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Studio intorno alla figura e all'opera di Gloria E. Anzaldúa a partire da Luce nell'oscurità - Luz en lo oscuro
By Malgrado le Mosche Posted in Cacao Meravigliao on 16/04/2024 0 Comments 26 min read
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di Gloria E. Anzaldúa e vari*
Copertina di Meltemi Editore

Luce nell’oscurità – Luz en lo oscuro, di Gloria E. Anzaldúa, edito da Meltemi Editore, è un volume a cura del Gruppo Ippolita, con la traduzione di Laura Scarmoncin e la consulenza culturale e traduttiva dalla lingua spagnola di Saya Mamani.

Premessa e scopo del lavoro

L’occasione di questo studio nasce dalla disponibilità di Meltemi, che ha messo a disposizione non tanto e non solo una copia di Luce nell’oscurità, ma la possibilità di pubblicarne qui e sui social (torneremo su questo) alcuni estratti a scelta, con una lungimiranza e una generosità rare nell’editoria non solo italiana. È chiaro che nell’immediato questa iniziativa non porterà probabilmente a vendere copie del libro, tuttavia non esiste metodo migliore per veicolare l’opera di un’autrice che parlarne. In questo caso specifico, parliamo di un’opera e di un’autrice che sono completamente immerse nel fuoco del tempo; parlare di Luce nell’oscurità e di Anzaldúa significa parlare della storia del mondo, del presente e del futuro che possiamo provare a costruire.

L’idea è di provare a studiare questo testo collettivamente e quale strumento migliore dei social per farlo, si è pensato! Così abbiamo fatto, pubblicando i primi due estratti su facebook e instagram, sulla pagina di Malgrado le mosche, nell’intenzione di ricevere una marea di commenti, di carattere personale e più accademico. Questi commenti non sono mai arrivati, nonostante il seguito considerevole. Ci siamo chiest* come mai e come al solito non abbiamo una risposta univoca né certa. Quello che sappiamo è che i social si prestano poco a discussioni di questo tipo (il tentativo era anche di scardinare questa abitudine. I famosi algoritmi non sono niente di misterioso, sono un elaboratissimo complesso di azioni volte a confermare le abitudini per tentare di vendere pubblicità riferite a prodotti che, a loro volta, confermano quelle abitudini. Se cambiamo abitudini cambia l’algoritmo, cambia il ritmo dell’alga, verrebbe da dire, con un orribile gioco di parole: ma questo fanno gli algoritmi, seguono come alghe le nostre caviglie e accompagnano i nostri passi. Non bisogna cambiare gli algoritmi, è necessario cambiare i passi). Sappiamo anche che Anzaldúa è difficile da smentire, tanto è precisa. Non crea dibattito, crea riflessioni, intime e collettive, ma non social, non con quei tempi.
Bene, si cambia. L’idea era di pubblicare qui il lavoro avvenuto sui social solo alla fine, ma invece iniziamo a farlo subito, perché è uno spazio più lento, più protetto, più adeguato. Continueremo l’esperimento social, ma qui avremo un porto d’approdo sicuro.
Cambiamo anche la struttura, non più casuale e determinata dalla lettura ma scadenzata. Ogni settimana ci saranno gli estratti relativi a un capitolo di Luce nell’oscurità, fino alla conclusione del libro.
Pubblicheremo anche i commenti più significativi e invitiamo nuovamente alla partecipazione.

Partiamo ricopiando i primi due post e poi andando avanti con il primo capitolo. Sarà possibile quindi, al termine del lavoro, avere una panoramica generale di Luce nell’oscurità e della discussione che speriamo possa nascere.

Crediamo infine necessario dire che il testo, nella sua versione italiana, è a cura del Gruppo Ippolita e si avvale della traduzione di Laura Scarmoncin e della consulenza culturale e traduttiva dalla lingua spagnola di Saya Mamani.


