Un pomeriggio di luglio in cui si era alzato il vento

di Linda Farata
copertina di Alisa Lutchenkova


Arrivai fradicia a casa sua, con giusto il segno asciutto del sellino sul sedere. Ad aprire fu la badante che sorrideva sempre; mi lasciò sulla porta mentre cercava degli asciugamani in bagno. L’ingresso della casa dava direttamente sulla cucina, con il frigorifero rosso che vibrava in un angolo e tre uova su un piatto che non capivo se fossero crude o sode. Magari un giorno mi sarei svegliata qui e avremmo fatto colazione insieme. Non credo fosse un tipo da cereali; l’avrei visto meglio con un toast al prosciutto e formaggio, o uno yogurt alla frutta dentro un vasetto di vetro. La badante tornò indietro con un asciugamano grigio e un paio di ciabatte d’albergo, ancora avvolte nella plastica. Sistemò le scarpe bagnate sul balcone e mi guardò mentre asciugavo le braccia. Tutto il tempo sorrideva serena. Quando mi chiese se volessi mettere anche lo zaino sul balcone, mi ricordai del raccoglitore. La pioggia aveva raggiunto la carta e sciolto l’inchiostro in diversi punti, macchie bluastre si aprivano tra le file asserragliate delle parole.

Era l’estate in cui gli avevo detto che mi ero innamorata di lui. Me la ricordo perché l’avevo passata in città, sola tra i palazzi che si squagliavano nell’afa. Preparavo gli esami d’ammissione alle accademie di teatro e avevo qualcosa al centro del petto, una palla che mi spingeva avanti, arruffata e tiepida come un pulcino. Mi chiedo se a spingermi fosse la giovinezza o le prospettive, o se le prospettive siano qualcosa che appartiene esclusivamente alla giovinezza. Abitavo ancora in casa coi miei, ma erano tutti in vacanza, loro e i miei fratelli. Nell’appartamento vuoto tenevo le serrande abbassate per difendermi dal caldo, mangiavo latte e cereali a pranzo, colazione e cena. Anche lui era in città, in punizione per i debiti. La sua presenza mi orientava come l’ago di una bussola. Allora forse non erano né la giovinezza né le prospettive a spingermi in avanti, ma il fatto concreto del suo corpo che si muoveva a pochi chilometri di distanza dal mio.

La mattina veniva un’insegnante a casa, Rita Padovani: alta, magrissima, sempre così bianca. Per pranzo mangiava un’insalata che si portava da casa, e mi chiedeva di lasciarla da sola in cucina: sono come i gatti, diceva, non mi piace che mi si guardi mentre mangio. Di lei ricordo soprattutto il collo, lungo e tendinoso, che si gonfiava nello sforzo d’insegnarmi la dizione. Per gli esami preparavo un monologo di Nicolaj e una poesia di Montale. Sul monologo Rita non aveva molto da ridire, era la mia resa della poesia a farle gonfiare il collo. Sulla sedia di plastica in terrazzo, all’ombra della tettoia, socchiudeva gli occhi e diceva: La devi sentire, la parola, Ascoltami, i poeti laureati. Devi metterci tutta la tragicità che puoi. Ascoltami, ascoltami, ascoltami. Rita se ne andava alle tre del pomeriggio. Io aprivo Facebook sul portatile e accendevo la televisione. Sdraiata sul divano, facevo saltare lo sguardo da uno schermo all’altro aspettando che lui mi scrivesse. Era sempre lui a farlo, quando si svegliava. Scambiavamo due battute sul niente e poi ci davamo appuntamento. Lavavo le ascelle, mettevo il mascara e mangiavo un’ultima ciotola di latte e cereali, poi inforcavo la bici e pedalavo fino a lui.

Lui si chiamava Pietro, era biondo e aveva una nonna malata d’Alzheimer che girava per la casa parlando in inglese. È che un tempo aveva avuto un amante australiano, e il suo cervello si era ostinato a rimanere in quella bolla di felicità. Oltre alla nonna anglofona, in casa sua giravano una badante filippina e un piccolo cane irsuto che cercava di montarmi la gamba tutte le volte che abbassavo le difese. Polifemo, old bastard! gridava la nonna quando succedeva. Ulisse nonna, diceva Pietro, staccandomelo dalla gamba. Il cane si chiama Ulisse. La badante sullo sfondo sorrideva beata, come di fronte alla scena di un bel quadretto familiare.

La casa era grande e strana, con tutta una serie di stanze che davano su altre stanze. Camera sua era in fondo, piccola e bianca come una stanza per gli ospiti. Sulle pareti aveva appeso un poster di Che Guevara e gli adesivi di una compagnia che fabbricava bong e cilum. Passavamo i pomeriggi sul suo letto a fumare. Non sapevo molto di lui, se non che era biondo, che sua nonna era malata d’Alzheimer e che quando gli prendeva la fame chimica friggeva un barattolo di mais in un tocco di burro – la sua merenda preferita. Non parlavamo mai di niente, sempre fatti sul letto a guardare video su YouTube e fare giochi di parole senza senso. Ogni tanto ci guardavamo negli occhi rossi e scoppiavamo a ridere. In quei momenti non volevo far altro che stringerlo a me, lavargli i denti come a un bambino, tagliargli i capelli di fronte allo specchio del bagno.

