La festa

di Vincenzo Politi
Copertina: La strada – Julio Armenante

Capitolo 1

Devo andare alla festa.
Devo prepararmi per andare alla festa del cinquantesimo compleanno di François, ma non ci riesco. Forse non ci voglio andare, a quella festa. Io, François, manco lo conosco. Lo conosco di vista, diciamo. È il ragazzo di Jacques. Anzi, il marito. Si sono conosciuti a Parigi, poi François ha accettato il lavoro a Miami e, visto che l’azienda paga la relocation anche ai coniugi, si sono sposati in quattro e quattr’otto per approfittarne. Sposati dopo solo cinque mesi da quella notte in cui avevano ballato assieme in quel piccolissimo locale pieno di fumo e di sguardi a le Marais. Cinque mesi di fidanzamento e diciannove anni di differenza: a loro va bene così.
Dopo Miami, e sempre per il lavoro di François, si sono trasferiti qui a Città del Messico. Infatti Jacques l’ho conosciuto al corso di spagnolo. Io e Jacques, assieme ad altri, abbiamo cominciato a vederci anche fuori dal corso. Siamo diventati amici nel modo in cui lo diventano quelli che non hanno in comune niente, se non la condivisione di un’esperienza: compagni di trincea, amici di fortuna presi in affitto come quella casa al mare che sembra casa tua, e forse a volte vorresti lo fosse, ma non lo è.
La settimana scorsa siamo andati nella grande casa di Jacques e François, nel quartiere San Ángel. Gli altri c’erano già stati, io no. François ci ha presi tutti in simpatia e ci ha invitati per il suo compleanno. Tutti hanno detto che sì, ci sarebbero andati. Jacques insisteva affinché anche io dicessi di sì e alla fine anche io ho detto di sì. Però adesso non ci voglio più andare. Devo andare alla festa, ma non voglio.
Forse è per colpa della stanza. È la stanza che mi trattiene. Fra dieci giorni devo lasciare questa stanza in questa casetta al centro di Coyoacán. Devo lasciare Coyoacán e Città del Messico e il Messico. Fra dieci giorni mi trasferisco a Parigi. Devo preparare le cose. Pulire la stanza. Togliere via dalla stanza tutta la vita, i pensieri e il fiato di questi due anni. Mi chiedo come sarà la mia prossima stanza. L’amministrazione della Cité Universitaire mi ha già assegnato uno studió. Sono davvero fortunato: trovare casa a Parigi è difficile, trovare casa a Parigi dal Messico è surrealismo.
«You go à la Cité Universitaire?», m’ha chiesto François la settimana scorsa, quando sono stato a casa sua nel quartiere di San Ángel. Il suo accento francese è molto forte. «¡Qué bueno! I know that place. One of my best amigos lived there pendant son doctorat. C’est trés jolie, you’ll see!».
«You’re gonna love Paris, mi querido», ha detto Jacques. «I’m sure por fin tu vas a encontrar l’amour!». François odia Parigi e preferisce Città del Messico. Jacques ama Parigi e anche Città del Messico. A volte mi chiedo cosa faccia Jacques nella vita. Comunque, io non ci voglio andare a Parigi. Non voglio tornare in Europa. E non voglio andare alla festa. Voglio starmene nella mia stanza, respirarla fino all’ultima particella di polvere e luce.
Forse è per colpa del cielo, che sembra un soffitto di vapore oscuro che si avvicina, minaccioso e indifferente. Un cielo che promette la pioggia. Forse è la promessa della pioggia a paralizzarmi. Sono a letto e non riesco a muovermi.
Devo sbrigarmi: se scoppia davvero a piovere sono nei casini. Però non mi muovo. È per colpa della stanza e del cielo. È tutta colpa mia.
Magari piove. Ojalá! Uno di quei temporali di Città del Messico, quando il cielo si apre e tutta la città affoga in un turbine verde, grigio e luminoso. Se solo potessi rimanere a casa, nella mia stanza, a vedere il cielo che piange.

Capitolo 2

Quando piove, Città del Messico sembra Venezia.
Quando piove, non esiste più Città del Messico e non esiste più Venezia.
Esiste solo la pioggia.

