Sul mio video dello strighiro

di Luca Flaocioni
copertina di Josephine Tomarchio


È un po’ un rito di passaggio, da noi, fare un video in cui strappiamo la coda a uno strighiro. Non è nulla di così terribile: è vero, lo strighiro uggiola, gagnola, ziga, squittisce e si contorce, a volte sembra addirittura che pianga mentre l’estremità viene separata dal suo minuscolo corpo, ma dopo cinque o dieci minuti, come riportato anche da numerose ricerche, lo strighiro sviene. Quando si risveglia sembra essersi dimenticato di tutto: non si lamenta più. Si ritrova senza coda, e, a quanto pare, questo non ha alcun effetto sul resto della sua vita. Può essere, a pensarci bene, che quello che è un rito di passaggio per noi sia un rito di passaggio anche per lui: prendere una coda, perdere la coda.

La cosa del video è molto importante per quelli della mia generazione, ma i miei non lo capiscono. Dicono che è crudele. Non sono aggiornati sulla scienza, vorrei dire loro, ma non mi sembra il caso di perdere tempo a discutere, e poi li rispetto troppo per umiliarli così. La verità è che è davvero un momento in cui un giovane può dimostrare di essere cresciuto, di aver capito che c’è dolore e dolore, e che saper sopportare la sofferenza altrui, quando è così piccola e così trascurabile, quando appartiene a una coscienza così tenue da potersi disfare da un momento all’altro come un soffione, è un segno di maturità. È un momento, almeno nella mia interpretazione, in cui dimostriamo che un giorno, all’occorrenza, saremo dei buoni soldati, poiché, se sappiamo far soffrire senza motivo, senza dubbio sapremo essere crudeli quando il bisogno ci sarà. Per questo, credo, si è scelto lo strighiro: un animale così piccino, così carino, così soffice. Non sono caratteristiche da ignorare, bisogna agire tenendone conto. È proprio lì, tenendo presente la tenerezza, l’inermità, di ciò che si va a mutilare, che si cresce.

E poi questo video lo fanno tutti. C’è chi non prende la patente. C’è chi non perde mai la verginità. C’è chi non troverà mai un lavoro e chi, pur avendolo trovato, non avrà mai abbastanza soldi per lasciare la casa dei genitori. Ma tutti strappano la coda di uno strighiro. Io, che per la mia condizione non posso prendere la patente, che per la mia brutta ghigna infelice sarà difficile che venga mai scopato, che non sono abbastanza bravo in niente e che appartengo a una famiglia senza grandi mezzi, l’unica cosa che ho è il mio cinismo. Forse non mi so barcamenare con l’algebra, ma so che due più due fa quattro. So che dio non esiste, l’inferno neppure, che le emozioni e le sensazioni sono quasi tutte passeggere, so che sono in grado di fare quasi tutto. Non ho problemi a fare questa cosa dello strighiro.

Bisogna filmarlo, perché la coda non fa testo. Ci sono mille modi per procurarsene una e quindi  si deve filmare, e poi mandare il video nel gruppo, per la verifica.

C’è anche un altro motivo per cui si fa un video, da quello che mi hanno detto due compagni più grandi. Dicono che è più facile, una volta fissato il telefono a un treppiede, guardare quello che si sta facendo nello schermo, piuttosto che a occhio nudo. Questo mi sembra un po’ contraddittorio. Se è più facile, dov’è che si esercita e si dimostra la crudeltà necessaria? Mi fa pensare, per un attimo, che i due compagni che me l’hanno detto abbiano voluto mettermi alla prova. Che, in realtà, i veri uomini non guardino attraverso lo schermo. Me l’hanno detto, di sicuro, perché pensano che io sia uno smidollato, un mollaccione, una merdina, un niente. Hanno guardato la mia faccia, la larghezza delle mie spalle, l’altezza dei miei zigomi, la curvatura della mia schiena, ma non mi conoscono, ma credono di conoscermi.

Oggi sono andato al negozio di animali e ho comprato lo strighiro. Sono arrivato a casa e mi sono chiuso in camera, dove avevo già preparato il treppiede che avevo ordinato qualche settimana fa e dove, sulla scrivania, avevo lasciato il coltello da pane, con il bordo seghettato. Ho fatto partire il video, prima ho inquadrato me con lo strighiro in mano, poi ho fissato il telefono sul treppiede, la telecamera rivolta alla scrivania. Non c’è stato neanche bisogno di sedarlo; era così calmo, proprio come diceva wikipedia.

Credo di aver deciso in quel momento che non l’avrei guardato attraverso lo schermo del telefono. Non andava cambiato niente nell’inquadratura, e lo strighiro, fino a che non avessi cominciato, non si sarebbe mosso. E anche quando avessi cominciato, una sola mia mano era abbastanza per tenere il suo corpicino schiacciato contro il tavolo per tutto il procedimento. No, avrei guardato lo strighiro da fuori lo schermo, anche se nessuno l’avrebbe mai saputo, nessuno ci avrebbe mai creduto. Non importava: lo volevo fare per me, per provare a me stesso che 1) se tutti gli altri lo facevano così e quei compagni mi avevano mentito, allora ero uomo quanto loro e 2) se gli altri davvero guardavano lo schermo perché non riuscivano a reggere la visione diretta della scena, allora ero anche più uomo di loro, più uomo di tutti loro nonostante fossi in tutto il resto peggio.

