Cronopios verdi fritti

di Graziana Patanè
copertina di Daria Pesce


Che mio marito fosse un tipo anomalo, lo capii sin dalla prima occhiata quando, con caffè e croissant tra le mani, cercando un tavolino libero, vidi la sua testa. I capelli mi ricordarono una nuvola, ma di lana. Lana nera, non cardata. Era chino su un album da disegno che teneva poggiato sulle gambe, reclinato. La parte posteriore dell’album sfiorava il tavolino. Più che disegnare, dava l’idea di stare scarabocchiando qualcosa, tanto era frenetico il movimento della mano. Gli passai accanto, il suo viso nascosto. Non alzò gli occhi dal foglio. Come avrei mai potuto immaginare che proprio lui sarebbe un giorno diventato mio marito? Non solo perché in quel momento era uno sconosciuto, ma soprattutto perché io, di matrimonio, mi ero sempre rifiutata di sentir parlare. Volevo tenermi alla larga dall’annoiante abitudine quotidiana, dagli ancor più noiosi litigi, screzi, battibecchi e ancora più lontana da regole, permessi, imposizioni derivanti dall’altro o che noi diamo, talvolta persino in maniera inconsapevole, alla persona che abbiamo accanto. Limitazioni, controlli, spiegazioni, rinunce: tutto questo non faceva per me. Non che tutti i matrimoni debbano essere così, ma se si sceglie male lo sono e io, nel dubbio, preferivo non prendere neppure in considerazione tale ipotesi. Perché poi, in fondo, cosa mi mancava? Niente, difatti vivevo benissimo senza matrimonio.

Mangiavo il croissant, attenta a non farmi gocciolare addosso la crema di gianduia. Quella crema era uno dei motivi per cui, da quattro anni, andavo in quel bar una volta a settimana, il sabato mattina. Il secondo perché era vicino casa. Essendo distante dal centro, non era mai affollato, questo il terzo motivo. Il disegnatore, là, non ce lo avevo mai visto. Ciò che disegnava doveva già essere contenuto nella sua mente perché non alzò mai lo sguardo dal foglio. Bevvi il caffè ormai freddo, raccolsi le briciole all’interno del piattino e mi alzai per posare tutto sul bancone accanto all’uscita. Fu allora che lui fermò lo scarabocchio.

«Sai che in colonie molto numerose di ratti, specialmente se vivono in spazi ristretti, la presenza di materiali collosi può far aderire le loro code? Se provano a liberarsi, si impigliano sempre più, peggiorando la situazione. Impigliati, muoiono.»

Aveva gli occhi grigi. Talvolta sono grigi tutt’ora.

«Il più grande è conservato in Germania, trentadue ratti» dissi.

«Altenburg, Museum Maritimum» confermò. Come faceva a ricordare non solo la città, ma persino il nome del museo? Io non ricordavo né l’uno né l’altro. Poi abbassò gli occhi sull’album, lo chiuse, si mise in piedi e andò verso l’uscita senza neppure più guardarmi. Mi chiesi che problemi avesse quel tizio e soprattutto quali fossero i miei visto che, dopo essere rimasta immobile per un attimo, corsi al bancone, poggiai tazzina e piattino e mi misi in fila alla cassa. L’anziano davanti pronosticò a Miriam, la cassiera, l’arrivo del maltempo entro le prossime dodici ore. Il suo ginocchio destro era sempre accurato.

Quando fui fuori trovai solo un tiepido sole di ottobre, ma dello sconosciuto neppure l’ombra. Perché non pagavo mai prima, subito, alla consegna del cibo o addirittura in anticipo?

Feci un salto al supermercato, ma rientrata a casa cercai l’immagine del Re dei trentadue ratti. Aveva sbagliato il nome del museo. Un re topo con scettro, corona e mantello viola seduto su un trono fatto di code intrecciate mi visitò di notte. I miei capelli finirono legati alle code.

Tornai al bar l’indomani, anche se non andavo mai la domenica, ma del disegnatore nessuna traccia.

«Ieri c’era un tizio con un album da disegno» dissi pagando, stavolta prima di sedermi.

«Ieri? Boh, non ci ho fatto caso» rispose Miriam. «Perché?»

«Niente.»

Tornai nel mio appartamento: pioveva. E gli incontri vanno rimandati al caso.

