Sovvertimento

di Enrico Carli
Copertina di Alpraz

Parte #1

Incontrò Fennicus, come si faceva chiamare, nel reparto fantascienza di una grande libreria del centro. Era seduto in una poltroncina rossa e sfogliava un libro di fotografie piegando gli angoli per evitare di passarsi l’indice sulla lingua. Prima di presentarsi lo osservò dal piano di sopra, in prossimità del bar, spostandosi lungo la balaustra per non farsi notare. Se avesse alzato lo sguardo avrebbe capito che era lei, così come lei non aveva esitato a individuarlo tra la mezza dozzina di persone – maschi adulti come Fennicus tranne due giovani studenti – che spulciavano i volumi a caccia dei riferimenti che appartenevano a quel genere di letteratura (suo padre era un fanatico di fantascienza, le sembrava di conoscere molto bene la forma mentis di quel tipo di appassionato). Si domandò se l’idea che si era fatta di Fennicus corrispondesse a ciò che vedeva. Le dispiaceva non essere sorpresa, ma poteva essere qualcuno di fronte al quale l’impulso di andarsene era più forte di quello di restare. I suoi capelli grigi erano raccolti in un codino corto in mezzo alla nuca, e aveva degli occhiali da presbite di un verde acido calati sulla punta del naso. A pelle non sapeva quale delle due, andarsene o restare, era tuttavia affascinata dal cervello di Fennicus da dieci mesi, per cui, rinviando la decisione a quando gli si fosse trovata di fronte, scese le scale.

Qualche minuto dopo le risaliva con accanto l’uomo. Era più alto di lei dello scaffale dell’usato Urania che stava sopra un ripiano più composito di ogni genere di volumi: quindi era più alto di lei di due dorsi di tascabili Urania disposti di taglio l’uno sull’altro. Si era tolto gli occhiali da lettura infilando una stanghetta nell’asola della camicia, un’operazione che aveva eseguito con sveltezza quando si era alzato per porgerle la mano. Come per le cose che scriveva, sembrava molto sicuro di sé.

Una delle due ragazze del bar, vedendola di nuovo, rivolse un’occhiata fulminea alla collega, come a dire che certa gente non aveva proprio un cazzo da fare. Lei ne fu infastidita, e sedette con riluttanza nella sedia accanto a quella in cui si era seduto Fennicus. Lui appoggiò le mani sul tavolo come se fosse pronto a scattare a comando.            

«Qualcosa non va?».

Liberandosi della borsa, lei scosse appena il capo.

«Forse m’immaginavi diverso».

La fissava. Si chinò a cercare il cellulare nella borsa solo per avere qualcosa da fare. Fennicus aveva lo sguardo accerchiato da un quasi monociglio e da occhiaie drastiche, avrebbe detto, così rimarcate che sembravano contenere tutte le ore di insonni tormenti.

«Se per qualche ragione vuoi andartene» le disse quello sguardo inspiegabilmente magnetico, «questo è il momento di farlo, Ceridwen».

Ma Ceridwen rimase. Rimase con Fennicus fino a che lui non si fidò abbastanza di lei da assegnarle il primo sovvertimento. Questo avvenne tre settimane dopo, in un negozio di smalti e vernici dove Fennicus acquistò un tubetto di colla. Era alla cassa quando voltò il profilo verso di lei e le mostrò i denti, agitando il tubetto con due dita e dicendole ad alta voce: «Il momento è giunto».

Dopo, in strada, lei volle assicurarsi che non era solo una battuta e lo afferrò, da dietro, nel logoro giacchetto di jeans. Si sentì un piccolo strappo, ma Fennicus non gli diede alcuna importanza. Ceridwen si scusò e lui le mise un braccio intorno alle spalle, continuando a camminare verso la metro.    

«Ieri c’era questo documentario, a tarda notte, sugli antichi maya. Hanno fatto delle scoperte incredibili grazie a una nuova tecnologia radar… mandano queste ultrasonde nello spazio perché mappino delle regioni inaccessibili all’uomo, come per esempio una grande giungla. Pensavano che gli antichi maya fossero quattro gatti, e invece la superficie in cui si trovano le costruzioni si estende per non so quanti mila ettari sotto la più fitta vegetazione di una foresta pluviale. Altro che quattro gatti! Erano quattro volte l’intera popolazione dell’allora continente europeo, in una superficie quattro volte più piccola. Capisci che significa? Che non sanno un cazzo, non sanno un cazzo e vanno a tentoni nel buio, Ceri, tirano le somme delle volte in cui incocciano su una pietra e stabiliscono un perimetro che contiene soltanto la loro ignoranza di tutto ciò che hanno lasciato fuori. Andrebbe anche bene, se fossero capaci di ammetterlo. E invece no, giù libri di finzione che però vanno a ingrassare le già pingui menti spugnose dei ragazzi nel reparto sbagliato, quello dei fatti, della Stoo-riaaa».