Chi è Gloria? Ella es gente, y no una sola persona – Introduzione di Elisabetta Careri

[Dal Texas all’Italia, di confini si muore, provando ad attraversare quelli geopolitici o vittime di quelli che discriminano i corpi dentro le città. Gloria E. Anzaldúa chiamerebbe questi eventi arrebatos, terremoti, traumi, sconvolgimenti personali e/o collettivi, lacerazioni che provocano “un profondo senso di perdita, dolore e vuoto, lasciando indietro sogni, speranze e obiettivi”. I traumi del colonialismo e del razzismo, gli abusi e le discriminazioni di genere, di classe e sessuali precipitano nell’oscurità chi li subisce: uno stato di angoscia e disorientamento in cui si perdono le certezze e si rimane in preda ai propri timori. Una zona liminale che Anzaldúa nomina usando un termine in nahuatl, antica lingua indigena tuttora parlata in Messico: “nepantla”. Il nepantla, letteralmente “spazio di mezzo”… ]

Commento

Parliamo di cose diverse e queste differenze vanno tenute ben salde nel ragionamento o si rischia di avere percezioni estremamente falsate della realtà, tuttavia, nel tentativo di entrare in empatia con chi nasce, vive e muore, spesso prematuramente, in condizione di estraneità e di esclusione dal sistema capitalista, bianco e patriarcale, posso pensare a cosa sia per me il trauma, ovvero alla domanda: cosa mi avvicina, seppure in maniera temporanea e non identitaria, alla condizione di sofferenza esistenziale descritta da Anzaldúa? Come faccio non tanto a capire ma a sentire?
Allora, senza scadere nell’autobiografismo, posso ripensare alle sensazioni di vuoto, di sconfitta, di rassegnazione, di inutilità provate per esempio di fronte a un fallimento conclamato.
E ancora, pur nel privilegio, dove e quando è iniziata la mia diversità esistenziale e quali zone liminali sto abitando?
(Carlo Martello)


Autohistoria incarnata. Dall’oscura intimità delle ferite all’attivismo (politico) spirituale – Prefazione di Paula Satta Di Bernardi

Dalla prefazione di Paula Satta Di Bernardi: [… il suo concetto di attivismo spirituale non è altro che un attivismo basato sull’ascolto attento, presente, sensibile e curativo del corpo. Un corpo pensato ed esperito allo stesso tempo come corpo individuale e corpo collettivo, come corpo interspecie e corpo transtemporale …] [Siamo una “ragnatela di connessioni”, ci ricorda Anzaldúa…]

E ancora, dalla stessa prefazione: [Per questo motivo, “l’imperativo Coyolxauhqui”, la metafora indigeno-corporea per descrivere il processo di ricostruzione delle ferite e d’integrazione delle parti nel tutto, è un invito a riflettere su come la colonizzazione si manifesti ogni volta che i binarismi compaiono nelle nostre vite. Il pensiero binario elimina la possibilità di vivere-vedere la “nepantla”, lo spazio di mezzo, che non è un opposto, né una contraddizione. ]