Che cosa ero venuta a fare io sul Ponte di Mezzo? Quel giovedì di dicembre fu un racconto a spingermi fuori, un mio personaggio che non voleva rivelarmi chi fosse. Era rimasto per tutto il giorno un’immagine davanti a uno specchio, sette righe appena su un foglio bianco che non riuscivo a cancellare e a cui non riuscivo ad aggiungere nulla e alla fine avevo deciso di lasciare tutto com’era e uscire quasi che le strade mi potessero rivelare la vita di quell’uomo. Finii con i gomiti appoggiati al ponte, vedendo passare un ramo nero che, bagnato, riluceva come uno stercorario in quella luce morente, ma quando alzai gli occhi e li sollevai sul lungarno alla mia destra seppi che quel giro aveva avuto un senso. Era là, seduto sulla spalletta con l’album in mano.

«Il nome del museo era sbagliato» gli dissi quando gli fui vicina.

Aveva uno stelo d’erba in un angolo della bocca.

«Lo so» disse richiudendo l’album e sfilando lo stelo.

Ci siamo sposati su un prato in una notte di luna piena. Era luglio e un assiolo lontano ci rivolse la domanda. Il frinire delle cicale fu testimone della nostra risposta. Del bouquet di lavanda mi restarono solo i gambi e qualche petalo addosso. Da quella notte abbiamo cominciato a vivere insieme.

Spesso la mattina il suo posto è vuoto. Guardo allora sotto al letto. Quante volte l’ho trovato laggiù intento a masticare i miei incubi e sogni che di notte filtrano attraverso il materasso?

«Era un po’ disgustoso» mi disse la volta in cui fu costretto a far colazione con il demone alato che aveva attraversato la finestra con l’intenzione di rapirmi. Mi ero spostata prima che i suoi artigli riuscissero ad afferrarmi e la creatura era rimasta impigliata tra le lenzuola. Dopo essersi dibattuta un po’, era stata risucchiata dal materasso. Doveva poi esser gocciolata a terra, perché lui l’aveva trovata là. «Sapeva di ditteri e uova marce. L’odore, non ti dico, tale e quale al casu marzu» mi disse quando riebbe i suoi occhi grigi.

«Scusami».

«Un po’ di variazione nella dieta ci sta. Anche se questo demone era proprio pessimo. Magari era già scaduto».

«Vuoi dei fermenti lattici?»

La mia domanda quasi lo offese.

«Mai avuto problemi a digerire mostri, io! Per chi mi hai preso? Però preferisco i sogni».

Con che gioia ruminò il mio viaggio a Orplid! Ad oggi credo che sia il pasto che gli è piaciuto di più. Ogni tanto me lo ricorda.

«Se tu potessi andarci di nuovo».

Vorrei anche io poter tornare a immergermi nel lago nero, salire sul ponte che nasce al suo interno, percorrerlo per bagnarmi nell’altro lago a cui è collegato. Nuotare per emergere sull’altra sponda, seguire il sentiero fino al vulcano spento. Entrare dentro Orplid, la città nascosta, con le sue maioliche colorate e i grattacieli di vetro sui cui lati sbucano altri grattacieli paralleli al terreno. Vorrei anche io ripercorrere le sue strade disabitate lungo i cui bordi crescono alberi carichi di pietre preziose.

Quella volta lui ruminò il sogno per un giorno intero, facendoci colazione, pranzo e cena.

«Era la stessa città, ma ogni boccone sprigionava un sapore diverso» mi disse la sera prima di dormire.

Erano i primi giorni di maggio, il maggio successivo alla mia passeggiata fino al ponte, quando mi invitò all’orto botanico. In quei mesi fu sempre lui a decidere luoghi e orari dei nostri incontri. Talvolta, invece, scompariva per diversi giorni e quando già pensavo che non lo avrei più rivisto, uscivo a cercarlo tra la gente. A volte mi occorrevano due o tre giorni prima di vederlo seduto su una panchina all’interno di un parco o davanti a un dipinto in una mostra appena inaugurata o dentro l’autobus che prendevo per tornare a casa, stanca di tutto quel vagare, e mi sedevo al suo fianco, nel posto libero accanto a lui, contenta di averlo ritrovato.

