di mariel
copertina di Hacca
Cosimo Argentina – classe 1963 – è professore di diritto ed economia, scrittore di romanzi, saggi, testi teatrali e articoli di giornale. Ha esordito nel ‘99 con Il cadetto (Marsilio) e il suo ultimo libro, Dall’inferno (minimum fax 2021), è scritto a quattro mani con Orso Tosco. Da trent’anni vive in Brianza ma il cuore l’ha lasciato al sud, nella città dell’acciaio: Taranto. Dove è pure l’umanità cruda e popolare che predilige. L’editrice Hacca ha appena ripubblicato il suo Vicolo dell’acciaio (Fandango 2010).
«… e invece facime cu mangiane spumette e arrivati che m’avene ’u bagne ca nisciune face nind’ cu l’ mannam’ all’ carbune, a quidd’!» (pag. 56)
… diamo da mangiare e abbuffarsi ai ricchi e potenti quando io vorrei vedere che qualcuno facesse qualcosa per farli fuori
Sono passati dodici anni dalla prima edizione e Vicolo dell’acciaio viene ripubblicato. È cambiato tantissimo rispetto alla questione ILVA, oggi Acciaierie d’Italia: ci sono molti meno operai, c’è stato un processo, il sequestro degli impianti… Che cosa vuole raccontare il libro oggi?
Cosimo Argentina: “Sì, è cambiato tantissimo, ma la problematica è ancora su tutti i quotidiani e adesso c’è campagna elettorale a Taranto: i diversi rappresentanti delle liste si scannano e la questione Ilva è al centro del dibattito.
Quando Hacca mi ha proposto di rieditarlo grazie al suggerimento di Giuseppe Lupo, ho dovuto rileggerlo – contrariamente alle mie abitudini, perché quando termino uno scritto guardo al successivo – e ho notato che aveva retto bene al tempo: ci sono libri che anche se belli si esauriscono, risultano a lunga distanza inattuali, mentre altri che hanno ancora la forza di dire, che restano freschi, e credo che Vicolo faccia parte di questo secondo gruppo”.
Il protagonista del romanzo, Mino, è un ragazzo che cerca un modo per cambiare la sua vita: si iscrive a giurisprudenza senza troppa convinzione, scrive racconti che gli danno la sensazione più reale di farcela, ma poi soccombe al muro di mest’Artur, alla rassegnazione, disincantato contro i movimenti di protesta. Il cinismo di Mino era anche il suo?
CA: “Il libro è calato in un momento storico in cui il problema ambientale non era conosciuto: l’Italsider era solo una cosa bella che aveva portato lavoro con uno stipendio sicuro e la tredicesima; molti avevano lasciato la pesca, i contadini avevano abbandonato la campagna per la fabbrica. Ho avuto contatti con quelle organizzazioni di cui scrivo, qualche volta mi hanno invitato a partecipare: era gente ricca e annoiata, che si dedicava alla causa come a una qualsiasi altra cosa, per riempire la propria vita; poi, come i bambini con i giocattoli, il giorno dopo si dedicava ad altro. La percepivo finta e ci sono andato giù pesante: forse sbagliavo, perché probabilmente era meglio che non far niente. E dall’altro lato è una denuncia che rifarei, perché sono state un problema a Taranto: erano in continuo conflitto tra loro su chi era più bravo, chi ne sapeva di più. Era una moda attraverso cui mettersi in mostra e anche un modo per sfruttare la situazione a fini elettorali. Nascevano e sparivano da un giorno all’altro, non erano credibili. Almeno così apparivano ai miei occhi”.
PeaceLink, invece, è stata l’associazione che ha portato la verità allo scoperto e consapevolezza alle istituzioni e, soprattutto, ai cittadini.
CA: “Sì, l’associazione, il professor Assennato e altre persone, li ho ringraziati in un altro romanzo. È un ambientalismo serio, duro, – sono proprio due parrocchie diverse! – Sono andati fino in fondo, hanno lottato e fatto esposti alla magistratura, sin son beccati denunce. Ma, per paradosso, – e questa è una cosa che l’arte sola credo possa fare – un personaggio come Mino, cresciuto con le regole del Generale, avrebbe potuto criticare anche loro: la letteratura è libera e quando tratteggi un personaggio è lui che deve essere credibile, devi seguire il suo pensiero, che non necessariamente coincide con quello dell’autore. È un punto di vista narrativo.
Ultimamente, mi capita sempre più spesso di leggere libri che sono clamorosamente troppo politicamente corretti, non si osa più; penso a certi autori degli anni ’60 e ’70, a Giuseppe Berto, Umberto Simonetta, di cui si parla pochissimo adesso, scrittori coraggiosi. Mettevano in campo punti di vista diversi, contraddittori e anche parecchio scorretti. Ma se un testo è scritto bene posso goderne nonostante io dissenta dalle idee al suo interno. C’è valore anche nell’indignazione. Io potrei scrivere di un nazifascista innamorato di Hitler, ma questo non implicherebbe che io sia hitleriano. Non ci sono fili scoperti che non puoi toccare altrimenti si finisce ad autocensurarsi”.