Nel tratto di strada che fecero insieme nella metro Ceridwen si aspettava che lui le dicesse cosa fare, e invece, dopo essere entrati nel vagone, senza aver detto una parola, Fennicus cedette il posto a una donna incinta. Dopo un po’, strizzando l’occhio verso di lei, si rivolse alla donna chiedendole se quel dolce rigonfiamento era frutto di un atto d’amore. La donna, una nera, si toccò la pancia. Ceridwen sbirciò le sue unghie smaltate di scarlatto e i capelli soffici come fiocchi imbevuti nel nero di seppia. La veste leggera della donna si raccoglieva sull’inguine mentre le ginocchia erano sollevate a fornire protezione al grembo. Sentendosi osservata, si voltò appena verso di lei, e poi alzò lo sguardo su Fennicus. «Certo», disse.

Fennicus sorrise a Ceridwen, prima ancora che alla donna.

«Pensa davvero che sia così scontato?».

Lo disse Ceridwen, ma l’avrebbe potuto dire Fennicus. La donna prese il cellulare dalla borsa e si infilò gli auricolari, escludendoli. Quando arrivò la fermata di Ceridwen, Fennicus le passò il tubetto di colla senza dirle nulla. La donna con la chioma afro li stava guardando con apprensione. La metro ripartì, e Ceridwen vide i suoi capelli verdi riflettersi sui finestrini in corsa.

La chiamò circa due ore più tardi, spiegandole filo per segno cosa fare. Ceridwen ascoltò a bocca aperta per tutto il tempo. Disse che avrebbero capito che era stata lei. Sentì Fennicus sorridere e lo immaginò scuotere la testa benevolmente.

«Tuo fratello e tua sorella potrebbero essere colpevoli quanto te», le suggerì.

Ceridwen rimase in silenzio. Rifletteva.

«Te l’ho chiesto, e tu mi hai detto che avete tutti e tre le chiavi di casa dei tuoi». Detto questo, Fennicus attese una conferma.

«E quando devo farlo?».

«Non devi, Ceri: vuoi. E quando vuoi lo decidi tu».

Si incontrarono dopo una settimana ai giardini pubblici. Fennicus aveva preso due lattine di cola e gliene passò una.

«Ma è calda» disse Ceridwen sedendosi su una panchina.

«Non ci pensare. Racconta».

Lei bevve controvoglia quella bibita calda che le riempì di zucchero il palato. Era stata la cosa più fuori di testa che avesse mai fatto, disse a Fennicus. Si era intrufolata in casa dei suoi in piena notte e…

«Sii più precisa» le chiese Fennicus.

«Erano le tre e venti. Ho aspettato mezzora sotto casa prima di entrare. Sono uscita da lì un’ora e mezzo dopo, verso le cinque e mezza. Non avevo considerato che mia madre si sveglia più o meno a quell’ora».

«Ma non ti ha beccata, giusto?»

Ceridwen ruttò, accartocciò la lattina con entrambe le mani e gli allungò un buffetto sulla gamba accavallata.

«Ma ti pare? Mica sarei qui!».

«E dove saresti?».

«Che ne so. In prigione?»

Lui rise buttando indietro la testa. Gli occhiali da lettura gli oscillavano sul petto. Erano all’ombra degli alberi, e la gente passava e correva davanti a loro senza prestargli attenzione. Ceridwen lanciò la lattina verso un bidone; lo mancò.

«Forse mi avrebbero fatto un TSO».

«Un Tu Sarai Ordinario?» rise Fennicus.

«Sì, e adesso sarei qui mezzo lobotomizzata a farmi questo cazzo di parco in cerchio, correndo e sbavando, e te non ti vedrei nemmeno».

Fennicus le chiese quando l’avevano chiamata e chi avessero contattato per primo, tra i figli.

«Allora… prima hanno chiamato Fratello e poi me. Sorella se la sono tenuta per ultima. Sì, perché al telefono con me hanno detto che Fratello gli aveva detto di parlare avec moi».

