YGRAMUL #6 – Freight train

di Carlo Martello
copertina di Susan Orlok


Perché io?, mi chiedo. Come se avesse potuto sentirmi, Pete Seeger mi guarda e fa: «Non stare a farti domande, cerca di sopravvivere, little boy. Poi cerchiamo di farti uscire fuori da qui». Vorrei chiedere quando, ma taccio. Dalla chitarra di Pete parte un’onda sonica che decapita in un solo colpo tre militari. Pete mi dice: «Argentini della dittatura, my friend. Senza scrupoli». Annuisco.

Alla mia sinistra, Muhammad Ali stacca teste letteralmente a cazzotti. I suoi pugni aumentano di forza e volume proporzionalmente alla diminuzione della distanza dal cranio che ancora non sa che a breve verrà separato dal collo che lo sorregge.

Pete Seeger e Muhammad Ali mi hanno preso subito sotto la loro protezione e capiamoci, sono loro molto grato, ma non mi sento comunque al sicuro, soprattutto per via del fatto che non capisco cosa stia succedendo. Intanto il treno continua a viaggiare, come se avesse una meta, sobbalza, cambia forma, mi meraviglio di non essere impazzito. La morte di Minà non ha aiutato la mia stabilità mentale. Dopo avergli strappato i baffi, i gerarchi di Salò lo hanno torturato per ore o quello che in questo treno sono sembrate ore. Si è protetto con la sua agenda finché ha potuto, ma senza l’aiuto degli amici non è riuscito a resistere molto ed è finito maciullato e infine sbranato dai cani. Mio malgrado, ho assistito a tutto questo nascosto sotto i sedili. Uno dei fascisti mi ha visto e mi ha sorriso, ho pensato di essere già morto, ma poi ha preferito continuare a torturare Minà, che peraltro era già andato da un pezzo o almeno aveva smesso di emettere suoni.

Il sacrificio di Gianni Minà mi ha donato la protezione di Ali e Pete. «Se eri amico di Gianni sei amico nostro» hanno detto. In realtà Gianni Minà me l’ha fatto conoscere mio padre; in questo momento mi pare lungimirante omettere il dettaglio di averlo visto vivo per pochi istanti della mia vita, del resto l’amicizia è un concetto ampio.

Mentre ricordo la morte atroce del povero Minà, una gragnuola di molotov piove poco oltre la mia testa. Il Ku Klux Klan, cristo dio. Ali perde la proverbiale calma e parte all’assalto. Lo spettacolo a modo suo è strabiliante. Un gigante di muscoli in pantaloncini, circondato dal fuoco, spacca ossa a un ritmo decisamente elevato perfino per questo treno. Anche Pete si è fermato per qualche istante a guardare. Decido di approfittarne e chiedo «Apprezzo moltissimo quello che state facendo per me, ma mi spiegheresti, in parole non troppo complesse, cosa sta succedendo?».

Scopro che Pete Seeger ha tante qualità, ma la sintesi non è tra queste. Inizia a parlare di come il sindacato ha fatto il possibile, poi ci infila dentro McCarthy, non ci capisco un cazzo. Però Ali riemerge dalla carneficina del Ku Klux Klan, comprensibilmente soddisfatto, e con molta dolcezza mi spiega: «Tu non dovresti essere qui, sei vivo. Questo è il Treno dell’Eterna Lotta tra il Bene e il Male, che è un nome del cazzo, lo so, ma si chiama così, poi ci si abitua, tra di noi lo chiamiamo Treno e basta. I buoni e i cattivi si incontrano su questo treno e si danno battaglia, a volte vinciamo noi, a volte vincono loro. Ultimamente più loro, ma oggi sembra essere una buona giornata. Il punto è che per stare qui devi essere morto. Come hai fatto a salire?».

«Mi sono distratto e ho sbagliato binario, mi sa».

«E mi sa pure a me. Ascolta, l’unica è saltare giù. Farà male, ma se resti qui finisci per morire. Come ti chiami?». In effetti non me l’aveva ancora chiesto nessuno. Altre priorità, è il caso di dire.

«Giovanni», rispondo.

«Ok, Joe. Ci serve una mano. Pete, chi c’è dei nostri qui vicino?».

«Nella carrozza sette c’è Cavallo Pazzo coi suoi».

«Questo è un colpo di fortuna. Di là è pieno di neonazisti greci e italiani. Se Cavallo Pazzo ci copre può funzionare. Dobbiamo superare i neonazisti, attraversare la carrozza successiva e poi c’è il Bagno Col Finestrino Aperto. Da lì devi saltare veloce, ragazzo. È l’unica speranza che hai. Non è detto che funzioni, ma di sicuro non funzionerà due volte».

