Aristide

Testo: Giovanni De Maria
Copertina: Senza titolo – Pablo Follieri

Mi chiamo Aristide, ho già pagato per questo, in molti modi. È un nome del cazzo. Sei sempre tra i primi. Poi di cognome faccio Autieri, doppia A. Non si fa, genera pressioni inutili, lo sanno tutti, almeno la A del nome avrebbero potuto risparmiarmela. Si capisce che il rapporto genitori – figlio non avrebbe potuto che peggiorare.
Con mio padre non parlo più dal ‘96, con mia madre è stata più dura, è arrivata a umiliarsi fino al 2003, santa maria goretti dei miei coglioni.
L’anno scorso i due cancri sono andati a Lourdes – certo che li seguo da lontano e prego l’universo che li faccia morire ma non succede mai, sopravvivono a tutto -, ora l’hanno chiuso, tutto interdetto (era ora. Quel ricettacolo di infezioni forse ha davvero del miracoloso o non si spiega come tornino tutti indietro ancora vivi). Tutti a casa, c’è la pandemia! E così quest’anno niente pullman granturismo, niente preti con la chitarra e altri vecchi marci più di mamma e papà. Tutti chiusi a casa, col sole che scioglie le strade deserte. Tanto per loro non cambia poi molto, la vita sociale di quei due budelli ripieni di borghesia consiste da sempre in una cena fuori ogni tre o quattro mesi, il cinema a Natale, i loro ex-colleghi ributtanti. Tutti a casa! Non chiedevano di meglio. E mi controllano. Ora hanno dalla loro anche il potere delle ordinanze, e dello stigma sociale, e dei morti.
Io li vedo, compresi nel ruolo di cittadini finalmente presi a modello e non per il culo. Il padre, l’eroe della penetrazione mancata, solo una volta riuscita, a pontificare davanti alla televisione o con le sue riviste, la vittima Lidia a sbeccarsi le unghie come sempre, lavori di casa, cucina, cucito – le riuscisse almeno bene –, le sue telefonate interminabili e vuote con sua sorella Clara, oddio, perfino più stupida di lei. Come è stato possibile che nessuno le abbia uccise finora è un mistero. Ci ho provato, le stelle sanno se ci ho provato! Sono immortali quelle due meduse. Ho manomesso i freni delle automobili, contraffatto il caffè della mattina svegliandomi di notte, edulcorato i pranzi della domenica, hanno sempre scoperto tutto. E mai mi hanno condannato, nemmeno denunciato o fatto rinchiudere da qualche parte, sono libero. L’unico che avrebbe potuto punirmi senza l’aiuto della legge, senza controlli, essere giudice e boia, mio padre, non ha le palle per farlo, sono più forte di lui. Non fisicamente, di cervello. Buono solo a lavorare, quello. E lavorasse, il ciuchino. Povero stronzo. La pensione lo ha sconvolto così tanto che ha dovuto inventarsi un altro lavoro. Avrebbe lavorato gratis. Avrebbe pagato per lavorare, per avere un padrone.
Io li sento, dalla mia stanza i rumori della loro esistenza arrivano senza pietà, senza sosta, per niente distratti dalla televisione. Almeno hanno fermato il campionato di calcio. Dopo mia madre e mio padre, i telecronisti di calcio sono le persone che odio di più al mondo, con le loro voci massacranti, i loro inganni, gli urletti. Andrebbero appesi ai riflettori degli stadi. Non che gli altri sport mi appassionino molto di più. Le auto e le moto però mi conciliano il sonno, è già qualcosa. L’unico sport che mi piace praticare o vedere alla televisione è il biliardo. Lì ci vuole cervello, abilità, strategia. Non mi sono mai spiegato perché non sia uno sport più popolare.

Se ripenso ai tentativi di omicidio, devo ammettere che alcuni sono stati molto ingenui, grossolani. Ogni cosa si impara.
Mi avessero dichiarato pazzo avrei potuto argomentare, dimostrare che non sono affatto pazzo, sono perfettamente lucido, capace di intendere e solo io so quanto capace di volere. Del resto se fossi pazzo non desidererei la loro morte, questo è sufficiente a provare contro ogni dubbio la mia salute mentale. Invece mai mi è stata data questa possibilità, non mi è stato concesso difendermi dalle accuse e dai silenzi. Mi hanno bollato pazzo senza dirlo, malato di mente e perdonato per ogni tentativo di omicidio. Però controllano ogni mia mossa – questo lo capisco. Maledetti, certo che lo capisco. Sono diventati paranoici, gli faccio paura e hanno ragione. Ma la loro paranoia non è sana, è viziata, annacquata dalla religione e soprattutto dalla loro stupidità. Faccio loro paura come hanno terrore di dio e mi perdonano tutto come lo perdonano a dio –, hanno provato a chiudermi in casa con le loro moine, i tranelli, ma io non ci casco. Caro papà, cara mamma, la paranoia in questa casa l’ho portata io, non crediate di potermela insegnare.