Ho aperto una mano e gliel’ho appoggiata addosso, coprendo il collo e il petto, e l’ho tenuto schiacciato contro la scrivania. Con l’altra mano ho cominciato a lavorare col coltello da pane, ma non era un lavoro facile, non era un lavoro rapido.

Guardavo la scena e pensavo: va bene, va bene così. Non c’è niente di terribile. Lo strighiro effettivamente cominciava a uggiolare, a guaiolare, a fare dei suoni patetici, gutturali, ad avere delle specie di singulti, ma riuscivo a tenerli a bada, quasi a ignorarli del tutto. Mi dicevo: questi suoni potrebbero essere una bella messinscena. Questo strighiro potrebbe essere un bel furbetto. Mi sono anche detto, a un certo punto: ma io questo stronzetto furbetto di uno strighiro lo guardo anche negli occhi, se voglio. E lì ho sbagliato.

D’un tratto non potevo più evitare di ricondurre i suoni a quello sguardo. Non era uno sguardo umano, non è questo il punto. Era lo sguardo più animale che potesse esserci, credo. Non era uno sguardo dolce, come tutto è dolce nello strighiro, era uno sguardo di pura disperazione, di puro terrore, del terrore di chi ignora quello che gli sta succedendo. Ora che ero finito nel fascio di quello sguardo, non riuscivo più a staccarmene, non riuscivo più ad uscirne.

Il dolore era indicibile, ma cercava di farsi dire lo stesso: mi usciva a guaiti, uggiolate, urla che mi sembrava dovessero crepare il soffitto, che invece rimaneva intatto, imperturbato. Urla che avrebbero dovuto crepare almeno il soffitto del mio cranio, farmi saltare i denti dalle gengive, schizzare fuori gli occhi dalle orbite e, invece, inspiegabilmente, tutto rimaneva al proprio posto. Urla da niente, insomma. Gridavo, ma senza effetto; guardavo, ma non vedevo quel che guardavo. E poi sentivo un macigno sopra di me, un calore pesante che mi teneva fermo. No, non fermo, perché, ero sicuro, mi muovevo tutto il tempo. Anzi, non ero io che mi muovevo, era il corpo che mi si muoveva, erano i muscoli che tremavano, che mi schizzavano via da tutte le parti. No, quindi, quel peso non mi teneva fermo, non teneva ferma nemmeno una fibra dei miei muscoli, ma mi teneva giù, giù contro il tavolo gelido. E mi sembrava che la mia vita fosse a quel punto una cosa molto piccola, una cosa minuscola schiacciata tra il calore di quel macigno e il gelo di quel tavolo, una cosa spremuta, era, la mia vitucola, la mia flebile animula, una robetta, uno spiffero, un quasi niente. Devono essere passate ore così, un tempo lunghissimo in cui sono stato attraversato solo da ondate di dolore, onde con la loro cresta, un picco di insopportabile bruciore che sembrava dovermi perforare, dall’interno verso l’esterno e poi un momento più o meno lungo di distensione, di irritazione diffusa che fingeva di preannunciare la fine del dolore, che poi, però, tornava, sempre, in una nuova ondata. Ore di onde, così, pensando solo alla prossima, cercando di concentrarmi sui momenti in cui il dolore era meno intenso, di farli durare, cercando di sprofondarvici, ma venendo sempre ripreso da una successiva intensità ancora più lacerante, quasi come se prevederla non la attenuasse, ma anzi, la rinforzasse con il terrore della mia attesa. E poi, dopo ore o forse giorni, quella calda pesantezza si è sollevata, e a un tratto è rimasto solo il freddo sotto di me, solo il freddo di sotto e bruciore ovunque. Ero libero. Libero di svenire, di gridare per altri cent’anni e per cent’anni contorcermi, libero di farmi esplodere il cranio finalmente. Il mio corpo ha optato per lo svenimento.

E quando è svenuto ho sbattuto le palpebre. Il lavoro era finito. La coda, il coltello da pane, il corpo dell’animale e le mie mani erano ancora nell’inquadratura, sulla scrivania. Ho fermato il video, e mi è sembrato di muovermi per la prima volta da tanto tempo. Ho preso lo strighiro e l’ho rimesso nella scatola con cui me l’hanno venduto al negozio. L’ho portato giù, in cortile, vicino a quei fiori azzurri di cui non so il nome, e ho aperto la scatola. Quando riaprirai gli occhi sarai libero, gli ho detto, sempre che tu riesca a tornare del tutto, proprio del tutto in te.


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