YGRAMUL #3 – Uno

Testo di Giulio Iovine
Copertina di Susan Orlok


Καὶ ἔλεγε τῷ Ἰησοῦ· μνήσθητί μου, Κύριε, ὅταν ἔλθῃς ἐν τῇ βασιλείᾳ σου. Καὶ εἶπεν αὐτῷ ὁ Ἰησοῦς· ἀμὴν λέγω σοι, σήμερον μετ᾿ἐμοῦ ἔσῃ ἐν τῷ παραδείσῳ

Ev.Luc. 23, 42-3.

― I miei pecà son tanti
Ch’an i pôs pió purtèr.
― Maria Maddalena:
In Paradîṡ con mé.

Maria Maddalena

Il problema mio è sempre stato non avere un nome. Se per nome intendiamo qualcosa che viene dato specificamente a te, e solo a te, da qualcuno che si interessa a te abbastanza da aver bisogno di un modo in cui chiamarti, io non ce l’ho. E a non averlo, mi sembra – anche ora che sono vecchissimo – di non essere effettivamente esistito; di esser stato piuttosto un’ombra molto solida, una cosa a metà tra sì e no.

E in questo, non sono l’unico. I pochi tra noi che sono passati alla storia perché hanno combattuto battaglie, o custodito tesori, o ucciso gente famosa, o sono finiti ammazzati (ma da gente famosa) hanno un nome nelle lingue di chi li ha conosciuti: il Sindarin, perlopiù, perché in questo mondo si finisce sempre a guardare agli Elfi. Io, che questo curriculum non ce l’ho, mi sono dovuto accontentare di un numero: Ash, che nella Lingua Nera – quella originale, su cui Sauron costruì la propria – significa: uno. L’ordinale uno, ma anche l’articolo indeterminativo: uno a caso, uno che passava di lì. Nome che nessuno mi ha dato: era semplicemente la cifra che stava incisa nella pietra sopra la celletta dove fu collocato il mio uovo. E perciò si riferivano a me come Ash, ‘uno’: il primo esperimento di drago alato prodotto nelle viscere di Angband.

1

La mia nascita fu imbarazzante. Immaginate di svegliarvi la mattina dopo un breve sonno che non vi ha dato alcun riposo, circondati da una melma viscosa, piena di vitamine e acidi grassi. Tutto quello di cui v’importa è rompere il guscio, un istinto imperioso, anche perché ci state soffocando dentro. Detto fatto eccomi fuori dall’uovo, impiastricciato di grasso e paglia; apro gli occhi, ancora non metto a fuoco niente; faccio quattro passi malcerti verso la penombra fuori dalla mia celletta; e due figure nere ammantellate, alte come torri, mi scrutano.

«Non vedo la novità. È come gli altri vermi», dice il primo.

«Questo è una nuova razza. Ha le ali», risponde il secondo.

Sporge la manona guantata verso di me, e schiocca le dita. Istintivamente, per farmi più grosso, apro le braccia – e di conseguenza, spiego le alucce di pelle.

«Ah. Vola», conclude il primo.

«Esatto. Per il resto è identico a quelli di prima generazione. Immàginatelo mentre plana sui nemici o sulle città».

«Me lo immagino».

«Questo è il primo, e per sicurezza è piccolo. Se funziona, li produco molto più grossi».

Il primo si inchina, il secondo lo conduce altrove. Finalmente riesco a mettere a fuoco e, ora che le due torri hanno tolto il disturbo, posso rendermi conto di dove sono. Mi trovo in una stanza sotterranea, immersa in una penombra piena di echi, qui e lì tagliata da raggi di luce vermiglia, e attraversata da un camminamento rialzato. Sulle pareti si aprono centinaia di cellette vuote. La mia è occupata dal guscio in pezzi del mio uovo, e dalla verdura secca o decomposta dove è stato deposto, ora sozza dei miei liquami.

Non passò molto tempo prima che anche le altre cellette si popolassero di paglia e di uova, portate con delicatezza dagli orchi. Li vedevo percorrere indaffarati il camminamento. Poi passavano a controllare se stavo bene e mi lasciavano tranci di carne; qualcuno anche giocattoli, cioè pupazzetti di stoffa che raffiguravano elfi, nani, uomini. Lasciavo le ossa fuori dalla cella perché passassero a riprendersele. Qualcuno a volte giocava con me: appendevano la bambolina di un elfo ad una cordicella e me la facevano acchiappare. Intanto, uno dopo l’altro, nascevano i miei fratelli. Gli orchi ci chiamavano con i numeri delle cellette, e fu così che divenni Ash. Ci parlavano in orchesco, che tuttora conosco come mia prima lingua; ma quando volevano riferirsi a noi come gruppo s’inventarono un nome in Lingua Nera: Ghâššai, il popolo del fuoco.

Ci raccontavano, su ordine del padrone, cosa accadeva fuori dalla nostra stanza, su in superficie: le torri di Angband e l’assedio dei Noldor, e la pianura grigia di Anfauglith, e il magma che usciva dalle caldere di Thangorodrim. Ogni tanto passavano a trovarci quelli che gestivano la baracca, le due pertiche di cui sopra: il primo, quello che faceva domande, era un Maia, Sauron; e il secondo un Vala, Melkor, che creava le cose male. Aveva fatto gli orchi, una brutta copia degli elfi; poi Angband, che era più alta sottoterra che sopra; e infine noi vermi, come ci chiamava lui. Quello che invece faceva Sauron, all’epoca, era principalmente puntualizzare.

«Hai già Glaurung e i suoi figli. Perché un’altra razza?»

«Non si sa mai».

«Glaurung è un po’ troppo indipendente. E anche questi vermi qui, ali o non ali, li hai fatti troppo astuti per i miei gusti. Sono servi che sognano di diventare padroni. Non so quanto ti convenga moltiplicarli».

«Gli orchi non sono all’altezza degli elfi. I vermi sì».

«Gli orchi se non altro obbediscono agli ordini».

Un continuo. Il tutto naturalmente senza mai parlare direttamente con me o con i miei fratelli, beninteso: era come se non ci fossimo, e si riferivano a noi col numero della celletta, più spesso con i pronomi: Questo Qui, Quello Lì, Quell’Altro.

A essere onesti, all’epoca noi draghi alati non contavamo granché, appunto perché c’era Glaurung in giro. Si puntava tutto su Glaurung, il primo drago di Angband. Vedete, lui per i danni che ha fatto si è beccato un nome in Sindarin; un nome tanto appropriato – Glaurung significa ‘verme d’oro’ – che perfino i suoi padroni lo usavano. Non aveva ali, ma sparava fuoco come se non ci fosse un domani, e aveva quel suo maligno, viscido carisma, per cui tendevi a credergli qualunque scemenza dicesse. Prima che io nascessi aveva fatto una sortita, e per poco non aveva sconfitto da solo gli eserciti elfici che tenevano Angband sotto assedio; poi era tornato dentro prima di dare il colpo di grazia, ufficialmente perché era ancora adolescente e non del tutto cresciuto; in realtà perché si era reso conto di non aver definito bene con Melkor i termini della sua ricompensa. Da drago a drago, non lo posso biasimare. Ci hanno creato avidi come spugne, e poi si lamentano se pretendiamo di essere pagati per lavorare.

