TreMitalia #6 – Gestazione di una partenza

di Alessio Civita
treno dei desideri che dei pensieri all’incontrario va di mariel


Erano pochi i dannati che rimanevano a Porta Nuova più di due inverni. Di solito, tempo tre o quattro mesi e ramingavano altrove, alcuni crepavano. Il ricambio era continuo, ma dacché Porta Nuova era Porta Nuova la vecchia con le gambe gonfie c’era stata sempre, l’avevano conosciuta almeno cinque generazioni di dannati.

Rientravi da fuori e incontravi la vecchia, intenta come d’abitudine a trascinare lo stesso carrellino sberciato sotto le arcate dell’entrata, e in lei riconoscevi una punizione personale che non ammetteva perdono. Da dove venisse la vecchia nessuno lo sapeva. Così come non si sapeva dove riparava la notte, o dove nascondeva le coperte. Uno dei rari veterani giurava che fosse di qui, non scappava come loro dannati, c’entrava una disgrazia capitata al figlio, la notizia era finita sul giornale: «Ragazzo di diciassette anni travolto dal Sfm delle otto e dieci», incidente o suicidio, non si era capito – si parlava di almeno trent’anni prima. Da allora, inverno dopo inverno, la vecchia con le gambe gonfie sciabattava ogni giorno su e giù per la galleria sotterranea con il suo carrellino. Le vetrine delle catene americane si susseguivano una via l’altra e lei alzava gli occhi dai ciottoli in gomma il tanto che bastava a non cascare.

Delle persone la interessavano gli scarti. E così come il passo spedito di una ragazza preannunciava una banana cerchiata di nero sul fondo del bidone del Mac, in modo simile da un branco di preadolescenti ci si poteva aspettare una lattina di Coca buttata a terra, e così via fino al bimbo paffuto assieme alla nonna, che faceva ben sperare per una coppetta di gelato già sciolto o almeno per una pellicola unta di focaccia smollata su una panca. Tutto quel che la vecchia sapeva sugli esseri umani lo aveva imparato rovistando dentro i bidoni della stazione, quelli sotto il grande orologio e quelli sotto i tabelloni, certi giorni pure i cestini del corridoio nordest. Si avventurava fino alle banchine solo se c’era calca. Sperava di passare non vista con le sue gambe elefantiache insaccate in collant più che stremati, per non parlare poi delle tre giacche che infilava una sopra l’altra ad accentuare una gobba che già da sola faceva impressione. Nessuno si azzardava a darle noia: i viaggiatori si tappavano il naso, i Polfer la vedevano e si toccavano i coglioni. Se a qualche dannato più dannato degli altri fosse venuto in mente di strapparle le cianfrusaglie che custodiva nel carrellino, alla vecchia sarebbe bastato alzare il mento vizzo di trenta gradi. Un paio di pupille dilavate al fondo di due fessure cavernose avrebbero scoraggiato anche i più noncuranti di bene e male.

Nell’inverno del duemilaventitré un dannato avveduto avrebbe potuto notare nei passi malfermi della vecchia un’andatura più nervosa del solito, una traiettoria meno casuale, quasi calcolata, se si poteva attribuire calcolo all’esistenza inconsapevole che menava da un’entrata della stazione all’altra. Nessuno ci fece caso, siccome tutto nel portamento della vecchia consigliava di tenersi alla larga. Fatto sta che un’abitudine antica, sepolta a lungo fino a diventare fossile, quell’inverno (che per la vecchia sarebbe stato anche l’ultimo a Porta Nuova), era stata vivificata da un lamento estraneo, un pigolio insopportabile che una sera di fine gennaio attirò il corpo insonne della vecchia davanti a un distributore automatico tra il binario cinque e il binario sei. Alle ventidue di martedì la banchina era deserta, gli schermi non annunciavano più né arrivi né partenze. La vecchia si avvicinò al distributore e tamburellò le nocche nodose sul plexiglass. Oltre a barrette di cioccolato e bibite energetiche non vide nulla. Si chinò e aprì il cassettino del resto – riflesso automatico –, se c’era qualche centesimo non lo prese. Spinse la bocca del distributore e li vide: una montagnola di corpicini di pochi centimetri si arrampicavano e rovinavano uno sull’altro. Producevano un pianto disarticolato, punteggiato di picchi dissimili, ogni corpicino voleva imporre la propria sofferenza su quella degli altri. Il pianto aumentò di volume quando la vecchia con le gambe gonfie avvicinò le dita alla bocca del distributore.