Ogni mattina ero abituato a uscire per una salutare passeggiata, la colazione e la lettura del giornale; due chiacchiere col barista, una sigaretta e a lavorare per il tempo necessario, di solito non più di un paio d’ore. Non bisogna essere avidi, mi sono sempre bastati i soldi guadagnati con un giro di spaccio limitato, composto di amici, un paio di conoscenti, fumatori abituali, gente che compra lo stesso quantitativo di fumo da anni. Ero in grado di dire in anticipo quanto avrei guadagnato il mese successivo. Maledetto virus, è tutto chiuso, bar chiusi, strade deserte, frequentate solo da cani tenuti al guinzaglio dai loro rispettivi coinquilini bipedi. Qualcuno fa jogging, come se conservare la forma fisica non fosse una completa pazzia, un’idea da squilibrati, nemmeno le pietre conservano la loro forma fisica, come si può ingannare sé stesso fino al punto di credere che un essere umano possa evitare il deterioramento e arrivare alla morte senza le fermate intermedie!
Cammino da solo, la città sembra sommersa dalle acque. Mi hanno fermato i carabinieri, ma io avevo la mia brava autocertificazione che dichiara che devo muovermi per lavoro. Ne ho stampate e redatte venticinque, voglio arrivare a cento. Di vero c’è solo il mio nome, ho inventato venticinque lavori diversi e credibili con la mia fisionomia (ho la faccia da architetto, da avvocato, ma non da commercialista, da carrozziere con una certa cura dei dettagli, ma non da fornaio). Ogni giorno ne scelgo una diversa, ma i carabinieri nel quartiere sono sempre gli stessi, mi hanno fermato una volta e ora sono soddisfatti, danno per scontato che io abbia sempre la stessa storia.
Con questa schifosa pandemia in giro il tempo per pensare è aumentato a dismisura – e mai che abbia ascoltato una riflessione nuova, ogni giorno le stesse cose di sempre, devo accontentarmi di piccole invenzioni, di falsificare autocertificazioni, che fine ignobile! – e così, tra i vari miei divertissement, improvvisa è arrivata, come sempre le idee geniali, la trovata della vita. Qui si muore a frotte, non esistono cure, chissà quanto tempo ci vorrà per un vaccino efficace e nonostante tutti i loro controlli, le telecamere in casa perfino nel cesso, mammina e papino non potranno difendersi dal virus. Il delitto perfetto attraverso un microscopico amico. Devo ammalarmi. Il virus colpisce tutti ma uccide in prevalenza gli anziani, lo dicono le statistiche dei morti. La terza età è un concetto che per papà Ettore e mamma Lidia si ammanta di mistero, perché per esserci una terza età dovrebbero esserci state la prima e la seconda, invece sono sempre uguali a loro stessi, solo la forma esteriore si modifica. Ad ogni modo, vecchi sono vecchi, io dovrei sopravvivere e loro morire. Ma non escono di casa nemmeno per fare la spesa, i due paranoici, se la fanno consegnare a casa e lasciare sul pianerottolo. Devo ammalarmi e contagiarli.
Aspetto fuori dalle edicole e dai tabaccai, dove le file sono più confuse, la gente ha paura di stare fuori dai marciapiedi anche se non circolano più le macchine. Tocco tutto e metto le mani in bocca. Ho visto un vecchio sputare e ho raccolto il catarro con un fazzoletto, purtroppo lo schifo mi ha impedito il contatto con la materia giallognola.
Secondo i miei calcoli dovrei aver contratto il virus. Il tasso di contagio è altissimo in questa zona e tutto lascia supporre, da un punto di vista statistico che io sia affetto dal virus. È possibile che io sia asintomatico, ma se i conti sono giusti dovrei essere contagioso. L’ultimo problema, il più spinoso, una vera tortura, è avere dei contatti con i due cactus deambulanti. Non rispondo alle loro domande da anni e sono troppo paranoici per credere a un mio riavvicinamento spontaneo, devo lavorare di astuzia. Tocco tutto quello che posso maneggiare senza lavarmi le mani, fingo colpi di tosse inconsulti. Microscopico amico, fai il tuo dovere, uccidili. Falli soffrire, tossire, rantolare. Voglio godere la loro agonia, filmarla, rivederla, memorizzare tutti i suoni, fino all’ultimo respiro.

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