Un effetto collaterale della presenza di Glaurung fu che per quei primi tempi della nostra vita, a noi draghi alati quasi nessuno badò. Io in particolare, preso come il primo esperimento e ritenuto più una bozza che un drago vero (ero anche molto più piccolo dei miei fratelli più giovani), non ricevevo mai più attenzioni delle chiacchiere con gli orchi che mi portavano cibo o mi facevano giocare. Ma il confinamento cominciava a diventare pesante. Un giorno anziché fare a pezzi il bambolotto, per il nervoso gli diedi fuoco. Inavvertitamente feci carbonella anche dell’orco che me la faceva dondolare davanti. Gli altri orchi presero a ridere e a dare pacche sulle spalle al cadavere del compagno, dicendogli che non avrebbe più sofferto il freddo. Chiesi allora ed ottenni il permesso di lasciare la mia stanza e gironzolare per i sotterranei di Angband, nelle viscere della terra, orientandomi con gli odori e con quel poco che vedevo nella semioscurità.

«Dovunque tu vada, non toccare niente», mi ammonì l’orco. «Non è roba per te».

E così feci, stanza dopo stanza, per mesi e mesi, finché quasi rischiai di perdermi, di non capire più dov’era il basso e l’alto, in quelle immense sale di pietra, rette da file di colonne in geometrie senza senso, sempre illuminate male da due o tre candele alle pareti. Una volta, per caso, arrivai alla porta socchiusa delle stanze di Glaurung, da cui veniva un bagliore vermiglio e una nuvola di fumo. Mi parve di vedere luccicare ossa di elfi alle pareti. Poi da dentro qualcuno si accorse che sbirciavo e mi chiuse la porta in faccia.

Passavano gli anni e Glaurung crebbe. Il giorno del Dagor Bragollach fummo tutti schierati sulle torri di Angband – Glaurung, i draghi senz’ali, noi draghi alati, i Balrog e gli orchi, e mandati a battaglia. Vedevo il mondo esterno per la prima volta. Ma fece tutto Glaurung, mandò in rotta gli elfi e ridusse in cenere un buon pezzo di Beleriand. Sull’onda dell’entusiasmo, fu spedito a saccheggiare Nargothrond. Quando, anziché tornare in buon ordine, accumulò tutti i suoi tesori e ci si sedette sopra a custodirli come un gatto sulla sua cuccia, nessuno tra noi pensò di biasimarlo, avevamo anzi la bava alla bocca per l’invidia; e perfino Melkor gliela passò, con Sauron che borbottava che gliel’aveva detto. Poi un bel giorno ci arrivò la notizia che Glaurung aveva la spada di Turin conficcata nel petto.

«La bestia è morta», commentò l’orco che passava a distribuire la carne nelle nostre stanze (ormai eravamo troppo grossi per le cellette). «Da domani voialtri uscite di pattuglia».

«A fare che?», chiesi.

«Badare che gli Elfi non diano fastidio».

«Ma come ha fatto una spada a uccidere Glaurung?», chiese un altro.

«Pare avesse la pancia troppo molle».

Istintivamente mi passai le mani sul ventre. Era vero: lì non avevamo la corazza. Pensa tu che imbarazzante difetto di fabbrica. Dal quel giorno uscimmo di pattuglia nei cieli del Beleriand, verso sud. Non successe mai granché, gli Elfi non facevano contraerea; e comunque di loro m’importava poco, perché mi ero accorto di quanto fosse divertente volare. Passai quegli anni praticamente sempre in aria, spingendomi verso le coste del Belegaer a occidente, e gli Ered Luin a oriente, e – a debita distanza dal suolo – sorvolando Doriath, Brethil e Ossiriand. Non si vedevano che foreste, e fiumi, e valli, e città elfiche bianche e limpide sotto il sole; si respirava aria pulita nel cielo sgombro; facevo il confronto con i soffitti di pietra di Angband e pensavo tutta una serie di cose che mi vergogno a riportare.

In quegli anni Melkor, deluso dal fallimento di Glaurung, aveva iniziato ad investire più tempo e fatica nei draghi alati; e i figli di Glaurung, i draghi senza ali, cominciarono a passare di moda, dimenticati in una delle caverne di Angband. Servì a poco che uno di loro si distinguesse nella distruzione di Gondolin. Noi della primissima generazione, creature ancora sperimentali, eravamo troppo piccini per i suoi gusti, e si mise di buzzo buono con il numero quarantuno, che gli era riuscito molto meglio degli altri – un drago di dimensioni oscene e a crescita rapida, che arrivò alla maturità in meno di cinque anni. Solo la sua testa era lunga la metà di me.

«Mi dispiace solo che non abbia lo sguardo ipnotico di Glaurung», disse un giorno Melkor a Sauron. Erano davanti all’uovo appena schiuso di Quarantuno. Io, a distanza, origliavo nel buio.

«Ammazza quanto gli è servito a Glaurung, lo sguardo», rispose Sauron.

(Credo di essere ormai l’unico figlio di Angband a ricordare quanto a Sauron riuscisse bene il sarcasmo. Poi è invecchiato, e gli è passata la voglia di ridere.)

«Non s’incontra tutti i giorni un Turin», rispose Melkor.

«È bastato incontrarlo una volta».

«Glaurung ha dato molto ad Angband».

«Avrebbe dato anche di più se non avesse fatto la fine della quaglia».

Col senno di poi, Melkor poteva anche risparmiarsi la fatica di allevare Quarantuno; perché nemmeno trentacinque anni dopo la caduta di Gondolin ci vennero addosso di là dal mare nientemeno che i Valar. L’episodio è rimasto famoso come Guerra dell’Ira e tutti sanno com’è finito. Quarantuno, che è passato alla storia come Ancalagon (in Sindarin: ‘mascelle frettolose’), fu spedito in battaglia assieme a tutti noi draghi alati; incontrammo le Aquile di Manwë e quell’esaltato di Eärendil, che era solo un elfo, ma per l’inferno! In meno di un giorno fummo respinti. Ancalagon fu scagliato addosso a Thangorodrim – una stramaledetta catena vulcanica – e morì arso vivo, appiattendo le montagne sotto il suo peso. Metà di noi Ghâššai fu massacrata sul posto; l’altra metà, me incluso, fece dietrofront e salì verso l’alto, come oche in preda al panico. Lassù avemmo agio (si fa per dire) di vedere le acque dell’oceano avanzare sulla terra asciutta e sradicare Angband come un filo d’erba per mano di un bimbo; i draghi senz’ali fecero la fine del topo e annegarono. Di Melkor, strappato al mondo e riportato al Vuoto che lo circonda, non sapemmo più nulla; Sauron la scampò per miracolo. Tutte le fatiche dei nostri padroni sono scomparse in uno schiocco di dita; tutto il sangue, la morte e le rapine non sono servite che a dar fastidio ad un grande piano originale, che continua imperturbato. Lassù, con gli occhi che pizzicavano per il fumo dell’incendio, ebbi la netta sensazione che avevamo lottato cinquecento anni per niente. La sconfitta era lì fin dall’inizio, era dentro di noi. Non avevamo fatto che rimandarla. Ho guardato dall’alto la mia intera vita e ho constatato che era perfettamente inutile.