Capitolo 3

Forse questa tenaglia che ho in testa ha cominciato a darmi il tormento qualche ora fa. Questo pomeriggio, infatti, mi ha telefonato Giovanni. All’inizio aveva cominciato coi messaggi su WhatsApp, come stai e che stai facendo, poi mi ha telefonato. Ero un po’ sorpreso e anche emozionato: non lo so nemmeno io da quanto tempo non ci sentissimo. Da anni. Dieci, o di più. In tutti questi anni siamo rimasti in contatto, certo: ci siamo mandati dei messaggi per le feste comandate – se no, come avrebbe fatto a conoscere il mio numero messicano? Però non mi aspettavo che mi telefonasse e che parlassimo per due ore.
Giovanni mi ha telefonato per dirmi alcune cose della sua vita. Una storia di un anno con una ragazza che lo ha illuso, lo ha manipolato e lo ha fatto diventare pazzo, o almeno così dice lui. Per questa ragazza, e per la prima volta in vita sua, Giovanni ha pure pensato di andare dallo psicologo – proprio lui, che non ha mai creduto nella psicoterapia e manco nella pura e semplice introspezione, tanto che ogni volta che Giuseppe parlava lui se la rideva come se si stessero raccontando barzellette che facevano ridere solo a lui. Alla fine, comunque, dallo psicologo non c’è andato. Dice che da questa strana storia con questa strana ragazza ce l’ha fatta a uscirne da solo. Poi mi ha anche detto che suo fratello è morto, perché aveva un tumore.
Giovanni mi ha telefonato per questo. Voleva farmi sapere com’è andata la sua vita in quei dieci anni. Più parlava, più il terrore mi assaliva. Nella mia vita non è successo nulla, né amori né morti. Questi dieci anni sono trascorsi nel nulla che mi divora, una voragine che cresce di anno in anno, di giorno in giorno. Cresce col trascorrere dei minuti, la voragine del tempo sterile e smarrito nella quale la mia vita precipita assieme a ogni possibilità di senso. Sarebbe bastata una sola domanda, da parte di Giovanni, per smascherarmi. Allora ho cominciato a chiedergli tante cose, a domandargli di questo e di quello. Più Giovanni rispondeva alle mie domande, più mi rendevo conto che lui, in tutto questo tempo, è rimasto in contatto con moltissime persone. Con Fabio, Carlo, Luca… Hanno pure un gruppo su WhatsApp, dove si scrivono tutti quanti. Per dirsi cosa, non l’ho capito.
Gli ho chiesto: «Com’hai fatto a rimanere in contatto con tutti i ragazzi del vecchio appartamento della Casa dello Studente? Una volta io e tu c’eravamo pure fatti quella litigata epica, proprio con loro. A dire il vero, all’inizio Fabio e Carlo ce l’avevano solo con te, poi hanno tirato in mezzo pure me. Ma io che c’entravo? E perché avevamo litigato?»
Giovanni ha detto: «Erano litigi che succedevano così, per il nervoso, perché eravamo in tanti, in quell’appartamento, e tutti con il nostro bel carattere. Erano i nervi della gioventù».
Allora mi sono ricordato che, in fin dei conti, il più delle volte in quell’appartamento si stava davvero bene.
Mi sono ricordato anche della festa che avevamo organizzato per la laurea di Luca, che era lo studente più serio di tutto l’appartamento. Almeno lo era stato i primi tempi, perché al suo ultimo anno Luca si rivoluzionò. Cominciò a stare in piedi fino a tardi, a parlare del più e del meno; prese a uscire coi suoi amici della facoltà, che erano avvinazzati come pochi, e spesso tornava a casa ubriaco e, da ubriaco, Luca era simpaticissimo e faceva morire dal ridere, perché certe battute da lui non se le aspettava nessuno. Luca ci spiegò che era normale così: studiare Medicina era molto stressante e tutti gli studenti di Medicina, per sopportare questo stress e la puzza di morte dell’obitorio, bevevano, fumavano, si facevano di tutto. È normale, diceva Luca.
Allora cominciammo a volergli ancora più bene e decidemmo di organizzargli la festa di laurea più bella del mondo. Come riuscimmo a fare entrare tutta quella gente nel nostro appartamentino miserabile rimane un mistero. Avevamo spostato i mobili, il tavolaccio di plastica vecchia lo avevamo addobbato di bottiglie, caraffe colorate, bicchieri. La festa si svolse principalmente in camera di Fabio e Carlo, dove Giovanni metteva la musica per fare scatenare tutti quanti. La gente ballava in quella stanza, ma anche sul terrazzo. Molti bivaccavano in corridoio. Tutti a battere le mani e urlare «Luca! Luca! Luca!» e lui, che aveva sempre la faccia seria da dottore, quella sera aveva un sorriso imbarazzato da bambino orgoglioso e timido. Guardando quel sorriso e la faccia arrossita di Luca, il mio cuore si riempiva di tenerezza.
Pensavo: ti voglio bene, Luca. Pensavo: vi voglio bene tutti. Vorrei che lo sapeste. Vorrei saperlo dire. Ma non ci riesco. Anche adesso che ballo con voi non riesco ad abbracciare i vostri corpi, donarvi il mio calore, non riesco a mischiare il mio fiato col vostro, perché la mia mente è sempre altrove.
Voi siete qui, ma io no.