Il carisma di Muhammad Ali funziona alla grande. È impossibile non credergli. Altro che saltare dal Finestrino Aperto, volerei giù dalle Cascate della Marmora se me lo chiedesse lui. E non so nuotare granché bene. Tutto sommato preferisco saltare in corsa da un treno magico, forse ho la speranza di rompermi solo qualcosa, nelle cascate non avrei nessuno scampo.

Resto con Pete a guardare i fuochi delle molotov spegnersi mentre Ali va a chiedere aiuto a Cavallo Pazzo. Pete non parla più, penso si sia offeso perché ha intuito che io e Ali lo consideriamo troppo verboso. Ha l’aria di quelli permalosissimi e da solo con lui non mi sento a mio agio. Spero che Ali torni presto. Oltretutto questa tregua mi puzza, è un po’ che non succede niente e anche il treno sembra essersi normalizzato. Per non sapere che fare provo ad avvicinarmi a un finestrino, Pete mi piazza la sua chitarra davanti.

«Mai guardare dal finestrino, little boy» mi dice con un sorriso nervoso.

«Perché?».

«Fuori c’è lo Spirito Del Tempo, my friend. E se ti avvicini diventi un ricordo o un’idea, se la tua vita è stata davvero grandiosa. Con tutto il rispetto, non mi pare il tuo caso. Fine della storia».

Pete è decisamente ancora offeso. Però continua a proteggermi con lealtà.

«Come mai non succede niente da un po’?».

«È l’eterna lotta tra il bene e il male, ma non si combatte sempre nello stesso vagone, per fortuna. Ci sono compagni e compagne che combattono altrove in questo momento, in altre carrozze. È il momento di tirare il fiato. Noi non dormiamo più, ma tu sei vivo, ora puoi farlo se vuoi. Ti sveglio io quando arriva Ali con Cavallo Pazzo. Ma li sentirai arrivare, non è gente che risparmia sul chiasso quella».

Il fatto che abbia ricominciato a parlare troppo mi tranquillizza e decido di ascoltare il suo consiglio. Dormire un po’ non mi farà male e ho idea che il riposo non sia molto frequente da queste parti. L’odore intorno a noi però non aiuta, c’è puzza di cadaveri e benzina. E poi l’immagine di Minà mi perseguita, ma chiudo gli occhi e in un attimo la stanchezza ha il sopravvento sui pensieri, sulla follia, sul terrore.

Mi sveglio e il treno è diventato enorme, non se ne vedono i confini. Davanti a me ci sono centinaia e centinaia di Sioux a cavallo. Quello che dev’essere Cavallo Pazzo sta parlando con Ali. C’è anche una donna con loro.

«Organizzano il piano d’attacco. Il problema non sono tanto i neonazisti, quelli li abbiamo già trucidati tante volte, il problema è che non sappiamo cosa c’è nella carrozza seguente, little boy».

Annuisco a Pete cercando di svegliarmi del tutto. È un incubo e tutto sta accadendo troppo velocemente. Sembra un film, forse è per questo che riesco a non crollare a terra e a urlare in preda al panico, che sarebbe la reazione umana giusta per chiunque e soprattutto per me, rifletto, che sono un ragazzo di sedici anni, non dico timido ma nemmeno dei più inclini all’avventura. Io volevo solo andare da Elisa e fare l’amore.

Ecco com’è iniziato tutto questo! Dovevo prendere il treno per raggiungere Elisa ed ero emozionato, ecco perché ho sbagliato binario. E mentre controllavo il telefono sperando mi avesse scritto, sono salito sul primo treno che è passato, tanto vanno tutti a Salerno, pensavo. Invece ero sul terzo binario, quello inutilizzato da decenni. Ecco cosa ho fatto. Però non spiega. Questo non spiega un cazzo.

«Little boy, te l’ho già detto, non è il momento di pensare troppo. Non avrai altre possibilità». Pete è agitato. Questo mi spaventa.

«Chi è la donna?», chiedo.

«Beata gioventù, little boy, quella è Rosa Luxemburg. È proprio un periodo di riflusso… Ma di che vi interessate voi giovani adesso?».

Trasalisco a questa domanda. Mi sembra di volere bene a Pete e mi aiuta e tutto il resto, gli sono grato, davvero. Ma è fuori dal mondo. Voi giovani? Erano mesi che non lo sentivo dire dal vivo.

Rosa e Ali vengono dalla nostra parte, Cavallo Pazzo resta a presidiare la carrozza dall’altro lato.

«Rosa ha piazzato delle bombe riuscendo a infiltrarsi nel prossimo vagone. Altre le abbiamo distribuite ai Sioux». Ali come al solito è chiaro e diretto. Mi chiedo come abbia fatto Rosa Luxemburg a entrare di là e quando. Non l’ho mai vista allontanarsi. Sento il ricordo della voce di Pete che mi dice di non farmi domande inutili.