Ne prese uno per studiarlo: notò subito le zampette mobili e le ditina definite, il corpo rosa pareva ricoperto di una pellicola traslucida, eppure secca; sul basso ventre un ago esile e nero. Con la mano libera la vecchia sfiorò l’aghetto. Si sfilò senza sforzo, lasciando scoperta la pelle uniforme. Il corpicino non aveva sesso e non si era accorto di nulla: si lamentava come prima. Lo avvicinò al naso, spandeva un odore forte di ammoniaca. Era un odore nauseabondo e desiderabile, la vecchia avvicinava e allontanava la mano per sentirlo come si deve, il corpicino non reagiva. Gli occhi non si erano ancora dischiusi, si indovinavano da due puntini neri e vitrei sigillati sotto una membrana viscosa. Devi avere pazienza, pensò la vecchia, presto anche tu potrai vedere.

Da quella sera la vecchia con le gambe gonfie fondò un rituale giornaliero. Alle ventitré passate trainava il suo carrellino al termine dell’uscita di via Sacchi e, una volta certa di essere sola, accostava l’anta malchiusa della celletta dell’estintore, levava la gomma piuma da sotto la bombola e la metteva da parte, rimuoveva dei fiocchi di cotone lordi – li recuperava pieni di semini bianchi, puzzavano di ammoniaca – poi tirava fuori dalla celletta una scatola di scarpe. Ritrovare la scatola dove l’aveva stipata, e soprattutto ritrovarci i cuccioli al sicuro, sopiva l’irritabilità che la perseguitava tutto il giorno nelle sue esplorazioni. Il sollievo durava poco, e per il poco tempo che durava la vecchia faceva scorrazzare i cuccioli sui gradini, lasciava che si sfogassero; dopo divideva con loro gli scarti che aveva raccolto in stazione: un’arancia molle chiazzata di bianco o una manciata di semi di zucca. Certe sere non trovava altro che qualche patatina fiappa del Mac. Verso mezzanotte rimetteva tutti e otto i cuccioli dentro la scatola di scarpe e di nuovo la stipava sotto la bombola. Per finire tamponava dei fiocchi di cotone puliti ai fori laterali che aveva praticato – era per far passare l’aria – e ricopriva con la gomma piuma. Una serie di gesti ripetuti che la distoglievano solo in parte dall’impressione che i cuccioli ogni sera apparivano più deboli.


Quando a fine giornata levava il coperchio li sorprendeva letargici, sdraiati sulla schiena le rivolgevano la pancia rosa. Sul resto del corpo attecchiva pigra una patina di pelo cinerino, per il momento rada e trasparente. Dove ancora due giorni prima insisteva una membrana viscosa si erano socchiusi due taglietti scuri. Difficile dire se ora i cuccioli potevano vederla per com’era, però le rivolgevano il musetto, docili; pigolavano un attimo quando apriva la scatola, un saluto desolato. Le luci a neon degli all you can eat di via Sacchi si proiettavano sulla loro nuova muta.

Crescevano in fretta, ma era una crescita disordinata. Non sembravano rianimarsi più di tanto all’aria già mite della sera, e neppure provavano a scappare quando la vecchia con le gambe gonfie li deponeva fuori dalla scatola di scarpe. Abbozzavano qualche passetto e si arrestavano, le rivolgevano gli occhietti in attesa. Sempre di più col passare dei giorni preferivano restare stravaccati sul fondo del nido. Per modellarlo la vecchia aveva dato fondo alle sue provviste e aveva battuto la stazione palmo a palmo, primo piano pianoterra e galleria sotterranea, il perimetro intero della sua coscienza, aveva rivoltato ogni cestino per trovare quello che tra le sue provviste non c’era. Trovò poco e con quel poco foderò l’interno della scatola di una pasta collosa e morbida. Ticket di treni, la carta delle barrette Kinder, cannucce torte da canini e incisivi, mozziconi di sigaretta, un pezzo alla volta li masticò a lungo. Ottenne un bolo bianchiccio, adesivo, e lo stese sul fondo della scatola, certa di aver assicurato un manto caldo ai suoi cuccioli. Ma per quanto si fosse ostinata a garantire loro un ricovero sicuro, per quanto si fosse tormentata per nutrirli, la vecchia cominciava ad ammettere a sé stessa che qualcosa non andava. Le vertebre dei cuccioli svettavano puntute dal pelo nuovo. Le ditina erano arrossate, e ogni sera la vecchia scopriva nuovi tagli e nuove crosticine giallastre sulla pancia rosa dei cuccioli.