Capitolo 4

Tutti ricordano come finiscono le feste – chi sono gli ultimi a andare, chi rimane a dare una mano a raccogliere i piatti e i bicchieri rotti, per quanto tempo le risate se ne staranno a rincorrersi di eco in eco fra le pareti, fino a dissolversi nella frescura indifferente della notte. Nessuno che ricordi mai di come comincino. La prima canzone. I primi ad arrivare. Quand’è che comincia veramente una festa?

Io non me lo ricordo come cominciò la festa di Luca. A che ora cominciammo. Chi furono i primi ad arrivare. Ricordo solo che, col trascorrere delle ore, cominciavo a sentirmi leggero. E, leggermente, aspettavo che arrivasse Daniela. La mia festa sarebbe iniziata solo con l’arrivo di Daniela e gli altri, quelli con cui ballavo e parlavo, non erano che distrazioni.
Daniela arrivò portando con sé i colori della primavera custoditi dalle forme dell’autunno. Ci riusciva solo lei a donarmi una gioia così stremante, terrificante. La vidi mentre ancora salutava gente, baciava in faccia questo e quella. La vidi che ero dall’altra parte della stanza e allora la chiamai: «Danielaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!», urlai, con tutto il fiato che avevo nella gola e nei polmoni, come se la mia voce dovesse superare la musica pulsante delle casse di Giovanni, come se dovesse arrivare fino al Colosseo per svegliare tutti i gatti per avvertirli dell’esistenza di Daniela, che aveva la loro stessa luce negli occhi, ma solo quando non si accorgeva che io la stessi osservando. La chiamai urlando, come se quel mio urlo dovesse viaggiare lontano, fino all’altra parte del mondo, fino alla Luna, fino al muro di fuoco che imprigiona e protegge il nostro delicato universo liquido che si espande sfidando il nulla cosmico che lo avvolge da sempre.
«Cielo, mio marito!», esclamò Daniela pateticamente, portandosi il dorso della mano sulla fronte e facendo finta di svenire. Scoppiò a ridere e venne verso di me, mentre io mi avvicinavo a lei. Ci trovammo al centro della stanza, cominciammo a saltare mentre ci abbracciavamo, stringendoci, ridendo, con quelle nostre risate ignoranti e disperate.
Ci guardavano tutti. Eravamo uno spettacolo di follia. Lei mi chiamava ‘mio marito’, io la chiamavo ‘mia moglie’, tutti erano i testimoni di quel nostro amore così strano, inspiegabile. Quando ballavamo assieme, i sentimenti che io e Daniela provavamo esplodevano sui nostri corpi. Eravamo teatrali e teatralmente ci amavamo. Spudorati, come bambini che non volevano mai smettere di giocare. Io ci credevo davvero, che avremmo continuato a ballare per sempre sul palcoscenico della vita. Ci credevo davvero, che il nostro abbraccio non si sarebbe mai slacciato. Che non ci saremmo lasciati mai, mai, mai.
Ma Daniela quella volta andò via presto e io, durante quella festa, avevo già capito tutto. La guardai andare via e sapevo che stava uscendo dalle nostre vite, che stava andando a braccia aperte verso il suo silenzio, il suo enigmatico labirinto, il suo buio, dal quale non sarebbe uscita mai più. Daniela non avrebbe mai accettato l’aiuto di nessuno, nemmeno il mio. Avrei dovuto trattenerla fra le mie braccia, ma non ci sono riuscito. Non ho mai capito perché si odiasse così tanto. Ho solo capito che l’odio per sé stessa era così potente che alla fine, distruggendo la sua vita, Daniela era riuscita ad annullare anche la mia. Tutte queste cose le ho capite quella volta, alla festa di Luca, perché quella volta fu l’inizio della fine e io l’avevo già capito.
Ricordo che mentre provavo a raggiungere Daniela per convincerla a restare più lungo, nel corridoio gremito dell’appartamento mi ritrovai di fronte a uno strano signore che avevo l’impressione di aver già visto da qualche altra parte. Era molto stanco, quell’uomo così strano e fuori luogo. Mi guardò negli occhi con quelli suoi stanchissimi e mi disse: «Ancora non lo sai, ma questa festa è la fine del mondo. Letteralmente, da domani il mondo finirà».
Poi i suoi occhi caddero per terra e dalle orbite uscì un fumo grigio e le voci degli altri. Io alzai lo sguardo per cercare Daniela, ma lei non c’era più.