«Il piano è semplice, quando sentite le esplosioni avanzate e aspettate davanti ai Sioux, di fianco a Cavallo Pazzo. Lui vi proteggerà se non lo fanno fuori prima», aggiunge Ali.

«E se è già morto?», chiedo.

«Cerca di non seguirlo, Joe. Balla finché c’è da ballare e colpisci quando è il momento», risponde Ali. Poi smette di guardarmi e va via.

«Il bello è che stanno ore a parlottare, a “pianificare”, senza mai consultarmi una volta. Il risultato sono piani strategici che non farebbe nemmeno un bambino». Pete Seeger è più permaloso di mio padre, non lo credevo possibile.

«Andiamo, little boy. Stammi vicino e non fare mosse eroiche».

Le esplosioni devastano il treno, la prateria che era diventata e le mie orecchie. Non sento un cazzo, vedo solo Pete muovere le labbra e indicare un punto col dito. Ci sono sangue e polvere ovunque. Andando avanti si fanno più numerosi i resti dei neonazisti, braccia divelte, pezzi di crani rasati, Pete sposta le carcasse più ingombranti con la sua chitarra sonica, me ne accorgo perché iniziano a volare. Noto anche che cerca di farne andare il più possibile fuori dal treno e capisco: lo Spirito Del Tempo. Vuole che non tornino.

Pete Improvvisamente si ferma e mi indica un punto a pochi metri con la chitarra. Continuo a non sentire niente, ma riconosco Rosa Luxemburg o quel che ne resta. Dev’essere saltata in aria per errore, penso.

Con molta lentezza, Pete scandisce le parole e mi permette di leggere il labiale: «Feltrinelli», dice. E mi indica un cranio con i baffi che non avevo notato. Pete scuote la testa, mi sembra che dica «Non è la persona giusta da cui comprare esplosivi, l’ho sempre detto». Vorrei obiettare che Feltrinelli è morto su un traliccio e che non risulta abbia mai consegnato esplosivi scadenti, ma non sono in grado di sostenere una conversazione.

Facendoci strada tra i Sioux arriviamo da Cavallo Pazzo. Ci guarda con un visibile fastidio. Realizzo per il primo momento che tutto questo, dal loro punto di vista, sta succedendo a causa mia e che rischiano la vita, o quel che è, per provare a salvare la mia. Forse inizio a sentire di nuovo qualcosa, mi pare di udire dei suoni. Se ne esco vivo la prossima volta prendo l’autobus.

Penso a Elisa e mi ricordo che ho ancora il telefono. Approfitto del momento di pausa per prenderlo. È acceso! Ero sicuro che l’avrei trovato distrutto, invece non ha neanche un graffio. Però nessun messaggio di Elisa.

«Perché cazzo non hai detto subito che hai un telefono?», Ali mi sbuca alle spalle – Cristo, non lo senti arrivare! – e sembra piuttosto incazzato o forse è il sangue di neonazista che lo ricopre a dargli quest’aria più truce.

«Come faceva a saperlo, my friend… Dovevamo pensarci noi.» Pete cerca di difendermi. Lo apprezzo molto, anche se non capisco a cosa dovrebbe servire il mio telefono.

«Little boy, hai internet su quell’affare o la mamma te l’ha bloccato?».

«C’è internet, certo, ho sedici anni. Non so se qui prende però…».

«Prende, prende. Dallo a me, Joe». Ali si prende il mio telefono prima che possa rispondere.

Mentre Ali armeggia, Pete mi spiega, con la solita abbondanza verbale, che sul Treno c’è un internet diverso e consultando il meteo si scoprono gli ospiti dei vagoni del treno, perché anche questo dipende dallo Spirito Del Tempo. Questo almeno è quello che ho capito, perché poi Pete ha divagato sulla distribuzione agroalimentare e non saprei proprio dire come ci è arrivato.

«Siamo fottuti, Pete. Stavolta siamo proprio fottuti. Ci serve l’agenda di Gianni. Bisogna tornare indietro», dice Ali.

«Forse non serve tornare indietro», dico senza pensare troppo. E tiro fuori dallo zaino di scuola l’agenda di Gianni Minà. «Mio padre è fissato con Minà, allora l’ho presa, non pensavo sarebbe più servita a nessuno». Divento paonazzo per essermi rivelato un ladro di cimeli, ma l’ho rubata, penso, per affetto.

«Piccolo bastardo ladruncolo, figlio di puttana, sei un cazzo di genio fortunato». Ali mi dà una pacca sul torace che mi fa provare la sensazione, nuovissima, del movimento dei miei organi interni.

«Bel colpo, little boy», dice Pete.

Ali ha in mano l’agenda senza che me ne sia accorto, «Di là abbiamo i pezzi grossi, sono cazzi acidi, ci serve tanto tanto aiuto».

«Chi c’è?», chiede Pete.

