Professionisti del niente

di Gino Ciaglia
copertina di Josephine Tomarchio


Quando ho iniziato a lavorare per gli Incaricati del Vuoto non sapevo ancora che ci fosse una parola per la sensazione che provavo quando aprivo una porta e l’aria mi veniva incontro, cambiandomi addosso, come se all’improvviso fossi io l’oggetto fuori posto.

La parola è “sfiato”. Me l’ha insegnata Marcello, caposquadra da vent’anni, braccia a tatuaggio continuo e una lumaca sull’avambraccio: «Per ricordarmi che non bisogna avere fretta nel togliere via le vite degli altri».

Gli I.V. sono una ditta registrata regolarmente alla Camera di Commercio. Facciamo sgomberi: dopo sfratti, decessi, arresti, fughe improvvise in Brasile per vendere pannocchie e guardare da vicino i culi vibrare. Il nostro un furgone è blu, con la scritta bianca in corsivo e il disegno di una scatola di cartone che ammicca.

Io guido, scarico, fotografo il prima e dopo, compilo il verbale per il Comune. Marcello parla con gli inquilini, se ci sono, o con gli amministratori, se non ci sono. Spesso facciamo tardi, quando gli ascensori rifiutano di scendere noi e i frigoriferi insieme.

«Ricordati di guardare sempre sotto i letti» mi dice la prima mattina. «La gente infila le cose importanti dove pensa che il mondo non guardi. Il mondo è pigro e non si inginocchia».

Nel primo appartamento troviamo un divano con una macchia più chiara, a forma di persona seduta: lì qualcuno guardava la televisione. Sul tavolo, una tazza con il fondo di zucchero indurito come ghiaccio di un altro pianeta. In bagno, il rubinetto lasciato appena aperto picchietta ancora.

Penso a mia madre, a come ha smesso di chiudere bene i tappi da quando ha cominciato a nascondere le cose dentro altre cose, per non vederle. Lei dice che sistemare è far sparire. Io le chiedo dove sono finite le mie foto del liceo, lei risponde: nell’armadio, nella scatola della biancheria invernale, dentro la federa del cuscino più vecchio. Tutto vero. Le ho ritrovate, ma ridotte a coriandoli tristi, come di un carnevale che non c’è mai stato.

«La carta non va mai buttata tutta insieme» dice Marcello, infilando guanti nuovi. «Ci sono lettere e ci sono scontrini. A volte le lettere sono scontrini».

In corridoio c’è una fila di scarpe da uomo, tutte rivolte nella stessa direzione, come in una marcia lenta. Solo un paio guarda indietro: collo spezzato, linguetta fuori. Mi viene voglia di rimetterle a posto, ma Marcello alza una mano. «Non toccare mai l’orchestra prima di contare fino a dieci».

Contiamo. Dieci secondi in cui capisco che le stanze conservano la forma di chi le ha abitate come un odore che non ha nome. Poi iniziamo.

Mentre insacco cornici senza foto penso che lavoro per una ditta chiamata Incaricati del Vuoto, eppure il vuoto non è mai vuoto davvero.

Sotto un letto troviamo quattro sacchi di sabbia da protezione civile. Marcello sorride: «Servono per non fluttuare». Per un attimo credo che dica sul serio.

Nel terzo appartamento del giorno c’è una donna che non dovrebbe esserci. È seduta sull’ultimo gradino della scala, un cappotto troppo grande, un elastico stretto ai polsi come un bracciale. Ci guarda passare con i sacchi neri come se fossimo pesci in un acquario.

«Non ho più niente» dice a Marcello quasi senza voce. «Solo il cane, ma me l’hanno portato via il mese scorso. Abbaiava ai camion».

Marcello non fa domande. La lascia entrare. «Resti in cucina finché lavoriamo, signora. Ma non si faccia male» dice, come se davvero potesse farsi male con un cucchiaio.