Commento

Siamo davvero, come dice Anzaldúa, una “ragnatela di connessioni” e su questo concetto, pur con parole diverse per via di una storia personale diversa, mi interrogo da tempo, perché trovo che sia semplicemente empirico notare come ogni nostro gesto e perfino ogni nostro pensiero abbiano delle conseguenze, più o meno rimarchevoli sul resto del contesto che abitiamo, sull’organismo mondo.
Spesso mi trovo a sostenere l’importanza della gentilezza nei rapporti umani e non umani e tuttavia sono consapevole di partire da una condizione caratteriale poco incline alla pazienza, per cui si tratta di operare uno sforzo continuo, passi avanti e passi indietro, una costante rivalutazione delle proprie opinioni, del proprio potere e come è ovvio, questo percorso è disseminato di fallimenti e non si concluderà mai. Il lieto fine non esiste. Il lieto fine è il percorso di fallimenti.
Se provo ad allontanarmi da queste considerazioni più personali e ad allargare lo sguardo, una serie di comportamenti collettivi e politici saltano all’occhio: penso alle condizioni esistenziali delle persone migranti – è di pochi giorni fa la notizia che tre nuovi centri di permanenza temporanea, qualsiasi cosa debba significare questa dicitura, saranno aperti in collaborazione tra Italia e Albania al di fuori di qualsiasi regola anche brutale. Noi trattiamo delle persone come oggetti, peggio che oggetti. È evidente che questo ha e avrà delle conseguenze non solo politiche in senso stretto, ovviamente, ma anche nell’equilibrio sempre più distorto del sistema mondo, che prevede anche i sentimenti. Tra le altre cose, Anzaldúa ci dice che i sentimenti sono politici. Quale benessere del mondo ci può essere se migliaia, centinaia di migliaia di persone, in tutto il mondo, sono rinchiuse ingiustamente e private dei diritti più basilari? Perché l’equilibrio dovrebbe funzionare se in definitiva non c’è?
(Carlo Martello)


Gesti del corpo – Escribiendo para idear – Premessa di Gloria E. Anzaldúa

[Lotto incessantemente con le mie stesse modalità di produzione culturale e il ruolo che ricopro in quanto artista.] […] [Quando scrivo sono cosciente di molteplici nepantlas – linguistici, geografici, di genere, sessuali, storici, culturali, politici, sociali. Il nepantla è il punto di contatto y el lugar tra i mondi – tra immaginazione ed esistenza fisica, tra realtà ordinarie e nonordinarie (spirito)]

[… Escribo para “idear” – parola in spagnolo che significa “dare forma o concepire un’idea, sviluppare una teoria, inventare e immaginare”. Il mio lavoro ha a che fare con l’interrogare, l’alterare e il trasformare i paradigmi dominanti che governano le nozioni della realtà, dell’identità, della creatività, dell’attivismo, della spiritualità, della razza, del genere, della classe e della sessualità. Per dar vita a un’epistemologia dell’immaginazione, a una psicologia dell’immagine, costruisco il mio personale sistema simbolico. …]

[… Non posso servirmi del vecchio linguaggio critico per descrivere, affrontare o contenere le nuove soggettività. Ricorrendo a metodi di rappresentazione primari (autohistoria) invece che a metodi secondari (l’interpretazione delle concezioni altrui) rifletto sugli aspetti psicologici/metodologici del mio stesso esprimermi. Vaglio le mie ferite, tocco le cicatrici, mappo la natura dei miei conflitti, canticchio a las musas (le muse) che persuado a ispirarmi, mi rintano nelle sagome assunte dall’ombra e cerco di parlare con loro.]

[Per me scrivere è un gesto del corpo, un gesto creativo, un lavorare dal di dentro.]

[Sono convinta che è attraverso la narrazione che giungi a capire te stessa e dare senso al mondo. Tramite la narrazione formuli le tue identità collocandoti inconsciamente nelle narrazioni sociali che non hai creato tu. La tua cultura ti dà la tua storia identitaria, però en un buscado rompimiento con la tradición crei una storia identitaria alternativa.]

Commento

Uno dei punti chiave mi sembra essere la questione che il nostro corpo, inteso complessivamente, con le sue stratificazioni storiche – una piccola storia personale -, influisce sul mondo circostante e ne è a sua volta trasformato. Siamo abituat* a pensare alle conseguenze che il mondo impone al corpo singolo, ma è vero anche il contrario, solo viene raccontato pochissimo, quasi mai. Questa consapevolezza è quella che poi ci porta a essere responsabili delle nostre azioni, dei nostri pensieri e dei nostri desideri. Tra le molte altre cose, mi sembra che Anzaldúa dica anche: attenzione a quello che desideri, potrebbe avverarsi!
La narrazione ci costruisce e può essere libera, nonostante le galere, reali e metaforiche, di questo mondo. Di più, la narrazione può contribuire a rendere il mondo più libero, perché contribuisce a crearlo. E il corpo è un luogo di partenza e di arrivo, è un pezzo del libro.
(Carlo Martello)