«Margaret Thatcher, Kissinger, Pinochet, Wojtila e Licio Gelli. Dev’essere una riunione di pezzi di merda o qualcosa del genere. Se ci sono loro, e già basterebbe, vuol dire che ci sono i servizi di mezzo mondo e i relativi eserciti».

Pete Seeger tira un bestemmione che mi lascia sorpreso. Non pensavo bestemmiasse.

«Spremi le meningi, Pete. Dobbiamo chiamare la gente giusta o ci lasciamo le penne», dice Ali.

«Della gente che conosco io sicuramente possiamo chiamare Violeta Parra, Victor Jara, loro si portano dietro tutto il partito, Allende compreso. Non lo capisco, Ali, lo sai che non lo capisco, ma Joe Strummer sa il fatto suo e porta tanta gente, saranno confusi ma hanno sempre fatto la loro parte. E le Madres de Plaza de Mayo, ci tengo, fanno il loro, le metti dietro e funzionano, non passa niente. Ah,e poi lo sai, arriverà Sinéad O’Connor, arriva sempre quando c’è il polacco».

«È giusto che arrivi e faccia quello che vuole. Ok, Pete. Gianni ha il numero dello Zio Ho, non credevo… Gianni è incredibile. Lo Zio Ho lo rivedo con grande piacere. Facciamo belle cose con i Vietcong e le Black Panther insieme». Ali sembra avere il controllo della situazione, qualunque sia. Continua a muovere tra le mani l’agenda di Minà e il mio telefono. Se non avesse fatto il pugile avrebbe potuto essere un prestigiatore.

«Se ho capito come funziona qui, ci sarebbe anche Lemebel», dico.

«Chi?», chiede Ali. Pete lo guarda manifestando la stessa sua ignoranza.

«Pedro Lemebel. Era uno scrittore cileno. Ha scritto un romanzo in cui Pinochet, insomma, si caca addosso. Me l’ha fatto leggere mio padre», provo a spiegare.

Alì cerca il nome di Pedro Lemebel sull’agenda di Minà e incredibilmente lo trova.

«Ok, Joe. Può funzionare, più siamo e meglio è, loro sono in parecchi. Cos’è, un intellettuale tuo padre, Joe?», chiede Ali.

«Veramente fa l’idraulico, però gli piace leggere…», rispondo.

«E tua madre? Che fa?».

«È morta», dico.

«Abbiamo un’ottima squadra, mi sembra», dice Pete, rompendo l’imbarazzo.

«Anche grazie a te, Joe, hai fatto un buon lavoro», dice Ali guardandomi con tenerezza.

«Cavallo Pazzo resta con noi?», chiede Pete.

«No, deve tornare a presidiare l’altra carrozza, ci ha fatto un piacere a venire qui ma non può restare. Forse i vietcong di Zio Ho sono pochi per tutta la melma umana che troveremo», dice Ali.

«Se Strummer si porta dietro i Sandinisti ce la possiamo fare. Questo Lemebel chi conosce, little boy?».

«La comunità queer cilena e altri scrittori, quel giro lì», dico. «Non lo direste, ma è gente anche dura», aggiungo.

«E sia», dice Ali. Pete annuisce. «Ce la possiamo fare, little boy», aggiunge Pete per tranquillizzarmi.

«Io vado a fare le telefonate, poi mangiamo qualcosa e ci prepariamo. Hai fame, Joe?», chiede Ali.

«Un po’, sì. Ma anche voi avete bisogno di mangiare?», chiedo perplesso.

«No, però ci piace farlo nei momenti di pausa».

Inizia ad arrivare un mucchio di gente, vietcong e sandinisti, soprattutto. Alla spicciolata arrivano i militanti del partito comunista cileno, guidati da Allende, Victor Jara, Violeta Parra, un sacco di ragazzini vietnamiti, cileni, nicaraguensi. La cosa mi turba un po’, ma cerco di non darlo a vedere. Il treno è un enorme giungla fatta di piante e palazzi, natura e città si confondono. Ormai sento bene tutto e c’è musica ovunque; la cosa incredibile è che si distinguono i singoli brani nonostante chiunque abbia uno strumento stia suonando contemporaneamente agli altri, non riesco a riconoscerli tutti ma qualcuno sì, mio padre mi ha spaccato le palle all’infinito con questa musica e alla fine ho imparato ad apprezzarla. Penso che le mie conoscenze musicali fuori moda non mi hanno aiutato molto con Elisa e mi incupisco, quando riconosco John Lennon. Vedo Ali che gli stringe la mano.

«Perché c’è John Lennon? Cosa c’entra qui, ora?», chiedo a Pete.