Pietro era piuttosto popolare nella nostra scuola. Non era solo il fatto che fosse biondo, o che avesse sempre cinque euro di fumo da vendere – era una forma di carisma intrinseco. Era stato rappresentante d’istituto, e negli ultimi due anni si era preso e lasciato con Viola, una ragazza così bella che noi non provavamo nemmeno a competerci. Quell’estate erano tornati entrambi allo stato single sulla home di Facebook, ma lui aveva ancora una sua foto appiccicata dentro l’anta dell’armadio. In bianco e nero, Viola guardava nell’obiettivo girata di tre quarti, con i capelli scuri legati sulla nuca. Io aprivo l’anta tutte le volte che Pietro usciva dalla stanza, fissavo gli occhi dentro quelli di Viola e le lanciavo maledizioni. Non le auguravo la morte ma qualcosa di altrettanto definitivo: l’alopecia, l’acne bubbonica, il trasferimento su un altro continente.

Da quando un paio d’anni prima l’avevo visto camminare attraverso il cortile della scuola con i jeans calati sul sedere e avevo deciso di essermi innamorata, tenevo un raccoglitore pieno di fogli dedicati a lui. Erano disegni, mappature, certe storie che scrivevo. Testi di canzoni che avrei voluto mixargli su un CD. Quell’estate tenevo il raccoglitore sulla scrivania aspettando il momento giusto, finché un giorno più fresco degli altri – un pomeriggio di luglio in cui si era alzato il vento, e grosse nuvole grigie erano comparse nel cielo, e ogni cosa sembrava immobile nell’attesa – avevo finalmente trovato il coraggio di metterlo nello zaino.