Capitolo primo
Cerchiamo di essere il balsamo della ferita
L’imperativo Coyolxauhqui – La sombra y el sueño

Ci troviamo all’indomani dell’attacco alle torri gemelle, avvenuto l’11 settembre 2001 (ndr)

[Il mio compito come artista è essere testimone di ciò che ci perseguita, fare un passo indietro, cercare di trovare una trama in questi eventi (personali e sociali) e capire come possiamo riparare el daño (il danno) servendoci dell’immaginazione e delle sue visioni. Credo nel potere trasformativo e nella medicina dell’arte. Per come la vedo io, la vera battaglia di questo paese è contro la propria ombra – il suo razzismo, la sua propensione alla violenza, la sua rapacità consumistica, l’omissione delle proprie responsabilità verso le comunità globali e l’ambiente, e l’ingiusto trattamento di chi dissente e delle persone dispossessate, soprattutto quelle di colore. Come artista mi sento obbligata a svelare il lato oscuro che i media istituzionali e il governo negano. Per cogliere qual è la nostra complicità e responsabilità dobbiamo guardare all’ombra.]

[È una disgrazia che a dare forma alla nostra identità e narrazione nazionale sia questa maggioranza che si rifiuta di ammettere che il conflitto non può essere risolto con la guerra. Negano el conocimiento (la coscienza spirituale) che fibre invisibili ci legano a ogni persona sulla terra e che le azioni di ciascuna influenzano il resto del mondo.]

[Un evento così epocale come l’11 settembre es un arrebatamiento con la fuerza de una hacha. Il don Juan di Castaneda chiamerebbe simili momenti il giorno in cui il mondo si è fermato, ma il mondo non si ferma, s’incrina. A essersi incrinata è la percezione che ne abbiamo, il modo in cui ci relazioniamo a esso, il modo in cui vi siamo coinvolte. Dopo, la realtà ci appare diversa: dalle sue rendijas (fessure) scorgiamo l’illusione di una realtà consensuale. Il mondo così come lo conosciamo “finisce”. Viviamo un cambiamento percettivo radicale, otra forma de ver.
Este choque ci sposta nel nepantla, uno spazio psicologico, liminale, a metà tra com’erano le cose in passato e un futuro ignoto.]

[Il conocimiento ci esorta a reagire non soltanto con le tradizionali pratiche della spiritualità (contemplazione, meditazione e rituali privati) o con le tecnologie dell’attivismo politico (proteste, manifestazioni e assemblee), ma con l’amalgama delle due: l’attivismo spirituale, che pure abbiamo ereditato assieme a la sombra. Il conocimiento ci spinge a impegnare lo spirito ad affrontare il nostro morbo sociale con nuovi strumenti e pratiche il cui scopo è dar vita a uno smottamento. Lo spirito-nel-mondo diviene cosciente, e noi diveniamo coscienti dello spirito nel mondo. La guarigione delle nostre ferite sfocia nella trasformazione, e la trasformazione sfocia nella guarigione delle nostre ferite.]

Commento

Lettura interessante a dir poco,.perché coinvolge, oltre il Tutto e i suoi accoliti, anche quelle parti che tendiamo a nasconderci per cultura, per assimilazione, per abitudine. Al contempo solleva interrogativi che, più che chiedere di essere detti, dato che il linguaggio ha e non ha limiti, o meglio il linguaggio li ha ma non le sue regole, chiede di agili attraverso, mi pare di capire ma dovrei leggere tutto il libro, la scrittura come strumento di conoscenza. Che poi sembra una conclusione banale, ma smette di esserlo se si accetta in toto che la sua funzione si espleti solo se interamente, non saprei come altro dirlo, vibrante, ma forse qui l’avverbio non vale meno dell’aggettivo.
(Alessio Barettini)