Detto questo, mi seccava comunque di perderla, a me come ai miei compari. Avevamo le ali: le abbiamo usate, volando verso oriente. Oltrepassammo gli Ered Luin, nel gelo ultimo al confine dell’aria respirabile. Virammo verso sudest, planando per lo sfinimento, sopra la baia di Forochel fino al monte Gundabad, e poi ancora a est, tenendoci a nord degli Ered Mithrim finché non ci accorgemmo che si biforcavano – un ramo verso est, uno verso nordest – abbracciando una steppa triangolare, sgombra fino all’orizzonte. Era la Brughiera Arida, e lì atterrammo più morti che vivi. Iniziava la Seconda Era.

2

La Brughiera Arida non gode di buona pubblicistica nelle canzoni di Arda; tutti i figli di Iluvatar amano le novità, e la brughiera in sé e per sé è un luogo monotono. Altro non è che un vasto triangolo pianeggiante, incastrato a sud e a nord tra due catene ininterrotte di monti, che se a sud si addolciscono nei Colli Ferrosi, a nord si innalzano in eterni ghiacciai. Più si va verso est, più la brughiera smuore in un deserto di vento, che – se lo attraversate – vi porterà dove un tempo si svegliarono gli Elfi, a Cuivienen.

Fiorivano nella brughiera poche specie di fiori, ma tenaci: la ginestra, il brugo, l’erica – e si prendevano immense fette di quel terreno, infinite contro l’orizzonte nebbioso. Ci brillava sopra un solicello timido, soffiava sempre il vento, e d’inverno le notti avvolgevano la regione con una coperta di neve. Ma dalla tarda primavera e per tutta l’estate il terreno si colorava di verde, dorato, fuxia e un rosa biancastro dal profumo acre. Le due catene degli Ered Mithrim che cingono la brughiera sono pieni di anfratti e grotte, e lì finimmo per rintanarci, accucciandoci ognuno sul fondo della sua caverna, in silenzio se non per il fiatone e i bagliori delle nostre fiamme in giro per le tenebre.

I primi anni della Seconda Era li passammo immobili. Poi uno dopo l’altro uscimmo e ci riunimmo per fare due conti. Dove fossimo, chi governasse quelle terre, e chi fossero i nostri vicini, non sapevamo; né avremmo avuto modo di informarci, se non da quei pochi uccelli di brughiera che visitavano le nostre regioni nei loro lunghi viaggi. I passerotti, le albanelle, le otarde ci raccontavano le storie che venivano dal meridione. I Nani e gli Uomini se l’erano tutto sommato cavata bene in quelle terre, avevano i loro regni e i loro tesori; gli Elfi, sempre in pista, avevano però accusato il colpo e cominciavano a sentire nostalgia dell’Occidente perduto. A sud non avevamo quindi che nemici, anche perché guai mai che ci arrivasse un crepa da Sauron. E qui devo aprire una parentesi. Venimmo ben presto a sapere che Sauron era ancora in giro; che si era installato a Mordor, sui bordi del deserto; e che trafficava con uomini che vivevano in mezzo al mare. Mai, per tutta la durata della Seconda Era – e vi anticipo: anche della Terza – è mai passato a Sauron anche solo per l’anticamera del cervello di venirci a cercare, noi, il miglior esito dell’ingegneria genetica del suo padrone; noi, che forse almeno una guerra gliel’avremmo fatta vincere. Siccome il pettegolezzo è sempre a doppia entrata, della nostra permanenza nella Brughiera fu ben presto informato il resto del mondo; e tuttavia dal meridione non venne mai nessun messaggio. Sauron sapeva; ma fece finta di nulla. Sospettavo da tempo che in fondo al suo cuore diffidasse di noi e non ci volesse tra i piedi. Meno interessato di Melkor alle virtù dello spirito, non voleva collaboratori, ma servi; il suo Luogotenente, che fece quella figuraccia a colloquio con Gandalf di cui tutti sanno, valeva centomila volte meno di lui; e probabilmente gli piaceva per questo. Lasciati in un angolo come giocattoli rotti, ci aggiravamo per le rocce, brontolavamo, facevamo passare la nottata sulle cime innevate dei monti.

Io mi consolai recuperando le abitudini di un tempo, cioè volando in giro. Imparai ben presto che se volevo tenermi fuori dai guai, non era il caso di passare le montagne a sud; c’era troppo movimento tra Erebor e il Lago Lungo, già allora. Ma si poteva volare a est, dove la steppa diventava deserto, fino al mare e ai boschi di Rhûn; e risalire da lì fino al mare di Helcar, che si dice un frammento del lago di Cuivienen. Anche lì svettava una catena montuosa oltre la quale non osai spingermi, perché riconoscevo in lontananza rovine ciclopiche e torri sventrate, e dopo aver visto Angband distrutta, che senso aveva gironzolare per lo scheletro di Utumno?

Ma le rive di Helcar erano verdi e fresche, e le sue foreste vaste e vuote. Potevo dormire all’ombra di quegli abeti millenari, e fare il bagno nel lago dopo un lungo volo sotto il sole. Con l’età noi draghi non abbiamo più bisogno di mangiare – ci alimenta il fuoco che abbiamo dentro, una brutta imitazione del Fuoco Inestinguibile con cui Eru ha creato Arda, e che Melkor ha cercato per tutta la vita di padroneggiare. Insomma non costituivo un pericolo per nessuno. E comunque in quei boschi non c’era davvero quasi niente. L’unica creatura con cui ebbi modo di fare due chiacchiere la vidi un giorno da lontano, mentre stavo appollaiato sulla parete di una montagna. Guardando una gravina scavata dal fiume che di lì nasceva, intravidi una massa scura, circondata da una nebbia nerastra, che pareva volersi rimpiattare nella forra dove si era infilata, se non fosse che era troppo grande per nascondersi.

Volai più vicino, a distanza di sicurezza.

Intendiamoci, i ragni non mi fanno nessuna paura. A forza di volare sopra Nan Dungortheb, che ora è sott’acqua, ne ho visti di grossi e pericolosi, e nessuno di loro era ignifugo. Ma uno grande come questo qui non lo avevo mai visto, mai. Era più grande di Ancalagon buonanima. Più grande di Thangorodrim. Era grande come il mondo intero. Ero a chilometri dal mostro e dal suolo, e pure sentivo che se avesse allungato una zampa dal fondo di quella gravina dove si era rifugiato, mi avrebbe preso come una mosca. Facendo il giro largo, gli volai attorno. L’acqua del fiume che correva a valle del ragno era putrida e invelenita; lo spazio tra le pareti di roccia dove giaceva si andava facendo sempre più oscuro.

