Quelli di sotto

di Valentina Scelsa
Copertina: Ottavia Marchiori – Cloudy with a chance of clouds

«Ciao Valentina!», sgrana le lettere del mio nome come una vecchia col suo rosario.

Sono sudata, i capelli ricci e rossi nella coda di cavallo scarmigliati con le solite ciocche stronze che sembro una medusa, le lentiggini che mi fanno il viso sporco e lo specchio che mi sbatte in faccia la mia faccia e penso che hanno ragione gli altri a dirmi che c’ho la faccia come il culo.

«Ciao» gli rispondo scocciata, il peso assassino dello zaino di scuola blocca le spalle che vogliono stringersi in una dichiarazione di indifferenza.

Le porte dell’ascensore si erano quasi chiuse quando una Timberland marrone taglia quarantacinque si è messa di traverso come un carrarmato. Lo devo sempre incontrare ogni volta quando torno incazzata da scuola o di ritorno dal parco sotto casa con le ginocchia sbucciate le mani zozze di terra e i calzini calati. Lui invece sempre sorridente coi ricciolini castani perfetti che se ne fregano dell’umidità, la bocca una susina grassa e gli occhi nocciola seri da svenirci dentro sussurrando bello mio ti amo anch’io!, le spalle larghe come piacciono a me e quell’odore di bucato profumato alla Coccolino concentrato che mi aspetta anche quando l’ascensore è vuoto e mi avverte che l’ho scampata bella per un pelo. Io non lo so che odore spargo ma sicuramente è una puzza. Eppure lui mi dice sempre: «Come sei bella oggi!», «Stai proprio bene con la coda», «Stai proprio bene coi capelli sciolti», «Il rosso Tiziano è il mio colore preferito e le lentiggini poi!» e se non diventasse rosso a ogni inciampo di parola penserei senza dubbio che mi prende per il culo.

Tra il terzo e quarto piano di quest’incontro di sudore e imbarazzo, mentre penso proprio oggi lo dovevo incontrare che paro Iaia di Hallo Spank spampanata, c’ho pure la salopette jeans, dal suo metro e ottanta al mio metro e basta che non sono mai stata un’altezza comincia a impregnarsi di ogni sfumatura di rosso come una lampadina cinese al led e quando arriva al fucsia, il mio colore preferito, dopo parole che non sento mi dice questo: «E lo so che io ho 17 anni e tu solo 9, lo so, però mi piaci così tanto che se vuoi io ti aspetto. Aspetto che cresci». Silenzio. Abbasso la testa e mi sa che strabuzzo gli occhi e provo un gran piacere incredibile, Dio quanto sono figa e non lo sapevo?, però mi sento anche un po’ una merda perché lui non lo sa che io lo ascolto piangere. Che mia madre e io il pomeriggio, terminate le faccende di casa lei e i compiti io prendiamo un bicchiere di vetro a testa e lo appoggiamo rovesciato sul pavimento di marmo freddo, ci sdraiamo a terra e per un po’ ci dimentichiamo di mio padre che ci mena e di ogni dolore appoggiando l’orecchio sul nostro amplificatore magico e come spie ci sintonizziamo sulla vita degli altri e entriamo nella casa di quelli di sotto. Quelli di sotto sono lui e i suoi genitori che litigano sempre, urlano e spaccano piatti e bicchieri e rinnegano il loro amore e se ne dicono di cotte e di crude, parolacce a gogò e pure qualche bestemmia che ci fa spalancare gli occhi e la bocca «iiih!». Il punto più bello della tragedia greca o scenata napoletana è quando Lorenzo, così si chiama il mio spasimante con il raro potere di paralizzare la mia lingua lunga e biforcuta come se me l’avesse mangiata il gatto per davvero, grida «Basta! Adesso basta vi prego!» ma non lo ascolta nessuno e lui si mette a piangere e mi fa strano perché è grande. Lì ci commuoviamo anche noi, ci guardiamo sdraiate vicine e tiriamo su col naso e ci scappa pure la lacrimuccia e per un po’ ci sentiamo fortunate e al sicuro. Alla fine mia madre esclama qualcosa tipo «povero ragazzo! Che peccato erano una così bella famiglia!», quindi ci alziamo e cambiamo registro e voltiamo decisamente pagina come nei tg sparandoci una puntata alla tv di Smile di Gerry Scotti che ci fa sbellicare, che non si può vivere di sola tristezza e questi sono i nostri pomeriggi di piacere.

Mi sento dunque in colpa adesso che siamo al quinto piano in questo ascensore bordeaux che scorre lento dentro il mio palazzo anni 70 a Monteverde Roma sud ovest nell’anno del Signore 1985, ma poi in fondo neanche tanto perché sono felice che grazie a lui e ai suoi il pomeriggio io e mia madre abbiamo lo spettacolo assicurato e ci scordiamo per un po’ dei nostri guai.

Provo questo macello di pensieri parole opere e omissioni mentre Lorenzo aspetta, e già siamo arrivati al settimo piano, il mio, che lui schiaccia sempre prima il bottone 7 poi riscende al 6.

Esco sul pianerottolo come se niente fosse poi mi giro e gli dico allegra «Ciao!» e sventolo pure la mano come una di cinque anni ma lui mica mi risponde e io aspetto impalata che le porte si chiudano come una ghigliottina bradipa. Rimango sola e è come una gran pizza in faccia.

Il pomeriggio, bicchiere all’orecchio, niente show, solo rumori e tonfi di mobili spostati. Il giorno dopo torno da scuola tutta bella con la gonna, ho messo pure il lucidalabbra alla ciliegia e mi sento un casino nel cuore. Il suo odore di bucato fresco è nell’ascensore, ma di Lorenzo questo è il saluto. Lui e i suoi si sono trasferiti non si sa dove, i pomeriggi si fanno vuoti e se non abitassi al settimo piano io l’ascensore non lo prenderei mai più.

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