Temeva che non avrebbero vissuto a lungo. Sperava ancora in una crescita miracolosa che tutta in una volta avrebbe corretto ogni tara, ma più crescevano e più erano evidenti i segni della malattia. Sua la colpa, che li nutriva a scarti e a immondizia, era lei ed era la stazione ad ammazzarli. Forzò sé stessa: cominciò a mendicare, non l’aveva mai fatto; per i dannati fu una novità trovarsela a ciondolare la mano destra sotto l’arco dell’entrata di corso Vittorio. Il disgusto immediato che ispirava le garantiva qualche moneta frettolosa – ne raccolse abbastanza per comprare una forma di pane alla bakery americana della galleria. Ci volle una giornata intera per ridurla in piccole pallotte di mollica che a sera sistemò dentro la scatola di scarpe. I suoi cuccioli si avvicinarono dapprima curiosi, ma annusarono appena per poi subito congestionarsi all’estremità opposta del nido in una montagnola di corpi. La vecchia riprese le pallotte di pane e se le mise in bocca per ammorbidirle. Quando le rimise nel nido l’atteggiamento dei cuccioli non cambiò, solo uno o due andarono ad annusare. Ritentò il giorno dopo ma i cuccioli ignorarono del tutto le pallotte di pane, persistevano abbarbicati in un’unica montagnola di corpi che adesso, tanto erano cresciuti, occupava più della metà della scatola di scarpe. I loro corpi si erano affusolati in lunghi fagioli scheletrici e grigiastri, il pelo ancora rado. Era più di cinque sere che la vecchia non sentiva il pigolio dei cuccioli, neanche piangevano più quando si allontanava.

Tanto crescevano e tanto maturava nei cuccioli una rassegnazione definitiva. Sera dopo sera la vecchia spargeva altri pezzi di pane o qualche nuovo seme di zucca che aveva trovato, sperava che la fame infine li avrebbe costretti a cercare quei bocconi che ora non tenevano in alcun conto. Ma non le riusciva di crederci; arrivò ad augurarsi che si divorassero tra di loro, che i più forti straziassero i corpi dei più deboli per saziarsi, affinché almeno i primi crescessero sani.

Tornava a sera alla celletta ormai certa dell’inevitabile. La montagnola di corpi dentro la scatola era sempre più ingombrante e sempre più immobile. Qualche isolata contrazione delle ditina di uno dei cuccioli, un calcetto a vuoto della zampetta di un altro, accertavano di tanto in tanto un’agonia in corso. La vecchia ancora cambiava i fiocchi di cotone, ma da diverse sere li raccoglieva puliti: ora i semini bianchi erano sparsi dappertutto dentro al nido oppure appiccicati sul ventre dei cuccioli. Il cibo vecchio non veniva toccato, e testarda la vecchia lo rimuoveva e ne metteva di nuovo, però si rifiutava di distogliere i cuccioli dal loro riposo comune. Aveva paura di scoprire tra loro un corpo già rigido.


Erano passate sedici sere dai primi vagiti dei cuccioli tra il binario cinque e il binario sei. Alle ore ventitré di un giovedì di metà febbraio la vecchia con le gambe gonfie trascinò come al solito il carrellino verso l’uscita di via Sacchi e come al solito accostò l’anta della celletta dell’estintore e mise come al solito la gomma piuma da parte e come al solito levò i fiocchi di cotone e tirò fuori come al solito la scatola di scarpe e come al solito socchiuse il coperchio e si sentì di morire. In pochi attimi avvampò e sfebbrò, un’emicrania pulsante le conferì una lucidità terribile. L’odore di ammoniaca non era mai stato tanto forte. Il coperchio, dischiuso per un attimo, venne subito serrato. Le dita della vecchia divennero insensibili e la scatola cadde a terra. Cercò sostegno al suo carrellino; il cuore le martellava alla parete dello sterno e le mancava l’aria.

Aveva già voltato la gobba al nido quando sentì provenire un lamento roco da dove lo aveva abbandonato. Era un pianto sfinito, privo di timbro, ridotto a soffio terminale. Era un lamento diverso da quello dei cuccioli. La vecchia con le gambe gonfie lo conosceva, erano passati anni da quando un lamento gemello le aveva ingiunto di restare dov’era, non tornare più.