Lo sentii parlare mentre ancora gli volavo intorno, meditando il da farsi; e più che una voce concreta, mi parve un sussurro nella mia testa.

«Ungoliant, e vengo da Aman».

Rispondeva alla domanda che non gli avevo fatto.

«Cosa ti porta qui, Ungoliant?», chiesi allora.

«Sono in fuga».

«Dove vai?»

«Da nessuna parte».

«Come ti senti?»

«Ho fame».

La poveretta – era una lei – aveva in effetti un serio problema di fame nevrotica perché, dopo aver vagabondato per secoli verso oriente, dopo aver quasi avuto la meglio su Melkor (!), e insomma dopo aver esaurito ogni possibile sollievo alla sua fame, aveva finito per mangiare pezzi di sé stessa. In condizioni normali avrebbe provato a mangiarmi. In quello stato, con metà del suo corpo divorato dalle sue stesse fauci, metà delle zampe e metà della sua rete di gangli nervosi, non poteva più fare granché. Ma aveva la lingua sciolta, a modo suo – se di lingua si poteva parlare, perché Ungoliant non veniva da Arda, e non c’era niente in lei che ricordasse alcunché della musica di Iluvatar. Mi raccontò dell’universo insensato da cui veniva, e del paese di Aman che la consumava d’invidia e desiderio; del patto con Melkor e dell’Oscuramento di Valinor. Oltre a farmi passare per sempre ogni forma di rispetto per Melkor stesso (credeva veramente di poter fregare un ragno gigante più vecchio del tempo? È dovuto venire un Balrog a salvarlo) ho avuto per la prima volta in vita mia informazioni credibili su questo Occidente di cui nessun orco mi ha mai saputo dire niente di preciso.

Chiaro che per Ungoliant, le dimore dei Valar erano come salsicce unte appese al soffitto per un cane affamato, e nient’altro. A qualunque altra bellezza potessero avere fuori e dentro di sé, il ragno era del tutto indifferente. Pure, anche attraverso le sue ultime parole di odio, mi arrivò qualcosa – un milionesimo, forse – della pace che regnava ad Aman e a Valinor, e di ciò che c’era fuori dal mondo: gli Ainur. Stetti a rimasticarmi quest’impressione nella testa per ore, volando in tondo. Il paese della pace perpetua. E di lì, uscire dal mondo – tornare a Iluvatar che lo cantò la prima volta. In questo mondo, le mie alternative erano mettere le chiappe su un tesoro di nano – massima aspirazione dei miei compagni – o andare a pietire misericordia da Sauron. Da quel preciso momento cominciai a sentire una fitta al cuore ogni volta che vedevo il sole tramontare, e pensavo: laggiù si vede Valinor.

Intanto, la povera bestiaccia non riusciva più nemmeno ad articolare i pensieri: si era messa a mangiare un altro pezzo di sé stessa. Mi prese non so che disgusto, forse pena, e salito all’altezza giusta, feci piovere una cascata di fuoco che consumò quanto restava di Ungoliant.

Avrei volentieri raccontato quanto avevo visto al mio ritorno alla brughiera, ma non interessava a nessuno. Non si parlava dall’altro che della guerra che infuriava nel meridione. Capirai, dissi io: non si fa altro che darsele di santa ragione, da quelle parti. Ma questa è speciale, mi risposero i compagni draghi: Sauron forse la spunta.

«E se la spunta, a noi che cambia?»

Silenzio. Mi rispose Scatha – nome che gli hanno dato gli uomini della Marca di Rohan: per me lui era semplicemente Settantacinque – dicendo che, con Sauron di nuovo in pista, almeno a est dell’Anduin sarebbe stata tutta roba nostra.

«Ragazzi, siamo sinceri. È già tanto se quello si ricorda che esistiamo pure noi, obiettai io». Scatha ne fu costernato:

«Ash, io non so che ti prende certe volte. La fortuna dei nostri padroni è anche la nostra».

«Correzione: la nostra fortuna, semmai, può diventare quella dei nostri padroni. Sempre che i padroni ci reclamino», puntualizzò Gostir (Novantuno), che era un drago freddo – sputava neve, non fuoco – e per questo era poco ideologico.

«Appunto. E comunque Sauron prima deve spuntarla. Quanto ci scommettiamo?»

Ci arrivò ben presto il resoconto di quest’ultima pagliacciata. Numenor sommersa, i Numenoreani in fuga, Sauron sconfitto a Dagorlad e assediato nella sua torre per anni, e la perdita dell’Unico Anello, nel quale – mossa poco furba per i suoi standard – aveva fatto confluire buona parte del suo potere. Non era morto, ma era ridotto al lumicino. Iniziava la Terza Era, nella frammentazione e nell’anarchia.

3

Chiarito che da sud nulla sarebbe mai venuto, cominciammo a pensare a noi stessi, sciolti da ogni legame. Alcuni di noi si fecero ambiziosi; altri, semplicemente più avidi. Nella nostra Brughiera eravamo al sicuro; ma scavalcando la cinta meridionale degli Ered Mithrim c’era tutta Rhovanion da rapinare, e quello che alla fine della Seconda Era fungeva più che altro da passatempo, all’inizio della Terza diventò il nostro marchio di fabbrica. Senza guida e senza uno scopo, dovemmo inventarcene uno tutto nostro, e finimmo per scegliere quello più naturale: il furto e la custodia di grandi ammassi di ricchezze. Scatha, forse il più arrabbiato tra noi per l’indifferenza di Barad-dûr, calò come la vendetta celeste sul regno dei Rohirrim, che all’epoca stavano a Eotheod, non ancora a Rohan – Uomini, non Nani, ma molto ricchi. La loro unica colpa era stata metter su casa immediatamente a sud delle nostre montagne, vicino alle sorgenti dell’Anduin. Scatha li tollerò per mezzo secolo; poi scese a far danni e accumulò le sue ruberie in uno dei loro castelli. Il fatto che Fram, uno dei signorotti locali, riuscisse a ucciderlo, ci fece diventare ancora più aggressivi – tanto più che oltre agli Uomini cominciavano a venirci tra i piedi anche i Nani.

Coi Nani abbiamo un rapporto che con gli Uomini non abbiamo mai avuto. Gli Uomini ci fanno perlopiù pena, i Nani proprio li odiamo. E loro odiano noi. Se è vero che si odia nell’altro il difetto che hai tu stesso, evidentemente non abbiamo mai sopportato di avere in comune con loro una vera e propria fissazione per i metalli preziosi e ogni sorta di beni mobili ed immobili. Quando il loro Re Thorin I, circa due secoli dopo l’assassinio di Scatha, cominciò a colonizzare estensivamente le cime meridionali degli Ered Mithrim, convenimmo che si doveva fare qualcosa, o ci avrebbero scavato le loro caverne in gola. Temporeggiammo per tre secoli, li lasciammo credersi invincibili. Poi li colpimmo, ognuno per sé ma con tutta la violenza che avevamo; molti di noi presero possesso dei loro tesori, e lì sedettero, come ai suoi tempi Glaurung. I Nani reagirono, naturalmente, e fu l’inizio delle ostilità. Che, mi duole dirlo, non finirono propriamente con una nostra vittoria, ma con una serie di alti e bassi.