Capitolo 5

La festa di Luca durò fino all’alba. A un certo punto cominciarono a esserci movimenti strani, a formarsi coppie inaspettate. In quella festa, come in tutte quelle feste, c’era sempre qualcuno che si innamorava, che rimorchiava, che andava a scopare in un altro appartamento. Io, mai. Quella volta, mentre tutti si innamoravano, rimorchiavano o andavano a scopare, io rimasi a prendermi cura di Luca, che era ubriaco fradicio e che vomitò pure l’anima. Mentre tutti vivevano il loro corpo – muscoli, sangue e nervi – io pulivo il vomito di Luca, nella sua stanza, quella in fondo al corridoio. L’unica stanza singola dell’appartamento.
Nel suo delirio etilico, Luca mi raccontò molte cose della sua vita: del rapporto coi suoi genitori, di un suo amico che era morto in un incidente… Lui si disperava, ma non piangeva. Oppure piangeva, ma senza lacrime. Il giorno dopo aveva dimenticato tutto. Anche io, dopo tutti questi anni, l’ho dimenticato e non ricordo più com’è che era morto quel suo amico. Ricordo solo che Daniela non mi raccontava mai niente.
«E Giuseppe?», ho chiesto a Giovanni, mentre ricordavo tutte queste cose.
«Anche lui è nel gruppo di WhatsApp. Anzi, è il più attivo di tutti! Però io non l’ho mai contattato direttamente».
«Perché avevamo litigato anche con lui? Eravamo molto amici, io e lui. Anche tu e lui eravate molto amici. Poi abbiamo smesso di parlarci: perché? Io, davvero, non ricordo.»
«La sua ragazza l’aveva fatto impazzire. All’epoca non lo capivo. Adesso lo capisco. C’ho messo tanto tempo, ci sono dovuto passare pure io, ma alla fine l’ho capito».
Non sono sicuro se Giuseppe avesse smesso di parlare a me e a Giovanni solo perché la ragazza lo aveva fatto impazzire. Deve esserci stato dell’altro. Se no, perché Giovanni non lo ha mai contattato direttamente, nel gruppo WhatsApp? Perché continuano a non parlarsi dopo tutti questi anni?
La verità è che Giuseppe aveva smesso di parlarci perché ci odiava.
Giuseppe, Peppe, Beppe, Pippo, Puccio: con quanti nomi, lo chiamavamo. Lo chiamavamo anche Giuseppe ‘l’erotomane’, perché parlava sempre di fica. Poi solo Giuseppe il pazzo, perché era impazzito. Io e Giuseppe eravamo molto amici. Io ero un po’ innamorato di lui, allo stesso modo in cui lo ero di Daniela. Anche lui era un po’ innamorato di me, credo. Ma lo era anche della sua ragazza, credo.
Dopo le eterne chiacchierate con lui, che si era gettato nello studio della psicologia anima e corpo, con la disperata illusione di poter capire qualcosa di più di sé stesso, cominciai a essere più introspettivo. Giuseppe mi spinse a non voltare le spalle ai miei ricordi e alle mie esperienze, a non nascondere la polvere sotto i tappeti. Mi aveva spinto, e convinto, a essere più autoanalitico e autocritico. Grazie a lui, alle cose che mi diceva, ricominciai a scrivere i miei pensieri e i miei ricordi. Cominciai a esaminarli con più sincerità e spietatezza. A volte, lo stesso ricordo, lo stesso evento, lo scrivevo e lo riscrivevo più volte, ogni volta esaminandolo da prospettive diverse, scoprendo nuove connessioni, nuovi mondi, a volte anche remoti, con i quali piccoli episodi della mia vita erano riusciti a influenzare, o addirittura determinare, le mie scelte, la mia personalità. Per colpa di Giuseppe, o grazie a lui, vissi in uno stato di panico, angoscia e confusione permanenti, per mesi e mesi. Scrivevo senza sosta. Andavo in biblioteca ma, invece di studiare, scrivevo affannosamente, disperatamente.