Si inginocchiò davanti alla scatola di scarpe rivivendo un ricordo rimosso. Chinò la testa, esitava a levare il coperchio. Il lamento continuava, ma calmo, lunghe le pause tra un soffio e l’altro. A intervalli ravvicinati il coperchio si sollevava e si abbassava di pochi millimetri, la vecchia con le gambe gonfie scorreva le dita sopra la sua superficie, tappava i fori per pochi secondi e poi li liberava. Passavano due studenti spettinati ma allungarono in fretta il passo verso l’uscita. La vecchia neanche li vide, rimase ferma in ginocchio ancora diversi minuti, ascoltava il lamento che proveniva dal nido. Appena tolse il coperchio ci fu una variazione, un sospiro lungo, un’indicazione di sollievo. Ora la vedeva, la fonte del lamento, un’escrescenza tanto ovalare quanto fusiforme, era forata alla sua sommità da due occhietti bruni senza la parte bianca. Neri e spalancati la fissavano di poco sopra una bocca turgida che scopriva una arcata dentale perfetta.

L’organismo era avviluppato al fondo della scatola. Anzi, dal fondo germinava e in esso si compieva. La sua superficie, abbassandosi e sollevandosi in accordo a un sibilo indolente, aveva mantenuto l’incarnato rosa dei cuccioli. L’organismo girava gli occhi verso la vecchia e li ritraeva, e di nuovo, si vergognava a farsi vedere così, incompiuto, un baccello spugnoso con un’estremità dura, ossea, impegnata in un respiro che coinvolgeva tutta la sua estensione. Non c’era niente di automatico nel processo, ogni nuova boccata d’aria riceveva a fatica la convalida di una volontà disperata. La vecchia rimandava il momento in cui l’avrebbe toccato: al contrario dei suoi antenati, la nudità dell’organismo ulteriore era insostenibile, anche solo posarci gli occhi sopra significava violazione. Ogni brandello del suo organismo segnalava cicatrici, lacerazioni rimarginate o rigonfiamenti che ne annunciavano di prossime, la sua pelle era la cartografia dettagliata di tentativi di vita successivi, arenati in via definitiva al loro stadio nascente. Sotto la scorza superficiale la vecchia riconosceva come spine confitte nella carne le vertebre a punta dei suoi cuccioli. Sporgevano ora in una concrezione tumorale che aggravava la parte bassa dell’organismo. Sul suo dorso c’erano due mani umane in miniatura che riposavano giunte una all’altra. Sparsi per il resto del corpo altri avanzi di esistenze inespresse: cenni di code incagliate sottocute, neoformazioni simili a branchie, arterie essiccate che si alternavano a un’infiorescenza di grappoli di bulbi butterati; macchie circolari di muffa asimmetriche si intuivano sulla parte che aderiva al fondo. L’organismo aveva perso la vergogna di poco prima, e guardava la vecchia coi suoi occhi neri e fondi. Il respiro, ancora stentato, diventò impercettibile. La vecchia si stava abituando ai lineamenti dell’organismo e al suo odore, grattò con due dita la sommità ossea, l’organismo socchiuse gli occhi neri e fondi, la lingua sporgente nicchiò dietro i denti. Gli piaceva, la vecchia continuò. Passava il dito su zone diverse per misurare le reazioni dell’organismo, si fermava dove la consistenza della sua pelle era di un’asprezza calcarea. Quando la vecchia ritirò le dita l’organismo parve tornare in sé.

La fissò grave, tese la sommità del suo corpo verso la vecchia. Ne voleva ancora. Lei tirò fuori uno straccio dal suo carrellino, lo avvolse attorno all’organismo e portò l’involto al petto. Attraverso il tessuto percepiva il tepore umido dell’organismo. Continuava a guardarla. E lei tirò fuori dal carrellino il pane destinato ai cuccioli; i pezzetti avanzati erano duri. L’organismo li trangugiò con avidità uno dopo l’altro. A ogni boccone le arterie le concrezioni e i bulbi che lo angustiavano si distendevano come entità autonome, respiravano al posto suo e gli restituivano pace. La vecchia con le gambe gonfie continuava a sussurrare, in ginocchio, il capo chinato, Ti ringrazio.

I dannati della stazione arrivarono alle mani pur di spartirsi le poche cartacce logore che trovarono nel carrellino.

Ci si inventò di tutto: e la vecchia non era resistita all’inverno e aveva fatta la scena e si era fatta ricoverare e si era addormentata e un gruppo di dannati di fuori le aveva dato fuoco e come il figlio si era buttata sotto un treno. Ma il giorno che se n’è andata io l’ho vista: su un treno alla fine ci era salita. Sissignore, era l’Sfm delle otto e dieci, la vecchia con le gambe gonfie stringeva un fagotto al petto, saliva i due gradini con un’andatura inusuale, più sicura; e pensare che aveva una cera peggiore del solito, c’era qualcosa che non andava nei suoi occhi, erano neri e senza luce, il bianco non c’era più.


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