Johnny

di Dimaco
Copertina: Un attimo prima di svenire – Antimonio

Capitò all’improvviso, nel bel mezzo di Forum.
Un giudice odioso si stava accanendo contro una moglie fedifraga bionda tinta, che già aveva contro un marito pelato e la suocera. Lei tifava per l’adultera, e proprio al culmine del di lei argomentare, puf! Il televisore si spense senza un gemito.

“Oh porca martina!” espresse col suo massimo disappunto, però un bel dieci secondi dopo la cessazione delle attività elettriche all’interno dell’apparecchio, ché tanto ci mise a realizzarne la dipartita.
Era un Mitsubishi ventinove pollici, adesso feretro catodico ma all’epoca top di gamma, che dismesso da suo figlio subentrò tredici anni fa a un Seleco senza più argomenti: la ruota della vita.

Il suo povero Anselmo aveva fatto in tempo a vederci i mondiali del 2006, poco prima che anche lui, puf!, ci rimanesse per un colpo, proprio lì sul sofà.

Lo avvicinò con circospezione, in punta di piedi. Ruotandolo molto lentamente lo esaminò dal retro, da dove esalava il tipico odore di plastica bruciata dei televisori morti.
Ripensò sgomenta a racconti terroristici sentiti in panetteria di deflagrazioni devastanti e alloggi sventrati a causa di malfunzionamenti non compresi.
Fu quello che chiese a suo figlio per telefono, quando poco dopo lo avvisò dell’accaduto. “Guarda che non va mica a gas, domani andiamo a comprarne un altro.” fu la sua risposta.

Per quella sera si ritrovò senza controparte. Provò ad accendere la radio, una vecchia radiolina analogica a pile, talmente poco usata che dovette spolverarla prima. Girò qualche canale a caso, incrociò Radio Maria parecchie volte, e poi altre stazioni producenti atroci rumori di martellamenti sonori, insieme a uno che cantava con una voce tipo quella degli stomizzati. Erano parecchi anni che non ascoltava la radio, e se la ricordava come qualcosa di più suadente e confidenziale. Evidentemente lo schiacciasassi del tempo doveva esserci passato sopra. Spense e passò oltre.

Guardando dalla finestra, quella che dava verso la via, non ci trovava nulla di interessante. Vi si accostava solo quando doveva pulire i vetri. Per lei non era un punto di osservazione, ma uno schermo di protezione. Provò ad aprire.
Fuori c’era una città tutta nuova che qui dentro però non era mai entrata. L’aria fu subito piacevolmente frizzante, ma non era abituata né alla brezza notturna né alla gibigianna dei neon delle insegne. E quel vociare là sotto le provocava un senso di fastidio, le pareva minaccioso come tutte le novità. Richiuse le imposte e portò la serranda a filo del davanzale.

Si sedette allora sul divano e impugnò la rivista di gossip, in un momento atipico perché questa era la prassi della mattinata dopo il riassetto di casa.
Si guardò intorno, nel silenzio non abituale per quell’ora.
Il gatto castrato molto anziano, pieno di macchie di rogna sul muso, tossiva e perdeva peli.
La tappezzeria… sarebbe stata tutta da strappare via, e c’era sempre odore di chiuso. Una macchia di umido conquistava giorno dopo giorno centimetri sul soffitto del tinello.
In pochi minuti gli occhiali le penzolarono giù dal collo, salvati dalla cordicella, con lei inarcata un po’ verso destra, vibrando per il lieve russare.

. . . . .

“Fai tu, io cosa vuoi che ne sappia di televisioni.”
Così ci mandò così suo figlio a comprarne uno nuovo. Si raccomandò la facilità di utilizzo.
“Viene il tecnico nel pomeriggio, te lo sistema lui e ti spiega come usarlo. Poi passerò anche io sabato”
Il tecnico arrivò, installò e accese. Sintonizzò tutti i canali.
La tivù faceva molta più luce dell’altra e lo schermo piatto era davvero una grande trovata: poteva girarlo per pulirlo dietro.
Mentre sorseggiava il caffè offerto, lui le spiegava l’utilizzo del telecomando. Lei intanto ne aveva contato i tasti. Erano sessantacinque, variamente colorati. Impossibile.
Il tecnico era gentile e paziente, ma lei il “surround” proprio non riusciva a capire a cosa servisse. A un certo punto lui si scusò ma aveva ancora altre due consegne da fare, e dovette andare via.
Prima però chiese dove era il vecchio cadavere elettronico da portare a inumare all’ecocentro, ma lei disse che se lo teneva perché serviva a suo figlio, che doveva farci un chissachecosa. Bugia.

Il televisore defunto, carrello e tutto, era stato trasferito in salotto.
Nessuno sapeva che si chiamasse Johnny, cioè, che lei lo chiamasse Johnny: meglio non farsi prendere per scema già più di quanto non facessero.
Un centrino rettangolare bianco e grigiastro, frutto di ore di uncinetto, lo adornava sulla sommità, sulla quale un vaso di singonio faceva da capigliatura, connotando Johnny con un ciuffo di verde tenue.
In realtà non faceva molta differenza il fatto che adesso non potesse più accenderlo, perché tanto le cose importanti se le dicevano quando era spento.