«Cos’è?» chiese lui sull’uscio. Era venuto a vedere perché ci mettessi tanto a raggiungerlo. Indossava una maglietta stropicciata e i soliti boxer a quadretti.
Restai lì a guardarlo.
«Hai i capelli bagnati» disse ancora, e io riuscii ad annuire. Ogni cosa in me si era rappresa, non ricordavo le parole, il modo in cui farle uscire. Pietro si piegò in avanti e prese un uovo dal piatto, se lo fece saltare di mano in mano come una pallina e disse di andare in camera. Scambiai un ultimo sorriso terrorizzato con la badante e lo seguii giù per la catena di anticamere, corridoi e soggiorni, finché non fummo di nuovo noi due soli nella sua stanza bianca in fondo alla casa.
«Cos’hai lì?» chiese ancora.
«Ora ti dico» riuscii a dire, mentre mi sedevo su una specie di pouf. Lui prese posto alla scrivania, girando la sedia nella mia direzione. Sbatté leggermente l’uovo sulla superficie del tavolo e iniziò a sbucciarlo.
«Mangi le uova così?»
Lui alzò le spalle. «Sto cercando di mettere su massa.»
Avrei preferito che non me lo dicesse, che non si mostrasse debole in quel momento. Sentirlo distante mi dava coraggio, era come se parlassi a un ologramma e non a una persona.
«Devo dirti una cosa» dissi, aprendo il raccoglitore. Il primo foglio era una mappa del cortile della scuola visto dall’alto, la traiettoria del mio sguardo che incontrava il suo mentre camminava da una parte all’altra. «Una cosa che voglio dirti da un po’ ma che non so come dire.»
Lui aveva finito di masticare l’uovo sodo e si era messo a girare una canna. Concentrato sul pezzo di fumo, non guardava nella direzione del raccoglitore, che comunque io tenevo sollevato di modo che non ne vedesse il contenuto. La seconda pagina era una storia scritta con dell’inchiostro verde pallido; era l’unica penna che avevo a disposizione una notte dell’estate prima, quando mi ero svegliata in campeggio con i crampi da quanto il suo pensiero mi riempiva, e non ero riuscita a tornare a dormire fino a quando non avevo trascritto tutta la linea temporale dei nostri scambi, pochi e scarni, romanzati per l’occasione.
«Però prima che te la dico devi giurarmi che non lo dici a nessuno.»
Lui alzò lo sguardo e fece un sorriso storto. Le budella mi si contorsero nella stessa inclinazione.
«Non te lo posso giurare.»
«Devi giurare.»
«Ma se non so cosa devi dirmi!»
«Non te lo posso dire» ribattei, e quasi piangevo, «se non giuri che non lo dici a nessuno.»
Pietro, che ancora sorrideva, alzò le spalle. Non era un giuramento ma era il massimo che avrei ottenuto, dovevo accontentarmi. Alla pagina seguente c’era un disegno, un’ispirazione che mi era venuta in un altro di quegli attacchi. Una testa che esplodeva in una trama di forme astratte, tra cui si distinguevano un biglietto aereo, delle cuffie e un pacco di biscotti.
«C’è una cosa che provo da tempo e che provo molto forte e la provo da tempo e non so come dirla» dissi mangiandomi le parole.
Lui guardava la cartina che teneva in mano ma non rollava, era teso in ascolto. Chiusi il raccoglitore e mi passai i palmi sudati sulle cosce, poi buttai la testa in avanti, tra le ginocchia. Feci uscire una specie di rantolo allungato, il motore che saliva di giri mentre trovavo la forza di sollevare la testa e dire:
«Mi sono innamorata di te.»
Pietro fece cadere la canna per terra, e poi cadde anche lui. In qualche modo rideva, ma non era esattamente una risata. Diceva Oh, Oh, buttando fuori aria. Lo stesso sorriso storto di prima. Era contento, si vedeva. Io mi tenevo le mani nei capelli e lo guardavo. Forse una parte di me era già morta, quella che si aspettava che lui dicesse “anch’io”. Pietro si alzò, prese a camminare avanti e indietro per la stanza. Oh, Oh, continuava a dire, portandosi le mani alla testa.
«Non posso non dirlo a nessuno» fu la prima cosa sensata che riuscì a dire.
«No Pietro. Non puoi dirlo a nessuno.»
«Ma come faccio?»
«Non puoi» e di nuovo la voce mi s’incrinava. «Non puoi.»
Lui annuì, prima a stento, poi più convinto. Tornò a sedersi alla scrivania e raccolse la cartina da terra. Non provò neanche a salvare la mista di fumo e tabacco che si era sparsa sul tappeto. Prese un altro pezzo di fumo e si mise a sbriciolarlo.
«Sei innamorata di me» disse.
«Sì.»
«Sei innamorata di me.»
«Da due anni.»
«Oh… Oh oh.»
Poi accese la canna e si calmò. Andò a sedersi sul letto, e con la mano libera batté il punto del materasso dove voleva che mi sedessi io. Fumammo in silenzio per un po’, creando cerchi di fumo nell’aria immobile della stanza.
«Non so cosa dire.»
Io ridacchiai imbarazzata.
«Ho queste frasi che s’inseguono nella testa, frasi che inseguono altre frasi.»
«Capisco esattamente quello che vuoi dire.»
«Sì?» chiese voltandosi.
Lo guardai negli occhi e annuii. Eravamo vicinissimi.
«Non so. Ti sei innamorata di me.»
Con le dita faceva ghirigori sulla coperta, la mia mano era a poca distanza dalla sua. Spense la canna nel posacenere, lo spostò sul comodino. Poi riprese ad arruffarsi i capelli.
«Concretamente cos’è che vorresti?»
Prenderti la mano, baciarti con la lingua, fare il bagno insieme. «Non lo so» e di nuovo risi come un’idiota. Sdraiati uno accanto all’altro, fissavamo le ante bianche del suo armadio, dentro cui bruciava il volto perfetto di Viola, i suoi occhi neri di tre quarti.
«Cioè, io non è che provi quella cosa lì, per te.» Lo disse con delicatezza, pronunciando piano le parole, eppure dentro mi si aprì uno squarcio.
«Comunque mi sono appena lasciato con Viola e non è che sia proprio libero, mentalmente, se capisci quello che intendo.»
Io annuii, cercando di non far trasparire quanto ero sprofondata sul materasso, quanto in basso mi sentivo.
«Mi dispiace se—»
«No no».
«No, davvero.»
Di nuovo zitti, fermi, come due parallelepipedi sul rettangolo del letto. Avrei dovuto alzarmi, prendere il raccoglitore e andarmene, ma se l’avessi fatto, se l’avessi lasciato in quel frangente, con me sarebbe morta anche la speranza.
«È che tu sei carina comunque.»
Io grugnii.
«Cioè non provo quella cosa lì però ecco, fisicamente mi piaci.»
«Ok.»
«E insomma se…»
Magari non era innamorato adesso, non ancora, ma le cose potevano cambiare. Potevamo passare più tempo assieme, andare con calma.
«Cioè se vuoi potremmo, tipo, fare cose.»
«Fare cose.»
«Sì ecco, cose.»
«Scopare, insomma.» Quella sera chiamai Rita. Non potevo sopportare la solitudine della casa, il latrato di un cane che abbaiava da qualche balcone del palazzo di fronte. Le chiesi se non potessimo fare una lezione serale straordinaria, ché mi sembrava di aver capito come rendere giustizia a Montale. Lei sembrò perplessa ma venne comunque. Si presentò sulla porta con una borsa di tela piena di carote, lattuga e pomodori – la preoccupava la mia dieta povera di nutrienti. Se ci ripenso ora, alla povera Rita Padovani che mi prepara un’insalata in cucina, mi pare ovvio che dovesse aver capito. Non che avessi confessato un amore non corrisposto, ma che mi sentivo sola, e abbandonata, e completamente persa. Non mi fece ripetere la poesia, ma mi parlò delle accademie di teatro mentre mi guardava mangiare. Diceva che, se fossi entrata, sarebbe cambiato tutto. Che le sciocchezze della vita di prima si sarebbero dissipate come inchiostro nell’acqua; sarebbe rimasta solo la recitazione, i palcoscenici, le pagine stropicciate dei copioni. Ed era quello, in fondo, ciò che avevo bisogno di sentirmi dire quella sera. Quello e nient’altro.  


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