«Little boy, per qualche ragione che non ho ancora compreso bene, questa è diventata la battaglia campale e stanno arrivando tutti. Sei un ragazzo fortunato, tutti vogliono farti tornare indietro. Sarà dura, sicuramente anche dall’altra parte si stanno organizzando, ma qui hai tanti amici, compagni che non ti conoscono e ti vogliono bene lo stesso, com’è giusto tra compagni. Io ancora non ho capito come hai fatto ad arrivare qui, ma la lotta non sempre ha bisogno di essere compresa in ogni dettaglio. Però, little boy, per qualche ragione tu sei speciale e non ho capito perché, con tutto il rispetto. Da compagno a compagno, come sei arrivato qui? Perché stai facendo un casino, little boy».

«Mi sono sbagliato… Non l’ho fatto apposta. Ero distratto».

«Hey, little boy, non ti sto colpevolizzando. E poi voglio andare a cucinare. Ali sa fare solo il pollo fritto del Kentucky, lo mangio da quando sono morto, buono eh, ma tu mi capisci… Ragazzo, se capiamo perché sei qui ci può aiutare, ok? Ma devi dirlo tu, non ci sono altre strade. Lo devi sapere e lo devi dire tu. È il gioco che è fatto così, my friend».

«Ero distratto, è la verità…».

«Non abbiamo molto tempo, little boy, non è il momento di essere reticente. Qualsiasi sia il motivo è adesso che serve dirlo. La lotta è ora».

«Pensavo a una ragazza», dico sottovoce.

«Cosa?».

«Pensavo a una ragazza, a una mia amica, si chiama Elisa».

«Vedi che avevi voglia di parlarne anche tu! Ci voleva tanto? Ascolta, little boy, è importante, sei un bravo ragazzo ma devi svegliarti, ci hai aiutato ma noi stiamo aiutando te, qui tutti sono qui per te, ora è il momento di dire tutto quello che può esserci utile e l’amore è una di queste cose. Ci siamo passati tutti, parla. Ti dico di più, non me ne importa niente delle tue fidanzatine, ok? Ma l’amore è una forza importante qui dentro e se la possiamo usare, con un po’ di fortuna, farà la differenza».

«Non sono sicuro di aver capito», balbetto.

Nel frattempo, intorno a noi, continua ad arrivare gente, l’atmosfera è elettrica, Ali stringe l’agenda di Minà nel pugno sinistro e con la mano destra telefona, è irrefrenabile, sembra danzare. E all’improvviso un boato. Dalla carrozza successiva, quella che dobbiamo attraversare perché dopo c’è il Bagno Col Finestrino Aperto, arriva il rumore assordante delle bombe. Il treno cambia. Pete bestemmia di nuovo.

«Cazzo, ero pronto per cucinare», dice. E scarica un’onda sonica su un cadavere di un neonazista vicino, trasformandolo in coriandoli.

Il treno si trasforma di nuovo davanti ai miei occhi, Pete non sembra farci caso. Ora è una sala enorme, con un palco. Nel frattempo le esplosioni non cessano di scuotere i confini di quello che ci sta accadendo. Per qualche ragione strana non ho paura.

«Siamo dalla tua parte. E tu dalla nostra, little boy», dice Pete.

Quest’uomo è un boomer fatto e finito ma mi legge nel pensiero e a modo suo mi vuole bene. Anche se ci conosciamo da poco, sento di volergliene anch’io.

«Ascolta quello che dicono, è il piano che dovremo seguire. Se ti concentri riesci a sentire. Se non capisci dimmelo, metto una cassa elettrica. Se capisci senza è meglio, quando passano dai fili le parole cambiano, non sono più le stesse, little boy. Di più stavolta non so dirti. Ma sono dei nostri e tanto basta. A volte bisogna fidarsi e basta».

Pete ha ragione, se mi concentro posso ascoltare tutto e capisco che sul palco ci sono le femministe. Hanno preso il comando delle operazioni. Non pensavo che Ali avrebbe ceduto il potere tanto facilmente, invece è sotto il palco che applaude, circondato dalle compagne e dai compagni delle Black Panther. Tra le femministe riconosco solo Virginia Woolf, il resto sono volti sconosciuti e me ne dispiace. Ancora una volta, Pete mi legge nel pensiero e inizia a snocciolare nomi e biografie, Gloria Anzaldúa, bell hooks, Nina Simone, ha iniziato a parlare velocissimo e non capisco che una minima parte di quello che dice. Quando se ne accorge, mi guarda con quella sua benevolenza un po’ paternalista e poi si rende conto di aver lasciato in sospeso il discorso, qualunque esso sia, sulla mia presenza qui, su Elisa, sul perché dovrei essere importante.

«Little boy, e insomma, questa ragazza, mi dicevi che siete fidanzati?».

«Veramente no. Insomma, mi piacerebbe…», farfuglio.

«Ma lei lo sa? Ti sei dichiarato?».