Subito mi riaffiora in mente la storia di Robert Maudsley, il detenuto che conficcò un cucchiaio nel cranio di un pedofilo.

La donna appoggia la testa al frigorifero e chiude gli occhi. Io immagino un cane a batteria che abbaia a tempo. Vedo un guinzaglio a spirale appeso allo schienale di una sedia. Vorrei chiederle il nome del cane, avere almeno una parola a cui aggrapparmi, ma Marcello, come se mi avesse letto nel pensiero, mi fa: «Le parole peggiorano il vuoto».

Ci crede davvero: che il vuoto sia una specie di animale che si nutre di dizionari.

Quando lavoriamo, Marcello parla poco. Solo a pranzo, in piedi in qualche bar, si lascia andare. I volti delle statue sono la sua ossessione: sostiene che l’invecchiamento sia una questione di polvere e che gli esseri umani siano statue capovolte, consumate da dentro. Io annuisco con la bocca piena. Gli racconto di mia madre, del modo in cui ha cominciato a trattenere l’aria come se il respiro fosse benzina.

«E tuo padre?»

«Mio padre è un biglietto dell’autobus scaduto il giorno prima».

Non mi chiede di spiegare.

A metà mese ci capita un incarico strano: appartamento al quarto piano senza ascensore, quartiere San Lume. Intestato a un certo De Lorenzo. Assente. Il custode ci viene incontro con un’anatra in braccio.

«La tengo buona, se no strilla».

Il portone si apre a spalla.

Odore di incenso e latte acido.

Sul pavimento dell’ingresso fogli a righe, disposti come una pista d’atterraggio. Su ogni singolo foglio è scritta la stessa frase: Qui finirà l’ultima volta. Marcello non legge ad alta voce. Io sì, e la frase mi scende in gola come una cucchiaiata di neve.

La casa è quasi vuota: un tavolo, un materasso nudo, un armadio storto. In fondo al corridoio, una porta serrata.

«Facciamo attenzione» dice Marcello, «le porte chiuse a chiave sono abituate a stare chiuse».

Infila un cacciavite, smuove la serratura come fosse un dente da latte.

La porta cede.

Dentro c’è una stanza cieca. Al centro, una vasca da bagno con le gambe ad artiglio. Dentro, tre oggetti: una rete metallica da coniglio, una radiolina a pile che trasmette solo fruscii, un metronomo di legno. Sul bordo della vasca, segni a matita: numeri e linee, come livelli di marea. Sul muro, quattro fotografie attaccate con nastro adesivo. La stessa bambina, in età diverse, con identica espressione concentrata di chi sta contando.

«Prendiamo prima la vasca» dico.

«La vasca è dell’immobile» risponde Marcello.

Infilo le mani nella rete, tiro fuori la radiolina e la spengo. Il silenzio mi prende al collo. Il metronomo però continua. Marcello si siede sul bordo della vasca come uno che aspetta un autobus. Io guardo le fotografie finché i volti si fondono in un’unica macchia.

«Secondo te dov’è finita?» chiedo, senza dire cosa.

«Da nessuna parte. È qui» risponde Marcello, indicando il metronomo. Lo ferma con un dito. La stanza si dilata di mezzo centimetro. Lo riavvia. La stanza si restringe.

***

Usciamo a fumare sul pianerottolo del terzo piano ‒ non fumiamo nessuno dei due ‒ e guardiamo l’anatra del custode che ci scruta da sotto, immobile come un guardiano.

«A volte trovi cose che hanno smesso di essere cose e sono diventate ritmo» dice Marcello. «Non si buttano. Si lasciano in eredità al vuoto».

Mi viene da ridere e piangere insieme, come quando da piccolo mi stringevano forte: faceva male ma ero felice.

Nel verbale segno: Materiali misti; stanza interna con elementi ritmici.

Marcello mi strappa il foglio, ci disegna una lumaca e me lo restituisce.