Quell’anno non ritornai dai miei, al paese, per l’estate: m’ero trovato un lavoro alla concierge di un piccolo hotel del centro, volevo stare solo e scrivere furiosamente di me per tutta l’estate. Dovevo rimanerci solo per il mese di agosto, in quella concierge. Alla fine, ci rimasi e basta. Lavoravo e studiavo, senza tregua. Alla Casa dello Studente ci stavo solo per dormire e poi per farmi la lavatrice nel giorno libero. Nessuno si sarebbe mai aspettato che uno come me — lo studioso quattr’occhi — si mettesse a fare quella vita di turni di lavoro e cose pratiche.
Mi sentivo adulto. Mi sentivo migliore di tutti, perché lavoravo, conoscevo cose che gli altri, che erano studenti e basta, non sapevano. In realtà, mi stavo punendo. Mi stavo volontariamente privando delle feste e delle risate della Casa dello Studente. Dei miei amici. Credo che Giovanni non mi abbia mai perdonato, e ha fatto bene.
L’anno dopo lasciai la Casa dello Studente e andai a vivere all’appartamento sull’Appia, dopo Ponte Lungo. Mi sentivo orgoglioso e coraggioso, perché andavo a vivere da solo, mantenendomi col lavoro all’albergo. Pensavo che, avendo una camera tutta per me, avrei potuto vivere più pienamente. Avrei potuto rimorchiare e scopare. Avrei potuto innamorarmi per davvero, non come avevo fatto con Daniela e con Giuseppe, che non mi avevano mai amato davvero. Ero felice e orgoglioso. Felice della punizione che mi stavo infliggendo.
Me ne andai via dalla Casa dello Studente senza neppure fare una festa.
Alla fine, non mi innamorai di nessuno. Rimorchiai poco. Non è che scopai più di quel tanto. Provai a vivere il mio corpo e la mia emotività, ma lo feci nei modi più sbagliati possibili. Provai a vivere, ma la cosa mi uccise. Al punto da voler sparire, annientarmi. Certe notti, aprivo la finestra della mia stanza, così stranamente silenziosa, e mi veniva voglia di saltare dentro quel buio pieno di silenzio.
Intanto Giovanni, in tutti questi anni, ha mantenuto i contatti con tutti.
Mi ha detto che io avrei bisogno di qualcuno che curi le mie public relations, perché io da me solo non ne sono capace.
Mi ha detto che avrebbe aggiunto il mio numero a quel gruppo di WhatsApp.
Io so che Giovanni non mi aggiungerà mai a quel gruppo di WhatsApp.

Capitolo 6

Adesso devo andare alla festa di François, ma non ci riesco. Per un numero di volte uguale o superiore a quello degli atomi che compongono l’universo, preferirei starmene dove sto, sul mio letto disfatto, nella mia stanza, sospeso nella luce fatta di polvere.
Sto pensando: che cos’è una festa? Ogni festa festeggia la vita, ma la vita è un soffio di formica nella storia del mondo. Ogni festa è la celebrazione del respiro affannato di una formichina moribonda. Si fa un gran parlare della vita, e la si festeggia pure, la si celebra, solo perché noi, a differenza delle formiche, dell’essere vivi ne abbiamo consapevolezza. Di un aspetto fondamentale di quella stessa vita che amiamo celebrare, però, non ce ne ricordiamo mai, se non in certi attimi brevi e laceranti. Essere vivi senza rendersi conto di andare incontro alla morte: fraintendersi, sempre. Siamo tutti vivi a metà, incompiutamente morenti, impunemente smemorati. Non c’è mai nulla da festeggiare.

