano cose strane – fruscii, rumori, spine staccate non si sa da chi.
In caffetteria, sceglieva il solito tavolino, quello col piccolo cactus, accanto alla presa elettrica (anche se spesso dimenticava a casa l’adattatore) e accendeva il computer, per fare cosa non si sa, perché pensava solo alle streghe che l’avrebbero chiamata sempre Diane Selwyn – intanto aveva capito chi fosse, ed era proprio lei, quella che aveva sbagliato tutto.
L’umiliazione era il pulsare delle tempie, dei seni frontali; non si attenuava.
Poi aveva scorto qualcosa galleggiare e muoversi nella schiuma del cappuccino al latte d’avena: ecco, mi hanno messo uno scarafaggio nella tazza perché non sono una di loro, è così è così è così.
Dalla schiuma erano spuntate una testolina tonda, delle zampette vivaci: il tardigrado nuotava nel suo cappuccino, era buffo e dolce. Se ti concentri su qualcosa non sarai mai sola, mai. Si era asciugata le lacrime e aveva ripreso il filo dei suoi doveri, mentre il tardigrado passeggiava allegro tra gli scone, la marmellata di mirtilli e i panetti di burro.
È già rosso magenta, ma hai il tempo di gettare uno sguardo al tardigrado; un velo pallido di tenerezza, di riconoscenza. A volte abbiamo delle zavorre che occorre abbandonare, per guardare avanti con fiducia, per essere efficienti, per essere produttivi. Tu portavi quel vecchio monaco sulle spalle; temevi che a scaricarlo a terra saresti diventata trasparente. No: soltanto costruire ti definisce. E tu hai costruito tanto. Devi continuare a farlo. Devi. Stringi i denti e vai avanti. È necessario.
Ora respira. Te lo sei meritato.
Fai vagare lo sguardo, pensa ad altro, almeno finché sei nella tua piccola oasi.
Riprendi coscienza della stanza, delle finestre, del divano; non importa se non lo guardi, il tardigrado è sempre là.
Un libro con le pagine divise da una cartolina raffigurante Die Bäume di Ursula Schultze-Bluhm occhieggia da uno dei ripiani della libreria alla tua destra. Soffi via la polvere e lo apri. Il rosso magenta del cielo ti spaventa, ma ora sei nel verde, dovresti farcela:
L’occhio dell’accidioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che arrivino visite: la porta cigola e quello balza fuori, ode una voce e si sporge dalla finestra e non se ne va da lì finché, sedutosi, non si intorpidisce. Quando legge, l’accidioso sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia e, distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po’, ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli, calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, piegato il libro, lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo, e infatti, di lìa poco, la fame gli risveglia l’anima con le sue preoccupazioni.
Che intuizione, il vecchio Evagrio; sicuramente ci era passato lui stesso, inseguendo la santità nel deserto. Era stato coinvolgente studiare la sua vita, le sue battaglie, ma ora sai perché ti ci eri immersa: il tuo terrore di essere risucchiata in un gorgo senza fine, il bisogno di uno specchio abbastanza spietato per poterti guardare dentro, per poter individuare il punto esatto dove scavare. Ora sei sulla strada giusta: il sonno e la fame quasi si annullano, mentre navighi tra il rosso e il verde.
Disponi per te stesso una giusta misura in ogni attività e non desistere prima di averla conclusa, e prega assennatamente e con forza e lo spirito dell’accidia fuggirà da te.
Non desistere prima di averla conclusa. Macché pregare. Ci pensa il tardigrado. Lui lo sa quali sono i demoni là fuori; soprattutto sa quali sono quelli dentro di te. Lo sa cosa rischi a perdere la rotta. Lo sa in che buio puoi scivolare. Lui è la tua sola salvezza. Tempo scaduto. Dài dài dài. Tempo per un’altra immersione. Sei avanti. Ne mancano tre. La parte finale è sempre la più difficile ma è necessario andare fino in fondo. Formulario uno, transizione digitale: 20%. Sei un po’ indietro. Impegnati. Formulario due, inclusione sociale: 40%. Un po’ meglio, ma puoi fare di più. Formulario tre, transizione ecologica, verde: 80%. Come stupirsi, è chiaro che tendi a quel colore. Anche i tuoi formulari elettronici sono verdi e rossi: rosse le parti incomplete; verdi le parti complete. È molto semplice: più scriverai più verde vedrai.
La luce trafiggeva il giardino della Lenbachhaus, nella Città della Bellezza che Abbaglia, con un taglio obliquo, dorato.
Immersa nello splendore, lei vedeva tutto sfocato, insignificante; altre streghe, là nella Città che Dicono Eterna, erano cornacchie appollaiate su un albero, rimaste a gracchiare in una fiaba inascoltata.
Guardava distratta i messaggi, godendosi il sole che invece nella Città della Terra di Dove Finisce la Terra a maggio era così freddo e fugace, e si diceva no, nulla è urgente; se rispondo tra dieci minuti, un’ora, due, che cambia, se le streghe mi rispondono dopo un giorno?
Allora il tardigrado viaggiava appeso alla sua borsetta: ah ah ah guck mal, aveva sentito lei nell’ascensore di Hugendubel – dove uno degli acquisti era stato la cartolina con Die Bäume di Ursula Schultze-Bluhm. La sconosciuta aveva dato un colpetto al tardigrado per farlo oscillare, convinta che fosse uno dei ciondoli a forma di scimmietta delle borse Kipling.
Quant’era piccolo, lui.
Lei era felice, sì.