La settimana dopo arriviamo in un appartamento dove l’ultima bolletta è stata pagata a metà.

Sul letto c’è una culla appesa al soffitto con due corde di spago. Nel frigo, tre uova numerate a pennarello: 1, 2, 3. Sulla lavagna vicino alla porta un elenco: latte sapone respirare chiamare papà (no) buttare vetro ricordare la parola che inizia con g.

Mi fisso sulla quella parola mancante. Penso a gargarismo, glicine, grembo, giovedì.

La proprietaria del bar sotto, mentre carichiamo i sacchi in strada, ci offre un caffè.

«Viveva da sola» dice, «era… non so… organizzata». Lo dice come fosse un’accusa.

Marcello ha ragione: le parole peggiorano il vuoto.

Da quando faccio questo lavoro, mia madre mi manda foto di scatole chiuse. Io mi sento come un verbo transitivo senza oggetto.

Scrive: Questa l’ho svuotata, ti piacerebbe.

Il lunedì sera passo a trovarla. Le scatole sono allineate ad altezza cuore. Mi abbraccia un po’, poi si ritira in cucina a sistemare le posate. L’aria della mia vecchia casa sa sempre di detersivo alla lavanda. Apro un cassetto e dentro trovo un altro cassetto più piccolo. Sorrido.

«Ho capito come si fa» dice da dietro le mie spalle. «Non si butta tutto. Si sposta di stanza in stanza finché smette di riconoscerti». Beve un bicchiere d’acqua come se fosse qualcosa da tenere a mente.

Un pomeriggio ci chiamano d’urgenza.

«Appartamento muto» dice l’amministratore.

Il portone è di ferro pesante, con un buco che ti restituisce l’occhio quando provi a guardare.

Dentro, tutto è impeccabile: mobili lucidi, pareti bianche, tappeti senza briciole. Un appartamento che si è messo in ordine per morire. Sul tavolo del salotto, una busta: Non entrare nella stanza più buia senza prima accendere la radio in cucina.

Marcello scuote la testa. «La gente non sa che siamo professionisti», dice con un filo d’orgoglio. Poi accende la radio. Una voce maschile elenca il palinsesto tv del giorno.

Entriamo nella stanza più buia: è un ripostiglio.

Una lampadina penzolante, un lettino da campeggio piegato a metà. Sul materasso un mucchietto di granelli bianchi, come una montagna in miniatura.

Marcello intinge un dito, assaggia. «Sale».

Caricando il lettino, commenta: «Le persone lasciano istruzioni al vuoto come se fosse un bimbo che teme il buio, e fa finta di dormire».

Quella sera, a casa, scrivo anch’io istruzioni al vuoto: non mangiarti la foto di me e mamma al mare; non toccare il biglietto dell’autobus scaduto il giorno prima; non sistemare le mie parole in ordine alfabetico. Le chiudo in una busta sotto il cuscino. La mattina la trovo sul comodino. Non ricordo di averla spostata. E non ho un gatto.

Ci richiamano da casa De Lorenzo. Il custode con l’anatra dice che hanno trovato qualcos’altro nel solaio.

Saliamo scale strette, l’odore della polvere cambia a ogni piano. Il solaio è un corridoio basso, travi scure, ganci appesi. In fondo, una porta senza maniglia. Marcello le dà una spallata: la porta cade in avanti come una carta da gioco. Dietro, un cubo perfetto di scatoloni. Su ogni scatola, la stessa scritta: Non aprire.

Io e Marcello ci guardiamo. Abbiamo imparato che non tutti i divieti sono uguali.

«Una sola» dice Marcello.

Ne prendiamo una dal centro. Pesa come sabbia bagnata. La tengo sulle ginocchia, Marcello taglia il nastro con le chiavi.

Dentro, un orologio senza lancette: il quadrante bianco, le ore segnate, ma nessun modo di raggiungerle. Sopra, un biglietto: prototipo.