Capitolo secondo
Voli dell’immaginazione
Rileggere/riscrivere le realtà

[La consapevolezza non risiede soltanto nella mente, ma comprende anche la conoscenza del corpo. Tale consapevolezza risveglia una qualche memoria profonda e recondita o conoscenza perduta di epoche lontane, ricordandomi che sto compiendo qualcosa che non sapevo di sapere. Mi ricorda che sin da bambina ho intessuto un’incessante relazione con gli spiriti degli alberi e dei luoghi naturali e che posso alterare la coscienza per comunicare con loro.]

[Spirito e mente, anima e corpo sono uno, e insieme per episcono una realtà più grande della visione esperita nel mondo ordinario. So che l’universo è cosciente e che spirito e anima comunicano inviando sottili segnali a chi presta attenzione a ciò che ci circonda, agli animali, alle forza naturali e alle altre persone. Riceviamo informazioni dagli antenati e dalle antenate che abitano altri mondi. Vagliamo quelle informazioni e impariamo a fidarci di quel sapere. La mente non inventa; non fa che immaginare ciò che esiste e dire all’anima di ricordare. L’anima dimentica e i segnali della natura i cui spiriti esistono nei campi, nelle foreste, nei fiumi e in altri luoghi, così come gli arrebatamientos (eventi traumatici), devono riportarla al ricordo più e più volte.]

[Se il mondo è un costrutto e il significato è reso dalla mente e non inerisce agli oggetti, ciò vorrebbe dire che quel che conosciamo ed esperiamo è una proiezione. Cos’è reale allora?
“Pensi che gli spiriti siano reali?” mi ha chiesto un’amica. La domanda mi è stata posta molte volte e ogni volta mi riporta alla mia infanzia, quando ho appreso, osservando las curanderas de mi mamagrande, che il mondo fisico non è l’unica realtà.]

[… Ma molti e molte altre continuarono a praticare il curanderismo al fianco della medicina occidentale tradizionale. Chi di noi crede in questa pratica sa che ogni malattia ha cause psicologiche: per poter curare, dev’essere medicata l’intera persona. Sappiamo anche che esistono alcuni morbi anglo che solo la medicina occidentale può sanare. È stato soltanto pochi anni fa che chi fa ricerca accademica ha restituito ai curanderos la rispettabilità con i suoi documentari, conferendo legittimità culturale alla medicina tradizionale.]

[La chamanería è un sistema animistico, una “religione della natura”, un sistema terapeutico e una pratica spirituale personale, privata, che si concentra sulle nostre vite quotidiane – il lavoro, la gente, i luoghi, le emozioni e le esperienze individuali che compongono la nostra esistenza.

Si serve di precise tecniche per alterare la coscienza così da poter accedere a contesti spirituali celati a coloro la cui consapevolezza si concentra interamente sulla realtà ordinaria della vita quotidiana. È una “viandante tra i mondi”, che entra intenzionalmente in dimensioni che altre persone incontrano solo nei sogni e nei miti, e che riporta con sé informazioni (una ricchezza per guarire gli altri, le altre, la comunità, la terra).
Non sono il servizio o le specifiche attività che la sciamana offre alle persone a renderla tale ma il metodo con cui trae conoscenza e potere per compierli.]