Uno degli alti più considerevoli fu quando Gostir, il drago freddo di cui sopra, giunse sulla soglia del palazzo di Re Dain I e si mangiò lui e il suo figlio di mezzo, Frór; quel che non riuscì a rubare, lo coprì con uno strato di gelo dritto dalle sue viscere. Fu un colpo gobbo che costrinse i due figli sopravvissuti a dividere la comunità in due tronconi: uno, alla guida di Thrór, scese a sud e piantò le tende a Erebor, la Montagna Solitaria; l’altro, sotto Grór, scarpinò fino ai Colli Ferrosi a est. Gostir, com’era nel suo carattere, rimase equanime nel trionfo, e si chiuse nel palazzo ghiacciato che fu di Dain I a compiere un’opera che aveva in mente da un po’ di tempo: riprodursi.

Non è facile per un drago avere figli. Anzitutto tra noi non esiste il genere, quindi non ci sono né maschi né femmine, e nessuna riproduzione sessuata. Quando a uno di noi salta il ticchio di procreare, si tratta sostanzialmente di lunghi anni di meditazione e accumulo di carboidrati, finché non si è grassi abbastanza e abbastanza in controllo del proprio fuoco interiore, da riuscire a sdoppiarlo. Arrivato al momento clou, il drago depone un uovo fecondato. Lo sforzo ci lascia esanimi per qualche decennio, per cui tendiamo a starcene chiusi in una caverna mentre aspettiamo di recuperare; nel mentre, l’uovo si schiude e il neonato va per i fatti suoi.

Il figlio di Gostir era un drago di fuoco, non freddo come lui; ereditò la sua furbizia, ma purtroppo non il suo essere immune da questioni ideologiche. Le canzoni della Terza Era lo ricordano con il nome di Smaug. Tormentato dall’avidità e dall’ambizione, sentì ben presto che la brughiera gli andava stretta, e volle completare l’opera di suo padre cacciando gli eredi di Dain I dalle loro sedi. Calò su Erebor, ne scacciò suo figlio Thrór, e fu Re sotto la Montagna. Altra grande vittoria per i Ghâššai; purtroppo, anche l’ultima.

Che Smaug, borioso com’era, facesse la fine di Glaurung – un’arma da taglio conficcata in pieno petto là dove non aveva l’armatura – non mi sorprese granché. I draghi sono creature ragionevoli finché non gli fai vedere anche solo una monetina di rame; da quel momento vanno in corto circuito e cominciano a parlare in prosa ritmica e pretendere epiteti come Il Terribile, Il Magnifico, L’Orrenda Calamità eccetera. Essere andato a bruciare Esgaroth con un buco nella corazza all’altezza del cuore, pronto per essere infilzato, non fa onore al comprendonio del caro estinto. Ma il peggio doveva ancora venire. Smaug era pur sempre uno dei più forti tra noi; uno dei più crudeli, che è sempre utile quando giochi sulla difensiva. Senza di lui ci prese una malinconia inspiegabile, quasi un brutto presentimento. E infatti non passarono cinquant’anni che la solita otarda ci portò la notizia più inquietante della nostra vita.

«Sauron non è più».

Silenzio.

«…in che senso?», chiese Ventotto.

«Vorrei poter dire che è morto, ma se ho capito bene è più una cosa tipo una specie di nullità che si morde da sola e vaga».

«Chi ha osato…?»

«Dei nanerottoli dell’ovest. Hanno buttato l’Unico Anello dentro l’Orordruin. Il potere di Barad-Dûr è finito. Niente più Orchi, niente Nazgûl e anche i ragni di Bosco Atro credo se la passeranno maluccio d’ora in poi».

«Ma quello era l’ultimo pezzo di Angband. L’ultima eredità di Melkor su questa terra», gridò Trentasei con angoscia. «L’ultima cosa al mondo a cui un minimo somigliavamo. Che facciamo adesso…?»

«Non ne ho idea», disse l’otarda, e volò via.

Finiva la Terza Era, e cominciava il più lungo dei nostri concili. Parlò per primo Diciannove:

«Compagni, mi sembra che abbiamo davanti una sola strada».

«Sarebbe?»

«Ci riuniamo e caliamo a meridione in assetto da guerra. Niente rapine, niente tesori da custodire. Solo distruzione, fuoco e morte».

«Senza Sauron siamo più deboli», argomentò Trentasei. «La sua presenza nel mondo in qualche modo dava un senso anche alla nostra. Adesso ucciderci sarà più facile».

«Ma mica pretendo che ne usciamo vivi», obiettò Diciannove. «Vorrei solo che ce ne andassimo con dignità, diciamo pure col botto».

«Ragiona, Diciannove», obiettò Ventidue. «Non nego che se ci mettiamo di buzzo buono non riusciremmo a devastare immense aree e prendere innumerevoli vite. Ma siccome ora nel mondo la legge è cambiata, saremo puniti tanto più duramente quanto più feroce sarà il nostro attacco».

«Combattere non ha senso», intervenne Quarantaquattro. «Sono d’accordo con Ventidue. Mi sembra che abbiamo una sola scelta dignitosa: sparire. Già una volta siamo scampati all’annientamento perché avevamo le ali e il mondo è grande. Andremo a nord, dove fa troppo freddo perché ci inseguano. O a est, dove Ash ci ha raccontato che sorgono ancora le rovine di Utumno. O a sud di Mordor, dove c’è il deserto. Insomma, là dove nessuno potrà mai raggiungerci, semplicemente perché gli costerebbe troppo tempo e fatica».

«A proposito di Ash», disse Undici, per poi rivolgersi a me. «Ash, tu sei il più anziano tra noi. Si dice che i draghi invecchiando diventino invariabilmente più scaltri, a differenza delle altre creature di Arda che con l’età possono pure rimanere cretine, a seconda del carattere. In teoria tu sei il più saggio dei Ghâššai. Ti prego, dacci un parere».

Avevo sperato che mi lasciassero stare zitto, ma evidentemente non era destino. Così aprii le ali, come da neonato, per darmi un po’ più di autorevolezza, e dissi:

«Le risposte delle creature viventi al cambiamento, repentino o graduale, dell’ambiente in cui vivono sono tre. Adattamento, migrazione o estinzione. Diciannove propone la guerra totale. Che nel suo essere un completo rifiuto di qualunque adattamento, è a modo suo una forma di adattamento. Faremo dei danni pazzeschi e poi ci estingueremo, e sarà come se non ci fossimo mai stati. Quarantaquattro, dal canto suo, pensa alla migrazione – ma il problema è che l’ambiente che ha subito un cambiamento non è semplicemente un ambiente. È tutto il mondo. Non c’è un angolo di esso dove potremmo trovare condizioni diverse e prosperare di nuovo».

Silenzio.