Marcello soffoca un verso di sorpresa, poi ride piano. «Questo De Lorenzo era un inventore».

Io penso alla vasca, alle linee a matita, alla frase “Qui finirà l’ultima volta.” Penso a mia madre che ritaglia le foto in quadratini. Pixel senza memoria.

«Ne apriamo un’altra?»

Marcello fa no, poi sì.

Seconda scatola: una bambola senza occhi, con il volto disegnato a matita due volte, come se qualcuno avesse cambiato idea a metà. Terza: un mazzo di chiavi tutte uguali. Quarta: cento fogli con la parola grembo scritta a penna, ogni volta con una grafia diversa. Quinta: un metronomo rotto, di legno, non di metallo come l’altro.

«Basta» dice Marcello, sedendosi per terra. «Ecco l’errore. Il vuoto funziona solo se ti fa venire voglia di contare».

Io non rispondo. Sto contando i miei respiri. Mi sembra di sentire nelle orecchie anche quelli dell’anatra, due piani sotto.

«Dammi un secondo». Esco dall’appartamento e chiamo mia madre. Risponde al terzo squillo. «Ho trovato un orologio senza lancette» le dico. «Un prototipo».

«Non buttarlo» risponde. «Mettilo dentro una scatola più grande, così quando lo cerchi trovi prima la scatola e ti fermi. Non hai bisogno di arrivare a lui».

«Ma io voglio arrivare a lui» dico, e mi sorprendo.

Lei tace, poi: «Allora tienilo sul comodino finché non ti abitui».

La immagino al tavolo, con il quaderno delle sue liste: latte, sapone, respirare. Vorrei chiederle se anche lei aveva una parola con la g. Ma le parole peggiorano il vuoto.

«Ci vediamo lunedì» aggiungo.

«Ah, sono venute via le macchie dal grembiulino» dice, e riattacca.

Marcello, nella soffitta, fissa la porta caduta.

«Ti ho mai detto perché ho la lumaca?» chiede, come se avessimo interrotto una conversazione giorni fa. «Perché prima facevo traslochi. Pensavo che il mondo appartenesse a chi si muove veloce. Poi ho visto un signore che, mentre smontavamo l’armadio, faceva l’ultimo giro della casa, sfiorando gli stipiti con la mano. Lo faceva lento. Stava spostando il suo vuoto piano. Me la sono tatuata per ricordarmi di non avere la fretta degli altri». Si gratta la fronte col dorso della mano.

***

Metto l’orologio sul sedile accanto e gli allaccio la cintura, così, per ridere. Ma rido poco. Alla curva in via Massimo Silenzio vibra sul rettilineo come fosse vivo.

Quella sera lo appoggio sul comodino. È un orologio che non segna nulla: fermo da sempre. Le ore ci sono, ma intoccabili, come un calendario senza giorni. Dentro il metallo, inciso come su una fede nuziale, leggo: Non serve a nulla. E penso che a volte la cosa che non serve a nulla è proprio quella che impedisce al resto di crollare.

La notte sogno una stanza bianca con una vasca. Dentro c’è mia madre bambina: taglia foto in quadratini e li lancia in aria. Ogni frammento si incolla al muro e compone nuove figure: io a sette anni, mio padre di profilo, un labrador color miele che non abbiamo mai avuto. Sul bordo un metronomo fermo. Gli do un colpetto e parte. Mia madre sorride con i denti piccoli di quando aveva dieci anni, lo ferma e dice: «Non funziona con il metronomo».

Il giorno dopo, Marcello mi passa un sacco nuovo. Sopra, stampato in viola, il vuoto è un professionista. Annuisco. Anche noi lo siamo, a modo nostro.

Oggi tocca a un tizio che accumulava biciclette: cento telai e nessuna sella.

Nel cortile un ragazzino ci guarda scaricare e chiede se può avere «un pezzo di niente».

Gli allungo un manubrio.