[Ogni giorno, accoccolata nel letto prima di addormentarmi o dopo il risveglio, mi intrattengo in precisi luoghi immaginali. Si dipanano delle “storie” in questi mondi interiori – alcuni li costruisco consciamente o li creo con la volontà; altri affiorano dalle immagini che non originano in me e le cui storie “osservo” come farei con un film creato da un’altra persona. Chiamo queste “fantasie” “ensueños”. In simili immaginazioni elaboro i sentimenti, i traumi, le negatività frutto delle oppressioni di genere, razziali o di altro tipo, e piango le mie perdite. Queste storie – sia quelle create da me sia quelle create per me da qualcosa che mi è esteriore (anima, spirito, la coscienza dell’universo) – mi nutrono, mi guariscono in modi che non comprendo del tutto. Estos ensueños hanno una funzione guaritrice.
Adopero la parola “ensueño” in diverse accezioni: come illusione e fantasia; come un sueño que se hace realidad, un sogno che diventa realtà; come un modo per creare ponti tra la realtà del sogno e la realtà del non-sogno, e come un tipo di sogno lucido in cui si è nella piena consapevolezza (o forse persino in controllo) del processo del sognare. In gergo è un complimento dire “eres un ensueño, ovvero una persona mágica”. “Es un ensueño può anche esser detto dei viajes o lugares maraviosos.]

[Alcuni antropologi definiscono gli spiriti metafore e simboli, ritenendoli nient’altro che immagini mentali. Ma come nota la loro collega Edith Turner, quest’idea è “imperialismo intellettuale”. Stando a Turner, gli spiriti sono “manifestazioni (che) costituiscono l’apparizione deliberata di forme discernibili che hanno il consapevole intento di comunicare, di rivendicare un’importanza nelle nostre vite”.]

[Per indagare l’esperienza in un mondo indeterminato come quello che abitiamo, un mondo in cui tutto ciò che può essere immaginato può accadere, ho bisogno di una diversa modalità di raccontare storie, una modalità che possa reggere simultaneamente i differenti modelli di ciò che io credo sia la realtà. Ho bisogno di un diverso modo di organizzare la realtà.]

[Questo libro esplora la ricerca di una coscienza più vasta e di altre dimensioni della realtà sfidando le premesse di base su cui vengono edificati i nostri concetti. Discute di come potremmo sormontare i limiti della percezione, espandendola oltre i confini del corpo, mutuando la nostra coscienza e la nostra percezione dalla realtà ordinaria a una realtà altra, spirituale, magica, per entrare nei molteplici stati della realtà nonordinaria. Trasferendo la nostra coscienza possiamo muoverci da un mondo/dimensione a un altro. Se la realtà non è che la descrizione di un particolare mondo, quando avviene uno slittamento della consapevolezza dobbiamo dar vita a una nuova descrizione di ciò che viene percepito – in altre parole, creare una nuova realtà. Quando abbiamo accesso a questo tipo di universo percettivo espanso, il nostro punto di vista, la nostra identità e il nostro carattere cambiano, e non siamo più in grado di pensare il mondo come una costante.]


Capitolo terzo
Arte della frontiera
Nepantla, el lugar de la frontera

Gloria Anzaldúa si trova a visitare, il 26 settembre 1992, a Denver, presso il locale museo di storia naturale, la mostra Gli aztechi: il mondo di Montezuma. Da questa visita scaturiscono una serie di riflessioni, disponibili per intero nel volume di cui stiamo pubblicando alcuni estratti. (ndr)

[La negación sistemática de la cultura mexicana-chicana en los Estados Unidos impede su desarrollo, haciéndolo este un acto de colonizacíon. Come popolo che è stato spogliato della propria storia, della propria lingua, della propria identità e del proprio orgoglio, spesso tentiamo di ritrovare ciò che abbiamo perduto scavando immaginativamente nelle nostre radici culturali e creando arte con quel che scopriamo. Mi chiedo: “Che senso ha per me – esta jotita, questa Chicana queer, questa mexicatejana – entrare in un museo e ammirare gli oggetti indigeni un tempo usati dai miei antenati e dalle mie antenate? Incontrerò la mia identità india originaria qui, in questo luogo, tra gli artefatti antichi e il loro mestizaje?”.]