«Insomma ci dobbiamo estinguere, Ash?», chiese Undici.

«Non per forza. Secondo me si tratta di essere creativi. Io credo…»

Mi tornò in mente l’ultimo rantolo di Ungoliant.

«…io credo che dobbiamo trovare la nostra soluzione nella zona grigia tra una possibilità e l’altra. Una soluzione che includa sia adattamento che migrazione. Da sole, non sono praticabili. Ma insieme, io penso che ci diano la risposta».

Dissi loro, chiaro e tondo, quella che pensavo fosse la soluzione al nostro problema.

La reazione fu disastrosa. Molti dei miei compagni mi presero per pazzo. Altri si sentirono offesi a morte dall’umiliazione che stavo, di fatto, proponendo. Altri ancora dissero che era troppo tardi, e che comunque era una soluzione fuori dalla nostra portata, perché eravamo draghi – eravamo una cosa di Angband, e la nostra origine non poteva essere cancellata, e ciò che altri avevano potuto fare, noi non avremmo mai potuto neanche pensare di farlo. Poi riprese il dibattito, ancora sui termini di Diciannove e Quarantaquattro. Passati un paio di giorni, quando mi resi conto che non saremmo riusciti ad andare oltre quel collo di bottiglia, senza dir niente a nessuno abbandonai la gravina tra le montagne dove tenevamo consiglio, risalii sulla vetta nevosa di una di esse, attesi le correnti ascensionali del pomeriggio e spiccai il volo.

4.

Buona parte della letteratura sui draghi che mi sono smazzato nella mia lunghissima esistenza dà per scontato che noialtri Ghâššai, bestiacce di diverse tonnellate ciascuno, siamo come dei pettirossi o dei colibrì – tenere cosine piumate che saltellano e svolazzano senza sforzo da un ramo all’altro, o stanno fermi a mezz’aria mentre ti parlano. Quando si fa notare che più sei pesante, più è difficile portarti in aria, ci viene risposto che i draghi sono creature magiche e non sono legati alla gravità. Questo può essere vero per gli ultimi prodotti di Angband, come Ancalagon o i Balrog, che erano davvero troppo grossi per poter volare naturalmente. Ma per noialtri primi esperimenti, io in particolare, Melkor dovette tener conto delle tecniche di volo dei vertebrati e programmare di conseguenza. Non è un caso se i draghi alati di primissima generazione, ancora poco dipendenti dalla magia per il decollo e il volo, non sono più alti di dieci metri e pesano meno di tre quintali.

Non pensate ai pettirossi o ai colibrì. Pensate agli albatri, alle oche, ai cigni o ai condor – uccelli che decollano quando proprio devono farlo, per sfuggire ad un pericolo o procurarsi il cibo a distanza di chilometri, e tutto il resto del tempo lo passano camminando o nuotando. Noi draghi in generale, prima di essere dei volatori, siamo anzitutto dei buoni camminatori. Più di un quarto della mia massa corporea, e parliamo di quasi un quintale di muscoli, è nei miei arti anteriori, che generano la spinta maggiore quando cammino e muovono le ali quando decollo. Dato che sono quadrupede, mi lancio in aria spingendo su tutti e quattro gli arti come i pipistrelli, per poi battere freneticamente le ali, che da una punta all’altra contano quindici metri e mezzo di estensione. Naturalmente lo sforzo iniziale è tutto anaerobico, per cui ho a disposizione circa un minuto e mezzo prima che l’acido lattico mi costringa a fermarmi; ma siccome schizzo in aria a più di novanta chilometri l’ora, ho tutto il tempo che mi serve per prendere quota, beccare la corrente ascensionale giusta e poi planare ad ali ferme. Poi ci sono altri trucchetti, per esempio abbiamo le ossa quasi tutte cave, per cui pesano molto meno di quello che sembra; e prima e dopo i polmoni abbiamo diversi sacchi aeriferi per rendere costante l’afflusso di ossigeno nel sangue, e sostenere così anche sforzi prolungati. Ma vi sto annoiando con i tecnicismi – un brutto effetto della vecchiaia. E non è l’unico. Mentre correggo l’altitudine battendo leggermente le ali, ecco un inconfondibile dolore ai gomiti e alle spalle, come se le mie articolazioni fossero meno elastiche del solito. Non me l’ha fatto un mago o un elfo. Si chiama artrosi, e me l’ha data il tempo.

In termini di orientamento, è il viaggio più semplice della mia vita. Devo solo seguire il cammino apparente del sole verso il tramonto. Ogni tanto le nubi si diradano, facendomi vedere pezzi di continente. Mi lascio ben presto le Montagne Nebbiose alle spalle. Il verde di Eriador lampeggia sotto il sole, il Baranduin luccica. Il mare non può essere lontano. E infatti il giorno dopo ecco aprirsi come uno sbadiglio la distesa infinita del Belegaer. Qui comincia la parte faticosa, perché volare sul continente è una cosa, volare sul mare un’altra; vero che non ho bisogno di nutrirmi, ma non mi è possibile – dato che non conosco per niente quest’oceano – fare scalo su un’isola per riposare. Devo semplicemente rimanere in aria, ad ali ferme, e farmi trasportare verso ovest.

Hai detto niente. Quanto accidenti è largo questo mare…? Ungoliant mi aveva avvertito che la distanza era notevole, ma qui passano due, tre, quattro giorni e io non vedo terra all’orizzonte. Guardo in basso, alle onde lontane. Magari sono abbastanza leggero da riuscire a galleggiare, in fondo sono pieno d’aria. Giusto un’ora o due di riposo. La tentazione mi fa perdere quota. Ma mi ripiglio e batto le ali con irritazione, recuperando altitudine. Andrei a fondo come un’ancora di nave nel momento in cui svuotassi i polmoni, e con le ali zuppe di acqua, alla mia età, non credo che riuscirei a decollare di nuovo prima che qualcosa risalga in superficie e mi morda. Ammaraggio significa morte. Con gli occhi chiusi per il sole in faccia, sfreccio in mezzo a una nuvola densa abbastanza per dar loro un po’ di tregua. La mattina ho il sole sulla coda ed è carino volare con le chiappe al caldo, ma i pomeriggi sono letali.