Altro che adesso, che non reggi più un po’ di stress. Del resto cosa saresti senza quello che fai? Probabilmente una Diane Selwyn priva di sogni in cui cercare un barlume di riscatto. Poco tempo fa sei stata tu stessa a sognarti bionda e fallita. Ti dicevi no non sono io non sono io quella, volevi svegliarti, ma più ci provavi più l’incubo ti tirava giù. Ti sei svegliata. Il tardigrado era seduto sul tuo petto; il senso di soffocamento e il dolore alle costole ti hanno ricordato la scala delle tue priorità. Ti hanno riportata in vita.Ma tu questo non sai riconoscerlo. Ingrata. E sia, cullati ancora per qualche minuto nei tuoi inutili rimpianti. La verità però è che dovresti esercitarti a non pensare più al passato.Ora stai giù, nel rosso. Giù. È da tanto che non guardi l’orologio ma a cosa ti serve? Adesso a te basta seguire il ritmo venticinque-cinque-venticinque-cinque-venticinque-cinque-venticinque-quindici. Non hai nemmeno bisogno di contare, ci pensa il tardigrado applicando il codice rosso/verde. Giorno, notte, questo non sposta di un millimetro l’importanza delle tue incombenze; semmai, ti distrae. Non guardare l’orologio. Non. Guardare. L’orologio. E invece tu che fai? Lo guardi. Ovvio, non riesci nemmeno a seguire i buoni consigli che ricevi.
5:47.
Sarai soddisfatta, adesso. Non permetterti di rallentare.
6:12.
Hai sbirciato l’ora, ma pazienza. È verde, ora. Respira.
Era molto presto anche allora, nella Città del Tempio di Tutto lo Scibile Umano.
Gravitare intorno all’immenso santuario in fondo al ponte sul fiume ghiacciato era nobilitante, ma lei era solo un piccolo satellite.
Il suo passaporto la rendeva accettabile, anzi, una cosiddetta amica d’oltremare – ciao, come stai, arrivederci, grazie, tutti dovevano sciorinare le parole italiane che conoscevano ogni santa volta –, ma il suo visto bastava soltanto per avere una vaga forma di consistenza ontologica.
Quella mattina, aveva scostato la tendina color pistacchio: sotto la sua finestra c’era un pupazzo di neve a forma di tardigrado.
Allora si era battuta per abbattere ogni barriera burocratica, perché di vedere un tardigrado di neve non ne poteva più.
Sii grata per quello che sei e per quello che hai costruito. Qui nella Città Dove i Musicanti Non Sono Mai Arrivati puoi esprimere te stessa. Sei brava, rassegnati. È normale e giusto che ci si aspetti tanto da te. Concentrati, adesso. Devi andare avanti. Ti manca poco. Formulario uno, transizione digitale: 40%. Formulario due, inclusione sociale: 80%. Formulario tre, transizione ecologica, verde: 90%. Il tardigrado ti osserva, approva quello che stai facendo. Non vuoi che smetta, vero?
Il verde. Il verde menta.
Il taccuino lascialo stare. Il tardigrado sa che lo hai comprato verde menta apposta: è lì che ti piace stare. Ma ora no. Cinque minuti sono troppo pochi. Sono pochi anche quindici. Hai perso il conto? Non importa.
Ti volti a guardare il tardigrado.
Com’era prima? Prima di lui?
C’era una stanza interamente color verde menta, nella Città della Fabbrica, dove lei è nata.
La stagnazione si dissolveva, finalmente. Nessuno credeva che lei avrebbe ricominciato daccapo, lavorando nei momenti più impensati, dopo le lezioni private di latino e matematica. Di cosa si occupasse di notte, nessuno lo capiva; tutti capivano, però, perché niente conta più del lavoro.
Torni, radiali, brugole, macchine Minganti passeggiavano per casa; di giorno le vedevano tutti, di notte proseguivano il giro nei sogni di suo padre.
Lei era leggera; il monaco lo aveva rinchiuso nella sua cella.
Nessuno le si sedeva sul petto di notte; niente capogiri, niente asfissia, niente dolore alle costole, niente rischi di annegamento.
Niente rosso magenta.
Soltanto la stanza, soltanto il verde menta.
Rosso magenta, ultimo blocco. Restano solo gli ultimi passi da fare. Formulario uno, transizione digitale: 70%. Formulario due, inclusione sociale: 100%. Formulario tre, transizione ecologica, verde: 100%.
…
Submitted.
Submitted.
Basta così: anche nove possono bastare, no?
Riprendi fiato.
Ti volti verso il divano.
Nessun tardigrado.
Non puoi crederci.
Ti guardi intorno.
Tecnicamente è ancora rosso magenta, eppure lui è sparito.
Concerto di Vivaldi per violino in si minore, l’allegro, per questo momento. La musica si è ricomposta: ci sono dissonanze ma l’effetto è gradevole, è solo un’accordatura diversa.
Riapri il libro: le parole sono parole, non più formiche.
Eppure, è ancora rosso magenta.
Ora puoi persino scrivere sul taccuino verde menta.
Puoi?
Puoi.
Lo apri; puoi.
Ma scriverci?
Puoi.
Puoi?
Davvero?
Respiri a fondo.
7:10
È ora di finire il lavoro. Altri venticinque minuti.
Il verde menta della copertina – già così tenue – è sbiadito, quasi bianco ormai.
Resta soltanto, più acceso che mai, il rosso magenta della tua mano.
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Autrici Cromatismi letteratura Racconti Rocco Carnevale Sara Spanò