[Vengo spintonata in mezzo a una calca bianca e borghese. Guardo i video, ascolto le presentazioni con le diapositive e origlio il personale del museo illustrare tratti della mostra. Mi fa infuriare il fatto che questa gente parli come se le persone azteche e la loro cultura fossero morte da secoli quando in realtà in Messico ne sopravvivono ancora diecimila. Il museo stesso è una struttura colonizzata: mette in scena una sorta di psicosi, insinuando che l’intero popolo azteco sia morto e non abiti che la preistoria. Tutto ciò suscita in me una duplice “esserità”: percepisco i miei tratti indigeno-messicani rappresentati e al contempo avverto queste parti di me “eclissate”. Mi ricorda le ossa delle persone native americane esibite al museo di storia naturale di New York City accanto ai manufatti preistorici.]

[Per me Coyolxauhqui incarna anche la resistenza e la vitalità degli scrittori e delle scrittrici chicane/mexicane. Scorgo delle somiglianze tra la forza possente e bellicosa della dea luna e il Portrait of the Artist as the Virgin of Guadalupe (1978) di Yolanda López, che ritrae una donna chicana/mexicana mentre emerge correndo da un oval halo di raggi simili a spine, col tradizionale mantello della virgen in una mano e un serpente nell’altra. Indossa scarpe da ginnastica, ha i capelli corti e gambe nude vigorose – una donna dall’aspetto molto lesbico. Il Portrait raffigura la rinascita culturale della Chicana che lotta per liberarsi dai ruoli di genere oppressivi. La lotta e il dolore di tale rinascita trovano un ritratto eloquente anche nelle figure femminili che affiorano dalle sculture di terra e gres di Marcia Gómez, come This mother Ain’t for Sale.]

[Coyolxauhqui rappresenta il processo psichico e creativo del lacerare e del ricomporre (decostruzione/costruzione). Rappresenta la frammentazione, l’imperfezione, l’incompiutezza e le promesse disattese, così come l’integrazione, la compiutezza e l’interezza.]

[Il processo di “presa in prestito” viene reiterato sino a che i significati originari delle immagini sono sospinti nell’inconscio e affiorano immagini più rilevanti per l’epoca e la cultura dominante. Ma in qualche modo l’artista si connette ancora a quel deposito di senso inconscio, si connette a quello stato nepantla di transizione tra i tempi, si connette alla frontiera tra le culture. Gli e le artista chicane sono attualmente impegnate a “leggere” quel nepantla, quella frontiera e quel cenote – dai quali scaturiscono direzione e rinnovamento. L’immaginazione, il mundis imaginalis – la fonte della creatività, dei sogni, delle fantasie, delle intuizioni e degli eventi simbolici – risiede ne el cenote. A chi di noi è ricettiva el cenote offre le risorse dell’inconscio per la conoscenza di sé e la trasformazione. Il nepantla è la soglia della trasformazione. L’arte e la frontera s’intersecano in uno spazio liminale dove le persone di confine, soprattutto gli e le artiste, vivono in uno stato di nepantla.]

[Secondo Edward Hall sin dall’infanzia impariamo a orientarci nello spazio in un modo che è legato alla sopravvivenza e al senno. Quando ci disorientiamo da questo senso dello spazio corriamo il rischio di diventare psicotiche. Contesto tale visione. Per noi mestizas che viviamo nelle terre di confine sentirci disorientate nello spazio è il “normale” modo di essere. È il modo sano di far fronte al ritmo accelerato di questo pianeta complesso, inter-dipendente e multiculturale. Essere disorientate nello spazio è essere en nepantla. Essere disorientate nello spazio è esperire episodi di dissociazione identitaria, disfacimenti e rifacimenti identitari. La frontiera, in un costante stato nepantla, è un analogo del pianeta. Ecco perché il confine è una metafora persistente ne el arte de la frontera, un’arte che esplora tematiche quali l’identità, l’attraversamento dei confini e l’immaginario ibrido.]