Penso e ripenso con angoscia alla Via Diritta, che i Valar hanno aperto solo agli Elfi da quando Eärendil navigò fino a Valinor. La via è marittima. C’era un collegamento terrestre a nord, Helcaraxë, ma è andato sott’acqua col Beleriand quando ero giovane. E mentre penso e ripenso a Valinor, penso anche al mio desiderio di pace, alla paura della morte, al disgusto e all’inutilità della mia lunghissima esistenza. Passa una settimana di volo ininterrotta e oltre al dolore atroce delle mie cartilagini, non so pensare ad altro che a Valinor. L’occidente beato, le coste della pace, la fine del mio lungo viaggio senza senso, che solo adesso ha uno scopo. Valinor! Una tempesta viene da settentrione – sono i Valar che si preparano a impedirmi l’accesso? O è semplicemente la stagione cattiva e sono stato fin troppo fortunato coi miei sette giorni di mare calmo? I venti cominciano ad abbattermisi addosso, mandandomi fuori assetto – sento le prime gocce d’acqua, e i fulmini nella notte lontana. Per sopravvivere non c’è che una manovra possibile – prendo quota e salgo sopra le nuvole. Ma il freddo è così intenso – più intenso del peggiore inverno della Brughiera – che tremo dal muso alla coda, e le estremità delle ali si fanno di cartapesta. D’istinto, apro entrambe le sacche di idrogeno che ho nelle borse golari e comincio a sputare fuoco a destra e sinistra, che scaldi l’aria intorno a me. Ma qui c’è poco ossigeno e la fiamma brucia male. Le estremità dei miei arti anteriori sono due blocchi di metallo e non mi sento più le ali. Sono costretto a perdere quota, riattraversare le nubi, tornare nella tempesta di pioggia fitta. Per fortuna è quasi finita. L’artrosi mi sta uccidendo e per il dolore ritraggo verso di me le ali, perdendo ancora più quota. Voglio solo dormire, non ce la faccio più. Le acque si avvicinano e io penso che se non altro ci ho provato. Da quest’altezza sarà come atterrare sulla pietra.

Poi guardo meglio e mi rendo conto che sotto di me c’è una spiaggia.

Per un attimo smetto di pensare al volo e chiudo le ali. Come risultato, vado giù in picchiata. A un centinaio di metri dall’impatto riaccendo il cervello, spiego di nuovo le ali e nonostante la pena infernale riesco a fare una cabrata da maestro, riprendendo quota a un metro dalla spiaggia, per poi atterrare – dopo un avvitamento che mi fa vomitare in aria – sulla sabbia calda. Lì, svengo.

5.

Mi sveglia il sole che brucia la schiena squamosa. Ho mezza ala che galleggia sul bagnasciuga, e l’altra, ripiegata, che scotta sul mio dorso. Mi rimetto sulle quattro zampe. A parte che non c’è un osso o un muscolo del mio corpo che non mi stia facendo un male d’inferno, non ho niente di rotto, al massimo qualche ammaccatura. Mi guardo intorno e constato che non avevo mai visto prima spiagge così fini e bianche, un oceano azzurro come zaffiro, e una giungla così verde e umida sorgere là dove la spiaggia termina, a poche decine di metri da me. Il clima è tiepido, né troppo caldo né troppo freddo, e dal cuore della giungla viene un vento carico di profumi che cozza con l’odore del mare.

«Fossi mica arrivato a questa benedetta Valinor?», penso ad alta voce.

«Sì e no, mi risponde un’altra voce».

Mi guardo intorno frenetico. Non mi ero assolutamente accorto che una figura umana alta e limpida sta seduta su una grossa pietra lambita dalle onde. È vestito di azzurro scuro, ha gli occhi azzurri e la pelle pallida. Porta al dito diversi anelli con zaffiri e lapislazzuli incastonati, che stuzzicano per un secondo il mio istinto di drago. Poi sospiro e penso a quanto faccio pena.

Tossisco un attimo, poi:

«Salve. Con chi ho il piacere di parlare?»

«Manwë».

Rimango in silenzio per un lungo minuto. Sento le onde infrangersi contro le mie orecchie.

«Manwë», ripeto.

«Lui».

«L’Ainu».

«Preferisco ‘Vala’. ‘Ainu’ è meglio usarlo per gli Ainur che non sono mai venuti su Arda. Io sono uno di quelli che venne ad Arda quando era ancora intatta, e sono un Vala».

Mi appiattisco sulla sabbia calda.

«Non so bene cosa dirti, Manwë».

«Non devi dirmi niente. La tua mente è un libro aperto e so già tutto quello che devo sapere».

«Va bene, ma le buone maniere. Mi ero preparato un discorso di ringraziamento ma l’ho completamente dimenticato. Il fatto è che non mi aspettavo di incontrare proprio te».

«E chi, sennò?»

«Qualcuno di più abbordabile – che ne so, un Maia. Non il Re di Arda».

«Ma se ci pensi, non avresti potuto incontrare altri che me. Sono stato io a separare Valinor e Aman dal resto di Arda, dopo la Guerra dell’Ira. E sono sempre io, assieme a Ulmo – che si sarebbe già accorto del tuo arrivo, se tu fossi venuto per mare – a tenere d’occhio la Via Diritta. Se ci fa visita qualcuno, bè, sono io a fare gli onori di casa».

Non ho parole per rispondergli, che non siano balbettii.

«Comunque io e te ci conosciamo già, riprende a dire. – Quando guidai le Aquile contro Ancalagon, tu eri nella retroguardia con gli altri draghi. Mi ricordo benissimo di averti visto mentre volavi via. Ho pensato: quello sta meglio di tutti i draghi, e peggio».

Uh-uh. Questo è un enigma. Un paradosso. L’altra cosa con cui i draghi sono fissati. Mi rialzo, emozionato.

«Aspetta Manwë, aspetta che lo risolvo. Dunque…»

«Ma no, lascia perdere. Hai viaggiato a lungo e non ho alcuna voglia di farti fare sforzi non necessari. E poi non è granché come enigma. È per quell’impressione che mi hai fatto quella volta, che ora sei qui».

Lo guardo in silenzio, timoroso.

«In parte, i tuoi compagni avevano ragione, Ash. Solo gli Elfi hanno il permesso di tornare a Valinor, perché un tempo ci vivevano. Delle altre creature di Arda, compresi voi Ghâššai, come vi chiamate tra voi, il destino è sconosciuto, e sicuramente non include Valinor – a parte alcuni Hobbit che ci prepariamo a ricevere, ma quello è un caso particolare. E poi tu sei una creatura di Angband, un’invenzione di Melkor per fare il male. Tutto potevi aspettarti, tranne che io ti facessi arrivare fino alle coste di Valinor».

‘Ah, quindi c’ero arrivato. Giubilo! Adesso però forse mi manda via’, penso turbato.

«Non ho alcuna intenzione di mandarti via, Ash, perché è da quel giorno in cui ti ho visto scappare da Angband», che ti aspettavo qui.

Ricado sulla pancia.

«Questa non l’ho capita, o sublime».

«Eri quello che stava peggio di tutti gli altri draghi», rispose lui. «Sentivo chiara come una lama elfica la tua sofferenza nel perdere la tua casa, la tua quotidianità e i tuoi punti di riferimento, e il dispiacere nel vedere tanta morte intorno a te. I tuoi compagni erano in media molto più indifferenti a tutto ciò che non fosse salvarsi le squame. E contemporaneamente tu stavi meglio di tutti gli altri. Non pensare che mi sia sfuggito. Hai visto crollare il potere di Melkor e hai pensato per un attimo: sono libero. Sono padrone di me stesso. Posso essere…»

«…diverso da chi mi ha creato, concludo senza pensarci».

«Non che io non lo sappia già, ma voglio sentirtelo dire, Ash. Forte e chiaro. Perché eri contento di vedere Angband sommersa dal mare?»