Capitolo 7

Alla fine mi sono alzato dal letto e sono andato alla festa di François. Per come ce l’aveva raccontata lui, la settimana scorsa, sarebbe stata una specie di coca party estremo e trasgressivo, con tutti i suoi amici di Parigi e di Miami venuti a festeggiarlo. Invece è molto noiosa, questa festa. Non c’è neppure la cocaina.
La situazione si sta risollevando solo perché adesso siamo tutti ubriachi. Del resto, stiamo bevendo champagne da ore. Siamo seduti in giardino, a chiacchierare del nulla. La casa di François e Jacques è davvero grande, ci sono alberi giganteschi in questo giardino. Gli invitati sono splendidi: c’è chi lavora nelle telecomunicazioni, chi lavora con l’ONU a progetti a sostegno dei paesi emergenti, chi si occupa di import-export di formaggi. Si conversa amabilmente in spagnolo, inglese e francese. Gente stupenda.
Mi chiedo: ai loro occhi sono anche io stupendo? Forse sì. Basta che dica che sono venuto a Città del Messico a fare il ricercatore alla UNAM, che a settembre vado a Parigi per quel progetto della EU ed ecco che subito sono anche io stupendo come loro. Io, però, sento qualcosa di amaro mentre deglutisco l’ottimo champagne di François.
Sarà che, prima di uscire, mentre davo un’occhiata alle ultime cose su internet, e dopo aver parlato per due ore con Giovanni, ho visto l’annuncio della sparizione di una neonata di tre mesi, a Cuernavaca. Oltre ai vari numeri di telefono, avevano messo anche una foto, nella quale la bimba, vestita con una tutina rosa, sorrideva. Guardando il sorriso di quella bimba, sono rimasto impietrito, perché tanto si sa che quando spariscono i bambini, qua in Messico, non si ritrovano più. Vengono fatti a pezzi, i loro piccoli organi rivenduti al miglior offerente.
Mi sono chiesto: «Gliel’avranno fatta, un’anestesia, prima di strapparle da dentro i piccoli reni, il suo piccolo cuore? E lei, la bimba, si sarà aggrappata con tutte le sue piccole forze a quella tutina rosa, per non sentire dolore? Lo avrà mai capito, la bimba di tre mesi, di essere stata viva per così poco tempo, di aver persino sorriso, una volta, mentre le scattavano una fotografia?»
Allora mi sono buttato a letto perché non riuscivo più a respirare. Forse era per questo che non riuscivo ad alzarmi e non volevo più venire alla festa del cinquantesimo compleanno di François. O forse non ci volevo andare perché tanto nessun’altra festa al mondo sarebbe mai stata come la festa di laurea di Luca, alla Casa dello Studente, quando ero vivo e sorridevo, ma non lo capivo e non riuscivo ad approfittarne, perché non riuscivo a essere vivo fino in fondo.
Mi sono messo la camicia e ho preso un Uber per andare alla maledetta festa cool di François, dove tutto infatti è molto cool e noioso, in questo giardino enorme, con gli alberi, le fontane e le bottiglie di champagne. Qui, a Città del Messico, dove l’aquila divorò il serpente, e il centro del lago…  quel lago enorme che adesso è sepolto, dimenticato e comatoso, e nel suo coma liquido ci sogna, sicché siamo tutti spettri colorati, fantasie liquide nate dall’acqua sepolta… il centro del lago divenne ciò che era sempre stato, l’ombelico del mondo, il suo centro, appunto, anche adesso, durante questi anni stupendi e strani, anche adesso che sembra la fine del mondo.