«Sì. Oddio, dichiarato… Non si fa più così. Ma lo sa. Le ho scritto una mail. Dovevamo vederci per parlare», rispondo.

«Se ha accettato di parlarne hai buone possibilità, my friend. Esci da qui e vedrai che funzionerà».

L’ottimismo di Pete di solito è contagioso, ma invece mi smuove una certa rabbia. Mi sembra di parlare con mio padre, cristo santo.

«Non lo so, lei è bellissima, è intelligente, spiritosa, non lo so…».

«Il tuo è un amore puro da ragazzo, avevo dimenticato com’è. Sempre qui a combattere, non viene facile pensare all’amore. Forse è per questo che sei qui, little boy, per ricordare a tutti che la lotta si fa per amore e sempre l’abbiamo fatta per amore, amore per le persone, per la libertà, per la giustizia, amore fisico e amore spirituale. Sì, tu devi essere qui per questo, non c’è altra spiegazione. E le compagne e i compagni l’hanno sentito, ecco perché accorrono da tutte le carrozze».

Mi sembra la più grossa boomerata mai sentita, ma evito di dirlo. Pete ci crede davvero, si è quasi commosso.

«Fatti abbracciare, little boy», dice con la voce rotta.

E in effetti mi abbraccia. Non ho la forza di restituirgli l’abbraccio e resto fermo in attesa che tolga le sue braccia dal mio corpo. La chitarra gli scivola e mi prende dritto un piede, questo per fortuna lo distoglie dal continuare ad abbracciarmi e a scompigliarmi i capelli.

Vedo Lemebel salire sul palco e raggiungere le femministe. Da ogni carrozza arrivano compagne, compagni e di nuovo frotte di ragazzini e ragazzine. Intorno a me ci sono migliaia di persone, il treno somiglia più a una stazione in cui è stato piazzato un palco enorme, come per un concerto, eppure si distinguono in lontananza i confini del vagone. Noto che dietro il palco, dove immagino ci sia il collegamento con la carrozza successiva, si sta alzando del fumo e lo faccio presente a Pete che si butta a terra trascinandomi sotto di lui. Un attimo dopo l’esplosione è la più roboante che abbia mai sentito, mi sconquassa i pensieri. Vedo corpi volare, la carrozza aprirsi e richiudersi di continuo e corpi inermi venire trascinati dallo Spirito Del Tempo.

Pete mi fa segno di strisciare lontano dagli squarci. In qualche modo arriviamo sotto quel che resta del palco.

«Hanno fatto saltare tutto, maledetti figli di puttana». Ali c’è ancora. Senza un graffio.

La battaglia infuria. Intorno a me le luci che partono dagli occhi delle femministe sopravvissute creano delle tracce che permettono di vedere qualcosa, perché la confusione è totale; sembrano lucciole con la forza propulsiva di razzi spaziali.

Vorrei alzarmi, ma Pete mi fa segno di restare sdraiato, poi indica un punto alla mia sinistra, vedo Ali accovacciato che parla con alcune altre persone e capisco che io e Pete dobbiamo aspettare che si costituisca una squadra.

Per pura fortuna mi accorgo che invece alla mia destra si avvicina un gruppo di carabinieri, li riconosco dalla divisa. Mi guardo intorno e mi rendo conto che gli sbirri di diversi paesi ci stanno circondando. Faccio segno a Pete che si mette male e parte una mitragliata di onde soniche che fa una carneficina.

«Ali! Qui non si resiste ancora per molto. Dobbiamo andare», dice Pete. È sudato. Non riesco a capire quale logica seguano qui le funzioni biologiche. Perché un morto suda? Eppure è fradicio. Io sono coperto di polvere e pezzi di cadavere.

Le luci delle femministe aprono squarci di luce e una viene verso di noi. È Virginia Woolf. Si muove con una lentezza esasperante data la situazione in cui ci troviamo, per cui io e Pete ci avviciniamo a lei e la portiamo al sicuro sotto i resti del palco che ci hanno protetto finora.

«Dovrete seguire il percorso che vi indicherò. Seguendo il flusso arriveremo al Bagno Col Finestrino Aperto. Seguite il flusso», ci dice, prima di sedersi, immobile, come una statua di cera.

Guardo Pete perplesso e vedo che assume l’espressione di una delle sue tirate logorroiche, poi però si rende conto che il momento richiede un approccio più diretto e urla «Ali! Questa squadra?».

«Arriviamo. Tenetevi pronti!», risponde.

Le presentazioni sono velocissime. Ali si carica Virginia Woolf sulle spalle e si piazza in cima al piccolo gruppo, insieme a due tizi pelati, ognuno con un pallone da calcio in mano.