Lui lo solleva, lo osserva: «Grazie» dice, e corre via. Poi torna indietro, aggiunge: «Serve a stare in equilibrio».

E non capisco se parla del manubrio o del niente.

Qualche settimana dopo torniamo per la terza e ultima volta da De Lorenzo. Il custode ci accoglie senza anatra.

«È volata» dice.

Le anatre volano?

La stanza della vasca è come l’avevamo lasciata. Solo sul pavimento c’è un altro metronomo, di plastica. Marcello lo poggia sul bordo.

«Ci sono cose che devono stare al bordo per ricordarti che c’è un centro» mormora.

Non so se credere a tutto quello che dice, ma mi va bene così.

Prima di andarcene, mentre Marcello fa il giro finale con l’occhio di chi saluta senza salutare, prendo una matita. Sotto la riga più alta segnata sulla vasca scrivo: ci sono cose che finiscono per ricominciare male.

La mia grafia è infantile.

Appoggio la mano sul bordo freddo per asciugare le parole con il calore della pelle.

Sento un tic tac che non viene dal metronomo, ma dal muro. Mi volto: il muro respira, piano, come un animale in letargo. Non ho paura. Vorrei restare ancora un minuto, per capire se accelera quando respiro anch’io.

Marcello mi chiama.

«Arrivo».

Sul pianerottolo, il custode mi guarda le mani. «Si porta via qualcosa?» chiede.

«Sempre» rispondo.

L’orologio è rimasto sul mio comodino, a fare la guardia al niente. A volte penso che dovrei riportarlo dov’era, ma poi mi dico di no. Non servirebbe a niente. E invece a me serve.

Quella notte, prima di addormentarmi, scrivo una lista sulla lavagna: latte, sapone, respirare, chiamare mamma, buttare vetro, cercare la parola con la g. Sta lì, come se fosse utile.

Spengo la luce.

Nel buio sento il metronomo che non c’è.

Tic. Tac. Tic. Tac.

Lo immagino, ed è abbastanza per capire che il ritmo non fa funzionare il cuore. Gli errori sì. Allora provo a sbagliare: chiamare mia madre a un’ora impossibile, dirle: «Ho preso lo zucchero» senza averlo comprato; chiamare papà un biglietto scaduto; scrivere gola invece di grembo.

La mattina la lavagna si è corretta da sola.

Al posto di gola c’è glicine.

Sorrido: il vuoto ha una grafia migliore della mia.

Cerco ancora la parola con la g, poi mi arrendo.

Esco. Vado a lavorare.

Nella prima casa del giorno trovo un sacchetto con dentro sette telecomandi: di vecchi televisori, condizionatori, apparecchi che non esistono più. Li allineo sul tavolo, tutti uguali. Ne prendo uno, premo un tasto a caso puntandolo verso il corridoio. Si accende una luce minuscola, come un occhio che si apre dopo una lunga notte.

Mi viene da piangere. Mi viene da ridere.

Marcello dice: «Bene. Oggi abbiamo finito presto».

E io capisco che il mio lavoro non è togliere né riempire. È ascoltare. È restare in equilibrio sul bordo della vasca, fermare il metronomo, lasciare che il muro respiri.

La parola con la g mi arriva più tardi, mentre scendo dal furgone con il metronomo sottobraccio: gratuità. La dico a bassa voce. È vero che le parole peggiorano il vuoto, ma alcune lo addomesticano. La dico e mi sembra di aver trovato una chiave, non per aprire, ma per stare davanti a una porta senza vergognarmi. Porto il metronomo a mia madre. Lei lo prende, lo posa sul tavolo, tira fuori una scatola più grande, lo mette dentro, poi lo toglie e lo rimette sul tavolo.

«Ho cambiato metodo» dice, con una luce piccola negli occhi. «Adesso le cose che voglio tenere, le tengo».

«Funziona?»

Sorride, come se avesse appena trovato una cura al suo male segreto.


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