Camminammo dentro l’orto botanico, percorrendo l’Orto del Cedro, perché i nomi, come i libri, restano a raccontare le cose che sono state un tempo, l’albero sradicato da una tempesta nel 1935, tra ortensie e camelie, fino a un boschetto di bambù; attraversammo l’Orto del Mirto muovendoci tra piante officinali e guardammo insieme dentro una vasca, immaginando l’essere prodigioso all’interno. Una mano squamosa affiorò dall’acqua e lo tirai indietro, ma era solo del muschio acquatico che doveva essersi staccato dal fondo e ci venne da ridere per quella coincidenza e per la mia paura. Entrammo poi nelle Serre, aggirandoci guardinghi tra i cactus, muovendoci nel tepore umido tra i reni penduli delle aristolochie, il cui effetto contro i morsi di serpente fu scoperto in sogno, sbucando nel piazzale Arcangeli. Qua mi indicò un punto nel cielo, là dove terminava la chioma della Jubaea, la palma cilena, dal cui tronco mi disse che era possibile estrarre uno sciroppo denso. Proseguimmo ancora per riposarci sulla panchina di una delle montagnole dell’Orto del Gratta, per poi riprendere verso il limite estremo, l’Orto Nuovo.

«Guarda» mi disse.

Radici nodose affioranti dal terreno si univano in un tronco breve e tozzo per dividersi di nuovo in rami.

«Fitolacca dioica. Sembra un albero, vero?» Poggiò una mano sul tronco, dandomi le spalle. «Questo non è legno. La fitolacca non lignifica. È fibrosa, non contiene neppure gli anelli, la si può tagliare facilmente. È una pianta che vuole sembrare albero». Si girò verso di me. «E se ti dicessi che anche io non sono ciò che sembro?»

«Ecco, dovevo sospettarlo che c’era dietro qualcosa in quella storia del Re dei ratti. Per non rischiare di morire mi sa che ci conviene tenerci alla larga da elementi collosi. E dagli ambienti stretti e affollati».

Sorrise.

«Dunque non avresti problemi se fossi un ratto?»

«Dovrei comprare un piffero e seguire qualche corso. Secondo te esistono corsi per pifferai?»

«Per poi farmi annegare?»

«Ma no! Suonerei soltanto perché tu mi venga dietro».

«E se fossi un animale diverso?»

«Devi dirmi che sei un ragno? Una cimice? Così su due piedi, a vederti cimice o ragno forse sarei turbata, avrei bisogno di un po’ di tempo per abituarmi, ma sapendo che sei tu…»

Mi fermai perché la nuvola nera aveva preso ad allungarsi. Raggiunte le spalle la vidi strisciare fino ad avvolgere tutto il suo corpo. Lui si mise in ginocchio, poggiò le mani sulla terra. Le gambe cominciarono ad accorciarsi, mentre sulla testa presero a crescere due escrescenze. Comparvero due corna, mentre due pupille rettangolari si fissarono su di me.

«Bèe».

Era una capra lanosa e nera.

La vita con una capra riserva molte sorprese. Tipo quella volta, qualche giorno dopo il nostro matrimonio officiato dall’assiolo, in cui non lo trovai più dentro casa.

«Sarà andato a fare un giro» mi dissi seppure, visto il caldo che c’era quel giorno, mi sembrasse una cosa insensata. Una cosa da lui, per l’appunto. Mi sedetti al computer a finire un racconto, anche se avrei dovuto andare al supermercato dato che in casa, a parte del riso e della pasta, non era rimasto nulla. Sudando da ferma, passò l’ora di pranzo senza che avessi mangiato. Solo nel tardo pomeriggio decisi di preparare qualcosa. Pur sapendo che il frigo era vuoto lo aprii ugualmente sperando, non so neppure io, se in un ortaggio dimenticato o in un qualche genio, provvisto di telepatia e buoncuore, che avesse esaudito il mio desiderio inespresso. Lo ritrovai dentro al frigo, sotto forma di capra, mezzo ibernato. C’era entrato per trovare refrigerio, solo che s’era addormentato e al risveglio non era più riuscito a muoversi per quanto era intirizzito. Sono andata immediatamente a comprargli un ventilatore.

Una mattina, aprendo gli occhi, l’ho trovato con le quattro zampe sul soffitto. Mi spiegò che stava a testa in giù per cercare di capire cosa si prova a essere lampadario. Visto che trova un po’ difficile immedesimarsi, ripete l’esperimento una volta a settimana. Un giorno l’iridescenza di una Cetonia aurata che aveva pensato bene di fare un volo nella stanza lo ha distratto, s’è dimenticato di dov’era ed è franato sulla testa. Per qualche tempo ha avuto un bel bernoccolo tra le due corna.

