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Domicilio sconosciuto
By Malgrado le Mosche Posted in Altra letteratura, Cacao Meravigliao, Miscellanea on 21/12/2023 0 Comments 8 min read
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di Luciano Funetta
Copertina di Utet

Pubblichiamo un estratto di Domicilio sconosciuto, ultimo lavoro di Luciano Funetta, uscito per Utet.
Di seguito la presentazione del saggio, a cura dell’editore.

Domicilio sconosciuto – perdersi nella letteratura latinoamericana.
L’America Latina è un continente senza porte, in cui le strade si trasformano in impervi sentieri che si biforcano in diramazioni labirintiche. Mappare la sua letteratura appare impresa improba, rinchiuderla in confini nazionali riduttivo, non inseguire i legami tra autori apparentemente distanti sarebbe un peccato.
Per fortuna, Guerra – scrittore incaricato di redigere un saggio sulla letteratura latinoamericana – ha le chiavi d’accesso dell’Istituto, enclave onirica in cui dimorano tutti gli scrittori dell’America Latina. Nei suoi corridoi si aggirano, emaciati e con gli occhi febbricitanti, autori sconosciuti e boriosi premi Nobel, poeti disperati e scrittori visionari di racconti brevi, ma soprattutto il temibile Direttore dell’Istituto, lo scrittore più grande di tutti, padre da uccidere e spietato Tiresia.
Luciano Funetta, grazie alle sue capacità narrative, ci accompagna in un vagabondaggio in cui sogno e memoria si intrecciano creando un gioco di specchi dove ogni frammento di letteratura è un crocevia di percorsi inaspettati. Una mappa letteraria unica e personale dell’America Latina, che da Julio Cortázar e Roberto Arlt arriva a Juan Rulfo e Juan Carlos Onetti, passando per Gabriel García Márquez e Rubem Fonseca, fino a Horacio Quiroga e Ricardo Piglia. Domicilio sconosciuto è un saggio dall’andamento romanzesco che strizza l’occhio alle peregrinazioni picaresche di Bolaño, ma anche alle sofisticazioni di Borges e Bioy Casares, un testo intrinsecamente latinoamericano, la chiave d’accesso perfetta alla letteratura dell’Istituto.