A proposito della scrittura, nel testo c’è una commistione di italiano e tarantino. Un linguista tedesco, Max Weinreich, scrisse: “il dialetto è una lingua senza esercito e senza marina”; mi pare renda bene l’idea della vita di chi lo parla. Persone senza tutele e diritti, o che ne hanno in misura minore, come i suoi personaggi.
CA: “Sono d’accordo. È sicuramente una lingua più libera rispetto a quella nazionale, ha un aspetto più anarchico che la rende spesso più efficace nel veicolare i sentimenti. Io l’ho capito tardi perché sono cresciuto in un periodo – anni ’70-’80 – in cui era proibito dire parole in dialetto, i genitori ti davano uno schiaffo sulla bocca perché era considerato sintomo di maleducazione e ignoranza. Poi, ho scoperto che non era così.
Ho utilizzato nei miei romanzi anche dei neologismi e sono d’accordo con Picasso quando diceva che devi conoscere bene qualcosa – nel suo caso la pittura – per poterla stravolgere e anche superare; non per mero sensazionalismo, ma con un senso. Se ci riesci è un valore in più. Certo, si rischia di ridurre il parterre, ma mi aiuta il concetto dell’universalità della musica: anche la letteratura, seppur in maniera ridotta, può riuscire ad andare oltre.
A questo proposito, quando uscì Cuore di cuoio, il mio terzo romanzo che parla di un bambino che vuole fare il calciatore, scritto tutto in tarantino, Sironi mi portò i quadri delle vendite e, dopo Taranto, le città dove era andato meglio erano Padova e Novara, dove non mi risultano colonie tarantine: probabilmente si è creata una magia grazie alla musicalità della lingua e il testo è stato compreso, è piaciuto.
Non ho dubbi che il libro andasse scritto così, ne sono convinto; inoltre quando utilizzi l’io narrante è una commistione di discorso diretto e indiretto, l’io presuppone che la lingua impregni tutto il romanzo, è nei meccanismi mentali. Per esempio, quando mi arrabbio torno tarantino: è come se fossi partito ieri e invece sono via dagli anni ‘90. Inoltre, ci sono termini intraducibili: quello che indica che una candela è consumata solo da un lato è ‘ammoccat’ e non ho mai trovato un corrispettivo italiano che rendesse l’idea. Si ha bisogno di un giro di parole”.
Che concezione del tempo si vive a Taranto? Cosa significa ‘futuro’? Lo si progetta? Come?
CA: “Anche in questo caso la risposta è un po’ duplice. Ci sono tornato da poco e parlo spesso con chi opera nel sociale. La città si è molto omologata, è sempre più uguale ad altre città, ci trovi le stesse cose che puoi trovare ad Ascoli Piceno, a Gaeta o a Macerata, riscontro che ha perso un po’ le sue peculiarità. Invece i tarantini il tempo lo hanno bloccato, sono se stessi a distanza di anni. Andare a pagare una bolletta in posta può essere divertente: ne vedi di tutti i colori e ci trovi l’ironia dei poveri, quei fottuti a cui è dedicato il romanzo, che riescono a ridere di tutto, comprese le loro disgrazie.
Una parte di Taranto cerca di trovare delle alternative, ci sta provando. Tenta di svincolare la città da quell’etichetta odiosa, perché finta, che abbia una vocazione industriale. Sono arrivati in blocco la marina militare, l’arsenale, il siderurgico, l’Eni, il più grande cementificio d’Italia, ci dovevano portare il rigassificatore: la vocazione industriale le è stata imposta. Qualche tempo fa ci sono stato per presentare Dall’inferno con Michele Riondino, attore tarantino, e ho visto che hanno riqualificato una parte del porto che era abbandonata e l’hanno adibita a visioni e rassegne teatrali e cinematografiche.
Però c’è un problema endemico, cioè la mancanza di coesione: si litiga di continuo e nel frattempo le opportunità passano e si perdono. Per esempio quella di fare del porto anche un porto turistico.
Il MArTA (Museo Archeologico Nazionale di Taranto), invece, va bene perché è diretto da una persona che è al di fuori delle beghe politiche. Il limite della progressione nel tempo di tutte le iniziative tarantine è anche questo. Ci vorrebbe più umiltà, che poi è delle persone grandi: penso a gente della letteratura che ho conosciuto, come Fernanda Pivano, Alda Merini, Pinketts, Crovi che ha tenuto a battesimo Raffaele Nigro e i suoi Fuochi del Basento. E servirebbe meno individualismo e che la politica locale avesse uno sguardo più lungimirante”.
Grazie mille Cosimo.
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