Subito dietro di loro ci posizioniamo io e Pete. In fondo le Black Panther guidate da Agnès Varda. I tizi con i palloni dribblano e calciano, dribblano e calciano, i palloni ricompaiono come per magia incollati ai loro piedi e ogni calcio scoccato è una bomba che ci apre la strada esattamente lì dove Virginia Woolf indica con la luce dei suoi occhi, luce che ha iniziato a cambiare colore a intervalli irregolari, dal verde al blu, dal giallo al bianco, poi rosso, di nuovo blu. Ali si gira verso me e Pete: «Dobbiamo accelerare. Qui perdiamo stabilità», e con una mano fa segno verso Virginia seduta sulle sue spalle. I due pelati partono con una corsa fulminea, scambiandosi posizioni e decine di palloni a una velocità che rende indistinguibili i movimenti. Iniziamo a correre tutti avanzando rapidi nello spazio creato dalle esplosioni dei palloni. Intorno a me tutto cambia. Compagni e compagne delle Black Panther cadono sotto i colpi della sbirraglia mondiale, ma c’è sempre qualcuno a prendere il posto dei caduti, cerco di distinguere chi mi sta aiutando per avere degli appigli mentali a cui aggrapparmi mentre avanzo senza capire davvero cosa stia succedendo, ma non riconosco nessuno; dall’abbigliamento mi pare di intuire ci siano dei partigiani, una donna con una pistola mi sembra Gerda Taro, ma è tutto troppo veloce. Improvvisamente tutto è fermo, l’intero scenario è congelato. Di nuovo, non capisco.

«Non durerà, little boy, dobbiamo arrivare al Bagno adesso», mi dice Pete trafelato.

Approfitto della situazione per provare a capire qualcosa e per la prima volta vedo Ali stanco e sudato. Pete è del tutto in riserva, la camicia a quadri è uno straccio di sudore e mi accorgo che è ferito a un braccio.

«Cosa è successo?», chiedo preoccupato.

«Guarda in alto».

Calato da fili appesi al tetto della carrozza, Marcel Marceau ha fermato il tempo con le mani.

«Andiamo», dice Pete.

«Sai suonare, my friend?», aggiunge.

«No, non ho mai imparato», dico mortificato.

«Muovi le corde più forte che puoi. Non sono in grado di suonare in questo stato. Mi tapperò le orecchie per non sentire», mi sorride, si sfila la chitarra a tracolla e me la passa.

«Forza, Joe!», urla Ali allo stremo delle forze.

Avanziamo e davanti si spalanca un quadro terrificante. Pezzi di corpi bloccati nel mezzo del percorso della loro caduta gravitazionale, ovunque i volti raccapriccianti resi mostruosi dall’odio fascista.

Su un balcone alla fine della carrozza ci sono Wojtila, Kissinger, Thatcher, Pinochet, Gelli, Salazar, altri che non riconosco e una quantità di ciurmaglia in divisa che fa impressione. Sono immobili e spaventosi. Dopo il rumore assordante della battaglia, questo silenzio mi coglie impreparato.

Pete sanguina dal braccio e mi sento in colpa perché è per me che è qui e perché continuo a chiedermi come fa un morto a sanguinare. Eppure non dovrebbe stupirmi più niente, è già successo di tutto, ho visto un treno fantasma, e già basterebbe, diventare una prateria campo di battaglia degli indiani Sioux. Penso troppo. Non c’è più Pete a ricordarmelo, anche se è qui di fianco a me.

«Il tempo è finito. Il mimo è caduto. Giovanni, pensa alle persone che ami e la luce durerà più a lungo». Virginia Woolf si blocca mentre pronuncia queste parole con un tono che non è solo flebile, è spettrale. Sono circondato da persone morte, ma finora non avevo mai avuto la sensazione di ascoltare una voce dall’oltretomba. Forse è un’oracola. Dev’essere un’oracola. Questo spiega la voce. Ma come cazzo fa a sapere il mio nome? Nel momento in cui sono immerso in questi pensieri – penso troppo e non c’è più Pete a dirmi di non farlo – Virginia Woolf lascia partire una scarica di luce bianca dagli occhi di tale potenza da abbagliare chiunque. Non vedo più niente e mi sento sollevare di peso. Per la prima volta urlo di paura.

«Sono io, Joe. Tranquillo. Sono io. Sono abituato a combattere senza vedere. So dov’è il Finestrino. Quando ti dico lascia, lasciami il braccio e ti lancio. Copriti la testa. Hai capito, Joe?».

Santo Muhammad Ali. Mugugno di sì, ho capito cosa fare.

«Suona, little boy, verso l’alto. Se vi sento riesco a seguirvi. Così posso coprirvi le spalle. Verso l’alto, altrimenti mi riempi di buchi».

Inizio a pizzicare le corde della chitarra di Pete producendo suoni senza senso, ma in qualche modo funziona perché avanziamo e sento che Pete è dietro di noi che bestemmia a ogni passo, protestando perché non so suonare, perché non vede, per il braccio ferito. È stanco e ha iniziato a lamentarsi.