La prima volta che ho visto Los muertos è stata anche l’ultima volta che ho visto la studiosa delle forme letterarie dell’Istituto. Quando il film è finito, la studiosa non c’era più. Da quel giorno, all’università, nessuno ha più sentito il suo nome. Qualcuno ha parlato, o forse sussurrato, di un problema politico. Altri erano certi che i professori ordinari ne fossero spaventati. Non si trattava, precisava qualcuno, di una paura razionale: la presenza della studiosa aveva cominciato a infastidirli, a provocare in loro quel genere di ribrezzo, orrore e superstizione che si prova al cospetto di un animale albino. I suoi occhi innaturali e intransigenti li facevano pensare alla morte. La morte ha iniziato a ossessionarli e non è escluso che qualcuno di quei professori, in piena insonnia, abbia fantasticato sulla possibilità di infilare la studiosa nel bagagliaio dell’auto e portarla lontano. Neppure i compagni del Soledad sapevano niente, ma io credo che fingessero, tacessero, mentissero per proteggere la sua decisione di abbandonare tutto. Mi sarei imbattuto di nuovo nel suo nome solo parecchi anni dopo, sulla copertina dell’edizione italiana di un breve libro di Rodrigo Garfias, La riva d’ossa, che lei stessa aveva tradotto. Una rapida indagine mi ha permesso di scoprire che la studiosa aveva abbandonato la carriera accademica e che ormai si dedicava solo alla traduzione. Di tanto in tanto, ancora oggi, un suo articolo di approfondimento su qualche scrittore o scrittrice dell’Istituto appare su “il manifesto” o su riviste online di critica militante. Un certo scalpore, per usare un eufemismo, ha destato un suo intervento dal titolo Roberto Bolaño e la fabbrica dei sogni, una dose di stricnina pura, in cui il fenomeno della fama postuma dello scrittore cileno e la sua influenza sulla letteratura dell’Istituto vengono raccontati a partire dal saggio che lo scrittore sovietico Il’ja Ėrenburg dedicò all’industria cinematografica hollywoodiana, in particolare alla fondazione e alla fortuna della Paramount Pictures. Nel giro di una settimana, la rivista che lo aveva pubblicato è stata costretta a rimuovere l’articolo dal proprio archivio, decisione che la studiosa non ha mai commentato, almeno pubblicamente. Adesso che sono qui a guardare Los muertos mi piacerebbe poterle scrivere, raccontarle di quella sera al Soledad e del sogno in cui l’ho vista seduta accanto al messicano senza un braccio e al sosia di Philip Dick. È lei la Traduttrice, non può essere altrimenti, anche se nel sogno il suo aspetto era diverso. All’epoca dell’università non aveva i capelli rasati – il mio subconscio deve averli rubati alle immagini dell’arresto di Soledad Rosas – e quando parlava la sua bocca non era tormentata dagli scatti che nel sogno la facevano somigliare a una trappola raccapricciante. La Traduttrice, che io sappia, non usa reti sociali, o se lo fa si nasconde dietro uno pseudonimo inafferrabile. Non mi è mai capitato di imbattermi in nessun profilo che per qualche ragione mi facesse pensare a lei, anche se qualche volta ne ho avuto l’illusione. Potrei chiedere alle riviste con cui collabora di darmi il suo indirizzo email, ma sospetto che non otterrei altro che risposte evasive o silenzio. Il film prosegue, ma non andrà da nessuna parte. L’uomo che naviga sul fiume è un assassino, ha ucciso i suoi fratelli, è appena uscito di prigione, si procura una barca, vuole trovare sua figlia, una figlia che non ha mai visto. Il fiume è opaco ma splende di riflessi disturbanti. La lancia dell’uomo sembra immobile e il paesaggio non cambia. Il viaggio è un’illusione romanzesca, una forma di intrattenimento. Al solo pensiero della parola viaggio mi viene voglia di vomitare tutto – il vecchio dell’ascensore, la lettera, l’Istituto, il Direttore e i suoi soldi, la letteratura e la tortura, lo schema e le linee morte – fino all’ultimo residuo del mio incubo. La condizione dello spettatore di un film, come quella del lettore, è solitaria. Si può andare al cinema in compagnia di qualcuno, ma nel momento in cui il film ha inizio si resta soli in modo irrimediabile. È ciò che Augusto Roa Bastos chiama «la solitudine totale dello spettatore in mezzo alla società» e per fugare qualsiasi rischio di equivoco a proposito dei rischi dell’alienazione e della passività che tale solitudine potrebbe causare, precisa che l’attenzione dello spettatore, come quella del lettore, non sono solo rivolte verso l’oggetto – il film, il testo – al punto da esserne catturati e, in qualche modo, sedati: Bastos raddoppia la prospettiva e parla della «concentrazione che lo spettatore cinematografico e il lettore esercitano su se stessi», ovvero «un processo solitario di elaborazione interiore, di internalizzazione delle immagini» il cui effetto è fare «dello spettatore e del lettore, a loro volta, dei produttori di immagini». Dispositivi di ricezione, dunque, ma anche di stoccaggio. Quando Roa Bastos afferma che lo spettatore e il lettore diventano produttori di immagini, sottintende, forse in modo troppo sottile per essere inteso, che ogni dispositivo di ricezione, ovvero dotato della capacità di conservare le immagini, le forme, i suoni, nel momento in cui tenterà di riprodurli, ovvero di restituirli alla realtà, li troverà modificati: immagini, forme, suoni nuovi, a volte sorprendenti che attraverso il dispositivo stesso, dopo essere stati rielaborati, tornano nel mondo. A ciò che Bastos dice, tuttavia, va aggiunto un elemento di importanza tutt’altro che secondaria: nel momento in cui questi elementi ritornano hanno perso il loro ruolo.
È qui che ha origine il conflitto tra il reale – lo schema – e l’immaginario. Per questo un individuo che esce da un cinema dopo aver assistito a una proiezione è decisamente pericoloso. Non bisogna disturbarlo. Costringerlo a rievocare quanto ha appena visto rischia di renderlo nervoso, aggressivo. La sua mente è piena di materia luminosa che non riesce ancora a elaborare e all’improvviso il reale che lo circonda mostra la sua fragilità. Non una fragilità intrinseca, per quanto non esista nulla di più fragile del reale, ma una fragilità ex post, una crepa sottile, ovvero l’effetto di un’interferenza o di una moltitudine di interferenze che lo spettatore, senza volerlo, inizia a introdurre nelle spesse maglie della percezione consueta. Questo perché lo spettatore, il lettore, sono dispositivi di ricezione e stoccaggio imperfetti, non ermetici. Per evitare che le immagini invadano la realtà, l’individuo deve chiudersi in se stesso e arginarne con tutte le forze i tentativi di fuoriuscita. Non dico, attenzione, che non sia piacevole andare al cinema in compagnia, ma è opportuno che, una volta fuori, nessuno si azzardi a parlare per primo. Meglio, piuttosto, camminare senza dirsi dove si è diretti e a un certo punto, dopo molto tempo, guardarsi intorno e domandarsi: «Dove siamo? Cos’è questo posto?».


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