Il problema principale però, per lui capra, è il cibo. Si nutre di sogni, cosa che mi costringe a impegnarmi in un’intensa attività onirica. Ma talvolta, per quanti buoni propositi io abbia prima di mettermi a letto, non trova nulla sotto al materasso. In quei giorni mangia libri, dice che solo là, nei libri e nei sogni riesce a trovare le proprietà nutritive di cui ha bisogno. Rumina quindi due o tre pagine e resta sazio fino all’ora di pranzo. Ma all’inizio della nostra vita insieme abbiamo avuto un litigio proprio per questo motivo. Non sapevo ancora di questa sua necessità, s’era dimenticato di parlarmene. M’ero messa a leggere in un modo nuovo un libro dalle infinite letture possibili quand’ecco che, decidendo quella volta di passare dal capitolo 41 al capitolo 93 perché così mi andava, non trovai quest’ultimo capitolo. Scorsi tutto il libro secondo l’ordine naturale dei numeri. 1, 2, 3. Fino al 90 c’erano tutti. E poi 91, 92. 94. Neanche dopo trovai traccia del 93.

Corsi da lui con il libro in mano. Per mia fortuna in quel momento aveva sembianze umane, eravamo ancora all’inizio e non avevo fatto orecchio all’intonazione di tutti i suoi belati, cosa che rendeva difficile il nostro intenderci.

«È scomparso un capitolo! L’ho cercato dappertutto, ma non c’è!»

Alzò gli occhi dal suo album da disegno e diede un’occhiata alla copertina.

«Credo di averlo mangiato io tre giorni fa».

«Tu cosa?»

«L’ho strappato per bene, facendo attenzione a non lasciare margini o lembi, speravo non te ne accorgessi. È che non c’erano sogni disponibili quella mattina. Neppure incubi».

«E hai mangiato le pagine di questo libro?»

«Dà un ottimo apporto di vitamine e sali minerali, oltre a essere squisito».

«Hai mangiato il mio libro! Questo libro! Dov’è l’assiolo che ci ha sposati? Voglio l’annullamento o il divorzio o quel che è!»

Gli voltai le spalle, andai a vestirmi e uscii di casa. Tornai quattro ore dopo portando una nuova copia del libro.

«Tieni, questo è il tuo».

Da quel momento compro sempre una duplice copia, una per le mie letture, una per i suoi pasti. Tranne che dei cronopios. Di quelli ne abbiamo un centinaio di copie perché le usa come snack.

«Non ti faranno male tutti questi cronopios?» gli chiedo ogni tanto.

Gli piacciono in tutte le salse. Una domenica mi è venuta l’idea di fargli un po’ di cronopios verdi fritti. Dopo averli assaggiati, si è messo a belare di gioia. Mi ha fatto tenerezza la sua commovente allegria e da quel giorno gli friggo un po’ di cronopios tutte le domeniche. E devo dire che non sono nient’affatto male. Settimana scorsa gli ho preparato una lasagna di miei racconti, per mia fortuna ha apprezzato.

La maggior parte del tempo la passa ormai da capra, dice che si sente più a suo agio così. Credo sia così perché quella è la sua vera natura. Ormai ho imparato a riconoscere i diversi belati e non abbiamo più problemi di comunicazione. Adesso, quando è un essere umano passa il suo tempo a costruire vasi. Vasi di legno, che quindi non sono vasi perché dentro non ci si può mettere l’acqua. Era ciò che disegnava sempre, su tutti i fogli. Un’ossessione per i contenitori. Al duecento milionesimo vaso disegnato gli ho chiesto se, prima o poi, avrebbe avuto anche l’intenzione di portarli fuori da quei fogli. Ora è là, con un pennarello in mano, a disegnare un cerchio nel corpo del vaso che poi segherà via. Un foro, un passaggio. Un’altra ossessione che ha. Si dimenticherà sicuramente di essere ricoperto di trucioli e ritornerà capra con quelli addosso. Mi toccherà spazzolarlo  per non rischiare che li sparga sul pavimento. Qualche truciolo finirebbe di certo sotto al letto, mischiandosi coi sogni e a lui verrebbe il mal di pancia, come è già successo. Il suo stomaco digerisce demoni e mostri, ma coi trucioli ha qualche problema.


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