«Mi chiedi di dire una cosa che mi ha dato vergogna per tutta la vita».

«Per questo voglio che tu la dica. Su, parla».

Deglutisco, e:

«Io sono nato con… no. Io sono stato creato, allevato, con la consapevolezza ineludibile di essere una cosa di Melkor. Sono un suo progetto. Tutto ciò che mi appartiene in quanto drago – la malizia, l’avidità, la rabbia, persino la passione per gli enigmi – viene da Melkor ed è un diretto risultato di un suo piano originale. Io contamino queste spiagge, Manwë – io sono il disgusto dei Valar. Ma tu mi leggi in cuore. Io volevo essere un’altra cosa rispetto a… al mio contesto di origine».

«Bene. E perché?»

«Ma perché il mio contesto di origine non mi ha mai dato l’unica cosa di cui veramente m’importava», esclamo con voce strozzata. «Un minimo di considerazione».

«Nei tuoi pensieri hai usato una parola diversa. Ma è presto per chiederti di pronunciarla. Continua, stai andando bene».

«Che senso ha», proseguo io «essere il più grande prodotto del più grande Ainu che ci sia mai stato (scusa, Manwë) se tutto quello che mi viene richiesto è di servire finché sono utile, e sparire se non servo più? Se sono stato dimenticato assieme ad un’intera stirpe, solo perché eravamo troppo indipendenti per i gusti di Sauron? Che senso ha avuto la mia vita, una vita che ho passato a non fare niente di rilevante – al di là dei miei micragnosi fatterelli – perché nessuno mi ha mai chiesto nulla?»

«Nessuno. Sono d’accordo. E che cerchi qui?»

«Bè, questo lo sai».

«Sicuro che lo so, ma ripeto: me lo devi dire».

«Manwë, mi rendo conto di essere una cosa impura e schifosa, ma com’è vero che sono qui davanti a te, e sai che non mento: per favore, accoglimi a Valinor».

Silenzio. Proseguo:

«Perché là nella Terra di Mezzo il nostro tempo è finito, e io sono stanco di essere privo di senso, ignorato, umiliato. Ho paura di morire senza aver vissuto. Sono in cerca di un significato.

«Anche qui in realtà, al posto di significato, nella tua testa c’è un’altra parola. Ma è troppo presto perché tu la usi. E apprezzo molto il tuo sforzo».

«Devo dire di più?»

«No. Hai detto esattamente quello che volevo sentire».

Manwë intanto si alza in piedi sulla pietra, e sembra riflettere.

«Ma prima di decidere se farti entrare o meno a Valinor – perché non sei proprio a Valinor, per ora sei solo sulle spiagge di Aman – e da Valinor, chissà, forse altrove, non vorresti qualcosa di più semplice, Ash?»

«Cosa?»

«Qualcosa che hai voluto per tutta la vita, forse senza saperlo. Un nome!»

«Ma ho già un nome, o sublime».

«Hai un numero in Lingua Nera che ti fa da nome. Per carità, non ho nulla in contrario, ma non vorresti un nome tutto tuo? Una cosa che appartenga solo a te?»

Senza volerlo, scodinzolo.

«Oh. Sarebbe bellissimo».

«Vero? Certo non è semplice. In che lingua lo vorresti? Non quella di Mordor, mi auguro. Il Sindarin, magari? Potresti essere Amarthaphlad, colui che segue il suo fato. O Bandrevia, colui che fugge dalla propria prigione. O anche Reviabaul, colui che fugge il suo tormento. O Nemborn, il naso bollente – non vorrei essere nei paraggi della tua bocca quando starnutisci».

Resto a guardarlo incredulo, e lui ride.

«Ti prendo in giro. Sceglierai il tuo nome quando e come vorrai, o te lo daremo noi, se preferisci. Per il momento, e lo dirò in Valarin, tu sei dušamanûðân, il deturpato o corrotto. Dunque non entrerai a Valinor finché io non avrò conferito con gli altri Valar, cosa che farò a brevissimo. Credo che avremo molto di che discutere, per capire come ripulirti dalla corruzione che il tuo signore ha impresso nella tua carne. Può darsi che ti faremo aspettare ancora un bel po’, e ti chiederemo di fare diverse cose per purificarti. Ma posso darti la mia parola che non verrai rimandato di là dal mare a morire. Sei ad Aman e qui resterai, e qui non c’è morte; c’è la rinascita, se vorrai guadagnartela».

Mi chino con la faccia a terra.

«Quando il tuo percorso sarà davvero finito, e puoi credermi se ti dico che a confronto il tuo viaggio transoceanico – che pure fa onore alla tua forza e alla tua esperienza di volatore – ti sembrerà una sciocchezza, allora non sarai più dušamanûðân, ma amanaišal: l’incorrotto o intatto. Allora, e solo allora, sarai il benvenuto a Valinor; e a tutto ciò cui si può arrivare tramite Valinor».

Alzo la testa al suo improvviso silenzio: mi guarda fisso negli occhi.

«Tutto questo, naturalmente, se tu lo vorrai, Ash».

Salta giù dalla pietra e mi si avvicina, fino a un metro dalle mie mandibole.

«Sì, Manwë. Non ti chiedo che la salvezza».

«E quella avrai».

Mi fa un cenno di saluto con la mano; poi scompare in un lampo dello stesso colore dei suoi occhi, che per un attimo mi acceca.

6.

E insomma è passata credo un’ora, forse una giornata, chi lo sa. Manwë è a consiglio con i Valar mentre decidono del mio destino. Io ho avuto la parola d’onore di un Vala e francamente non ho più paura di niente; anche il desiderio, prima incandescente, si è trasformato in una sensazione di calore e di dolcezza, di attesa della felicità. Non mi sono mosso da dove sono atterrato, salvo che a un certo punto ho cercato l’ombra, sistemandomi in una cuccia molto artigianale sotto gli alberi della giungla direttamente davanti al mare. Sono raggomitolato qui, testa pancia e collo al suolo, immobile come una pavona che si mimetizza mentre cova. Credo ci sia un fiume nei paraggi, perché oltre al vento che scorre tra le fronde, mi pare di sentire il chioccolio di un ruscello. Niente male per un drago della mia età. L’artrosi, ora che non mi muovo, si è un po’ calmata. Nella mia testa, sonnecchiando, racconto e racconto la mia storia sin qui, e ogni volta la finisco con il mio colloquio con Manwë. Probabilmente ci sarà molto altro in futuro, ma la parte brutta della mia storia è finita con quel colloquio, e quello che verrà ora sarà un’altra storia, forse troppo noiosa per essere raccontata. Penso e ripenso a Manwë, che sapeva tutto prima ancora che io pensassi a questa soluzione insensata. Quando ho osato proporla ai miei compagni ho preso una barca di insulti. Eppure, che c’era di strano? Quando l’ho incontrato, gli ho solo detto: signore, sono una nullità, non capisco le cose e sto da cani. Posso essere salvato? Lui ha detto: sì. Vai tu a sapere che era così facile.

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