[Lo stato nepantla è l’habitat naturale degli e delle artiste – più nello specifico, degli artisti mestizos di frontiera che partecipano alle tradizioni di due o più mondi o che potrebbero essere binazionali. Per questo creano un nuovo spazio artistico, una cultura della frontiera mestiza. “Diffida de el romance del mestizaje” mi colgo dire sottovoce. Puede ser una ficción. Non romanticizzare il mestizaje – non è che un’altra finzione, un modo di ordinare, comprendere o interpretare la realtà, qualcosa d’inventato, come la “cultura” o gli eventi nell’esistenza di una persona. Ma in essa io e altri scrittori/artisti, altre scrittrici/artiste de la frontera abbiamo profuso noi stesse. Il mestizaje è il cuore del nostro creare. Nel mestizaje sanguiniamo, nel mestizaje mangiamo e sudiamo e piangiamo. La Chicana, il Chicano sono sotto il più ampio ombrello mestizo.]

[Attraverso la stanza. Alcuni codici pendono dai muri. Osservo i geroglifici. Le usanze di un popolo, la sua storia e la sua cultura consegnate a una carta battuta di foglie d’agave. Tracce sbiadite di inchiostro rosso, blu e nero lasciate dalle sue artiste, dai suoi artisti, dalle sue scrittrici, scrittori, studiose e studiosi. Il passato pende al di là di un vetro. Noi, che osserviamo nel presente, continuiamo a camminare attorno alla storia inscatolata nelle teche. Mi chiedo chi ero un tempo (la chicanita del rancho completamente immersa nella cultura mexicana), mi chiedo chi sono oggi (che vivo in una città della costa californiana detta paradiso). La mia identità non fa che mutare – essere Chicana o queer o scrittrice non è abbastanza. Sono più mestiza di qualsiasi altra particolare identità. L’artista della frontiera non cessa di reinventare se stessa o se se stesso. Attraverso l’arte è capace di rileggere, reinterpretare, reimmaginare e ricostruire il presente della propria cultura, così come il suo passato.]

[Al termine del mio “tour” di cinque ore m’inoltro fuori dal museo verso il parcheggio con un piede dolorante e un turbinio di domande in testa. Mentre aspetto il taxi mi chiedo: che direzione prenderà in futuro el arte fronterizo? La multi-soggettività e la soggettività sdoppiata degli artisti e delle artiste della frontiera che creano diverse contro-arti proseguiranno con un movimento parallelo, la cui lotta principale non sarà un urto che segue le polarizzazioni noi/loro, amico/estranea: la norma sarà il rifiuto della scissione. Siamo sia nos (noi) che otras (altre) – nos/otras. L’arte genera una comunità più ampia, una comunità che trascende la cultura e il ciclo vitale dell’artista.]

[Mentre il taxi mi riporta sfrecciando all’hotel, la mia mente ripercorre immagine dopo immagine. C’è qualcosa che non va in chi e cosa sono e nei duecento “artefatti” che ho appena visto. Estraggo la mia “carta natale”. Sì, le radici culturali sono importanti, ma non sono nata a Tenochtitlan, nel remoto passato né in un villaggio azteco dei giorni nostri. Sono nata e vivo in quello spazio di mezzo, il nepantla, le terre di confine. Hay muchas razas che mi scorrono nelle vene, mescladas dentro de mi, otras culturas in cui e al di fuori di cui il mio corpo vive. Mi cuerpo vive dentro y fuera de otras culturas, e un uomo bianco che non smette di sussurrare “assimilati, così non sei abbastanza”, e mi soppesa secondo criteri bianchi. Per me essere Chicana o qualsiasi altro, singolo marcatore identitario non è abbastanza – non è il mio io intero. Non è che una delle mie molteplici identità. Assieme ad altra gente della frontiera è in questo luogo e tempo, en este tiempo y lugar, il dove e il quando aiuto a co-creare la mia identità con mi arte. Né l’arte, né l’identità di una persona sono attività del tutto volontarie. Altre forze influenzano, condizionano e plasmano i nostri desideri – tra cui l’inconscio e le forze e i residui collettivi inconsci di chi ci ha precedute, i nostri e le nostre antiche antenate.]

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