Piano piano ricomincio a vedere delle sagome e questo significa che può farlo chiunque.

«Ricomincio a vedere qualcosa. Se vedo io vedono tutti», dico ad Ali.

«Ci siamo, Joe. Lascia!».

Ali mi lancia dal Finestrino, non mi ero accorto che fossimo arrivati al Bagno Col Finestrino Aperto. Mi volto per salutare con lo sguardo Pete e vedo partire e arrivare il colpo. Vedo Pete che muore colpito alle spalle. La realtà mi risucchia a sé e faccio solo in tempo a sentire Ali che urla: «Senatore McCarthy, sporco traditore bugiardo fascista».

Un tonfo. Spero sia la testa di McCarthy che si stacca dal collo e mi ritrovo a sbattere contro il muretto della banchina della stazione. Ce l’ho fatta. Ce l’abbiamo fatta.

Non riesco ad alzarmi però, ho male ovunque. Con fatica apro gli occhi e ritrovo il mio piccolo schifoso paese.

«Little boy, sei un ragazzo fortunato».

È la voce di Pete, ma non c’è nessuno intorno a me. E dove cazzo sono se c’è Pete?

«Tranquillo, my friend. C’è un momento, quando muori sul Treno, che sei sia di qua che di là. Sul Treno si muore di continuo, non ci crederai ma qualche volta è morto anche Ali. Poi l’eterna lotta tra il bene e il male ricomincia, se si può dire che si fermi. Sto per tornare di là. E riavrò anche una chitarra nuova. Questa tienila tu. Qui è una chitarra normale, per quanto possa essere normale una chitarra, se capisci cosa intendo. Impara a suonarla, little boy, perché sei messo proprio male».

Sento dolore in punti del corpo che non sapevo neppure di avere e non riesco a mettermi seduto se non contorcendomi. Pensare è ancora più difficile. Riesco a dire: «Grazie».

«È stata una bella battaglia, little boy. Era un po’ che non se ne vedeva una così, con tanti compagni e compagne. È successo grazie a te. Se te lo stai chiedendo, abbiamo vinto e non soltanto perché sei qui sano e salvo. Ne abbiamo spediti diversi nello Spirito Del Tempo e da lì non si torna più indietro. È stata una grande battaglia. Mi dispiace per l’agenda di Gianni, è troppo importante per noi, devi dire a tuo padre che serve per una causa più grande. Hey, little boy, dev’essere una brava persona tuo padre».

La voce di Pete scompare e resto da solo. La chitarra ha un buco grosso come una pesca, ma forse si può riparare. Devo mandare un messaggio a Elisa, non posso andare da nessuna parte ora come ora. E devo telefonare a mio padre. Mi rendo conto che non so nemmeno quanto tempo è passato davvero. Con una  certa fatica guardo il telefono ed è trascorso solo il tempo che sono rimasto qui sdraiato. Non mi serve la chitarra per sapere che è successo davvero, che sono stato sul Treno, ma la chitarra c’è.

Devo alzarmi, la gente inizia a guardarmi.

Non so ancora come, ma devo trovare il modo di raccontare questa storia1.


YGRAMUL è una rubrica curata da Vargas.
Per leggere di più.


Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?


  1. Alla battaglia eterna e feroce di questo racconto hanno partecipato moltissime persone non citate esplicitamente. Mi sembra doveroso fare loro menzione, affinché il loro contributo contro i fascismi, il patriarcato e la società capitalista venga ricordato almeno qui. Per quello che vale, senza paura di essere retorico, consiglio almeno la lettura delle loro biografie. Se è possibile, coscienza vostra, fare un approfondimento teorico e quando è possibile pratico, la lotta, che siamo noi, ve ne sarà grata.
    In ordine assolutamente e volutamente sparso, perché non esiste gerarchia:
    Huey Newton; Sylvia Rivera; Marsha P. Johnson; Rachel Carson; Carlo Giuliani; Sole e Baleno; George Jackson; Jean Vigo; Claudette Colvin; James Baldwin; Ursula Le Guin; Tommie Smith; John Carlos; Peter Norman; Johann Trollmann; Graham Chapman; Tupac Shakur; Fela Kuti; Kenule Beeson Saro-Wiwa detto Ken; Fred Hampton; Pietro Ingrao; Bud Powell; Demetrio Stratos; Rosa Parks; Tatanka Iyotake detto Toro Seduto; Charlie Mingus; Massimo Troisi; Charlie Chaplin. I due “pelati” sono Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano.
    Ci sarebbero evidentemente molte altre persone, migliaia, migliaia davvero e anche di più, da citare e ricordare, ma questo è solo un racconto. Ognun* si prenda la responsabilità di continuare a cercare, io prenderò la mia (N.d.A.) ↩︎

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