Capitolo 8

Mi guardo attorno e penso che la casa di Jacques e François è molto diversa dall’appartamento della Casa dello Studente, tutto è così remotamente distante dalla festa di laurea di Luca, e io sono ancora preoccupato per la bimba scomparsa. Mi domando se ha sentito freddo, messa lì sul tavolo dove l’avrebbero smontata come un giocattolino di carne, e lei avrebbe pianto fino a soffocare, e adesso non mi sento più uguale a tutti gli altri.
Mi avvicino al tavolo con le bottiglie e noto un ragazzo che non avevo visto prima ma che ho l’impressione di aver già incontrato da qualche altra parte. I suoi occhi sono di una tristezza indescrivibile. Mi guarda, il ragazzo con gli occhi tristi, e mi dice: «Ancora non lo sai, ma in realtà è questa la festa della fine del mondo».
Poi dalla sua bocca esce un fiume di colori che evapora al cielo notturno di Città del Messico. La fine del mondo ricomincia eternamente. È questa, la fine del mondo, e io la sto vivendo in maniera cool e noiosa, alla festa stupendamente noiosa di François.
Si avvicina Philippe, che è un ingegnere belga, e mi dice: «Questo posto è pieno di stranieri che sono venuti qui in Messico per salvare questo paese. Convinti che il Messico abbia bisogno di loro. Che stanno lavorando per cambiare il mondo. Sono solo degli illusi».
Philippe ride, principalmente di tutti noi. Io non penso che cambierò il mondo. Non so se lo voglio e non saprei da dove cominciare. Forse Giuseppe aveva ragione a odiarmi: passavo ore a scrivere i miei pensieri e i miei ricordi ma non sono mai riuscito a capire me stesso, non sono mai cambiato. Non sono mai riuscito a capire Daniela. E so che Giovanni non mi aggiungerà mai a quel cazzo di gruppo su WhattsApp. In questo momento, so solo pensare al sorriso della bimba con la tutina rosa.
Siamo tutti degli illusi. Ci illudiamo che basterà una festa a salvarci, mentre la nostra salvezza era lì, davanti ai nostri occhi, in un’altra festa di tanti anni fa. Ma non possiamo tornare indietro. Possiamo solo brindare con lo champagne costoso, fra sconosciuti eccellenti e molto cool. Solo questo: un brindisi alla nostra vanità e al nostro orgoglio, aspettando il ritorno della fine del mondo.

Capitolo 9

Sono le tre di notte e ho deciso di tornare a casa a piedi. Mezz’ora da San Ángel a Coyoacán, quaranta minuti al massimo. Cosa vuoi che mi succeda? Tutti dicono che Città del Messico è pericolosa, ma non succede mai niente. Se non sei messicano, il pericolo è sempre altrove.
Sto camminando nella notte della città. Non c’è un’anima viva per avenida Miguel Angel de Quevedo. Solo gli alberi, che sono sempre verdi e maestosi. E penso a quella volta, dovevo avere sei o sette anni, quando eravamo in vacanza in quella piccola città di mare, in Sicilia. Ogni giorno, dopo pranzo, tutti andavano a dormire per il caldo e perché non puoi andare a fare il bagno dopo aver mangiato così tanto. Io ero piccolo e non mi andava di dormire il pomeriggio. Prendevo i fogli di carta e passavo il tempo da solo, a fare disegni. Mi piaceva starmene solo con le matite colorate, quando ero piccolo. E mi piaceva disegnare alberi verdi e maestosi. Vivere a Città del Messico è come stare dentro i miei disegni di bambino.
Una volta una vicina coi capelli corti e gli occhiali ci portò i biscotti alle mandorle. Guardò i miei disegni con un sorriso curioso in faccia.
«Belli. Ma perché non disegni anche la terra? Questi alberi non hanno radici e sembrano sospesi nel vuoto: come mai?»
«Perché stanno volando», dissi.
Tutti i miei disegni di bambino, ora capisco, erano autoritratti.

4 Comments

  1. Concierge nel senso di conciergerie? Insomma facevi il portiere (di notte)?
    Sono stata un po’ sommersa dai fiumi di champagne. Grazie!

    1. Ciao, Elena. La domanda andrebbe riformulata. Tu mi chiedi se facevo il portiere. Io ti rispondo che sì, il protagonista/voce narrante faceva il portiere d’albergo (ma non necessariamente di notte: da quel che ne so, i portieri d’albergo lavorano anche di giorno). Io però non sono il protagonista del racconto: non è una storia autobiografica né, dio ce ne scampi, ‘autofiction’!

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