L’antropomorfismo degli oggetti di casa è una pratica comune a molte persone in là con gli anni.
Non ricorda quando battezzò così il televisore, ma cominciò a dialogarci più di frequente da quando combinò quella marachella. Bè, più che una marachella era un segreto.
La figlia della Nora, la nonnina decrepita e tremolante che abitava due piani sotto, le aveva chiesto la cortesia di andare a buttarle dei farmaci di troppo, che non andavano più bene, per evitare che la madre facesse confusione con tutti quelli che prendeva. Lei diligentemente aveva preso le scatolette indicate, certo però che… non erano scaduti. Costavano un botto, tra l’altro: la indispettiva il fatto che la mutua passasse dei farmaci così cari per una rimbambita tale, roba da duecento euro la confezione. La Nora poi, le aveva anche detto che erano formidabili, e le davano un sacco di energia e entusiasmo. Troppo entusiasmo: la figlia era dovuta andare a recuperarla all’aeroporto una volta, ci era andata in taxi perché voleva vedere i vip.

Lei queste pasticche prodigiose non le aveva buttate. Ne aveva provata una, e caspita se aveva ragione la Nora!
Con cautela, ne prendeva solo una ogni tanto, quando si svegliava e vedeva che la giornata no, non ingranava. Non si azzardava a parlare con altri di noia, perché si vergognava a dire che si annoiava.
C’erano giornate che però non passavano mai. Così agevoli da prendere e buttare giù (erano piccole piccole), quelle pilloline in mezz’ora le davano una scossa, ma una scossa vera, come se si attaccasse alla presa della corrente. Le veniva una gran voglia di parlare, e fare, e cantare, e non si fermava più.

Johnny era il suo scrigno delle meraviglie. La accompagnava minuto dopo minuto nel grande spettacolo dell’intensa giornata di una donna murata volontariamente nel suo appartamento.
Che fossero le breaking news che annunciavano una catastrofe ambientale agli antipodi, o un cuoco bestemmiatore a spadellare in diretta, o il commissario negro a caccia di malfattori nel Bronx, o i Looney Tunes, Johnny era l’impeccabile maggiordomo e lei la contessa dei quarantacinque metri quadri.
E la sera Johnny era lascivo e ammiccante, ché da quando oltre la fascia protetta si trasmettevano contenuti consigliati a un pubblico adulto, diveniva complice dei ricordi di gioventù. Alla fine lo spegneva, sussurrandosi un delicato “Buonanotte”

Johnny era discreto e premuroso, e anche attento a passare gli spot pubblicitari al momento giusto per permetterle di andare in bagno, o svuotare la lavatrice. Lo salutava quando scendeva per fare la spesa: “Torno subito, eh!”, e quando rientrava chiedeva “Tutto bene?”
Johnny era più affettuoso del suo gatto, che poi non era neanche suo ma di suo marito e lei lo odiava perché mangiava e scorreggiava e basta, e le sarebbe piaciuto lanciarlo dal balcone per vedere se davvero i gatti atterrano in piedi, ma non ne aveva il coraggio.
Johnny era certo meglio del suo povero Anselmo, che si lamentava sempre e Johnny invece mai.
A Capodanno avevano cantato insieme, lei e Johnny.
Johnny illuminava la stanza. Sembrava sorridere sempre.

. . . . .

“Credo di non aver capito bene… esattamente, perché lo vuoi tenere? Ne hai uno nuovo di pacca, questo è rotto e non si può riparare… cosa te ne fai?!?”
Era in difficoltà ad argomentare col figlio. E aveva anche un gran mal di testa. Oggi di quelle pastiglie ne aveva prese due, ma non funzionavano mica
“Ci sono affezionata. È roba mia. E poi se lo tolgo in salotto cosa ci metto? E dove lo metto il singonio? E il centrino?”
“Ma comprati, non so, una vetrinetta, un tavolino…! Ma porca miseria, che vogliamo fare qui, la discarica?!”
Lo guardava con livore.
“Dai, non ho tempo adesso. Domani ti porto al mobilificio. Adesso mi prendo ‘sto coso, che pesa pure un casino, e lo vado a buttare…”
Si girò per studiare una postura adatta a sollevare il catafalco senza spaccarsi la schiena.

Il vaso di ceramica con su scritto “Saluti da Laigueglia” si frantumò in coriandoli all’impatto contro la nuca del figlio, che si afflosciò sul tappeto.
Lesta corse a prendere lo scopino e la paletta, per ripulire quell’intollerabile disordine.
“Stai tranquillo, Johnny. Finché ci sono io a te nessuno ti tocca”
E Johnny, in silenzio, apprezzò quella rassicurazione.

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