«E tu hai tirato in ballo Sorella?»

«Certo che no, ho pensato che era meglio se facevo l’innocente con nulla da recriminare».

Fennicus disse a Ceridwen che era stata una bella mossa. E poi si alzò per gettare la sua lattina e raccogliere da terra quella accartocciata di Ceridwen. Gliela agitò davanti, prima di ficcarla nel cestino.

«L’avrei raccolta» sbuffò lei.

«Sì ma poi ci si dimentica. Continua». Aveva una camicia a motivi floreali che era almeno due misure più della sua taglia. Tornò a sedersi.

Madre si era messa a piangere al telefono, a un certo punto; Ceridwen, come Fennicus con lei, aveva voluto sapere che cos’era successo di preciso. Be’, di preciso era successo che tutta la loro roba, quasi tutta, era incollata. Le ciabatte erano attaccate al tappetino di fianco al letto; le sedie della cucina al parquet; il barattolo dei biscotti al tavolo e gli armadietti tutti sigillati come il frigorifero. Il dentifricio era incollato sulla parete del bagno, gli spazzolini l’uno all’altro. Ma la cosa più spaventosa era che il gatto è morto con la lingua appiccicata al palato. Io non c’entro, aveva detto Ceridwen a Fennicus. «Deve aver leccato qualcosa. Be’» ammise quando lui la guardò, «forse un po’ c’entro».

Ceridwen chiamò Fennicus per chiedergli aiuto. Doveva lasciare il suo appartamento immediatamente. La sua coinquilina stronza si era presa la scabbia. «Non chiedermi come ha fatto. Sul treno, dice». Ergo, l’appartamento era infestato e bisognava lasciarlo per almeno un paio di settimane. Vuoto. Il parassita non avrebbe trovato carne umana nella quale infilarsi e riprodursi e sarebbe morto. La sua coinquilina meno stronza andava a casa dei suoi, ma lei per ovvie ragioni non poteva. Non poteva andare a casa di Padre e Madre né tantomeno farsi ospitare in quella dei genitori della sua coinquilina meno stronza. Di quello che avrebbe fatto la sua coinquilina stronza gliene fregava meno di zero, Ceridwen si doveva solo assicurare che avesse lasciato libero l’appartamento per due settimane e che nel frattempo si fosse fatta curare. Fennicus ascoltò senza dire nulla. «Non potrei venire da te?» gli chiese Ceridwen in un intervallo tra due pensieri rumorosi.

Venne fuori che Fennicus era sposato. Ma come sposato? Non era sempre stato un sovversivo, e anche se adesso lo era, doveva camuffarsi. Figli? Uno. Ceridwen pensò perché non glielo avesse mai detto, ma si rese conto che lei non gliel’aveva chiesto. Fennicus rimuginava respirando col naso.

Parte #2

Un giorno Fennicus le aveva mostrato delle foto di ritagli di giornale. I titoli erano piuttosto esplicativi. Centinaia di bucce di banana nel Museo delle Scienze. Si traveste e vota per tutta la famiglia. Uno scherzo finisce in una rissa col vicino e la figlia in ospedale. Libera i cani del quartiere e i cani lo assalgono. Badante lituana vende su eBay le mutande usate dei suoi assistiti: c’è chi acquista. Ruba in casa sua vestito da ladro. Fa il giro dei bar a prendere i cornetti avanzati e li porta all’ospizio di Santa Teresa: in rianimazione un anziano allergico al cacao. Impiegata va in giro per le strade deserte a rompere vetrine con la mazza del figlio, predilige le cartolerie. Porta rose rosse sulla tomba della figlia… dell’ex moglie – indagato per concussione. Nella notte del 25 dicembre consegnano panettoni rubati alla mensa dei poveri vestiti da Babbo Natale. Si finge un “Patch Adams” e fa morire dal ridere un paziente terminale. Al celebre grido femminista “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” quattro ventenni terrorizzano per diverse ore una scuola di danza: volevano soltanto fare proseliti, dichiarano.

«È uno schifo come la mettono giù i giornali» disse Fennicus rimettendosi il cellulare in tasca. Aveva dei pantaloni con le pinces che Ceridwen non vedeva in giro dagli anni novanta, il decennio insensato in cui era nata. «Sembrano barzellette. Non lasciano subodorare niente, neanche nei trafiletti, dei drammi di quelle persone. Vuoi sapere perché l’impiegata delle poste rompeva le vetrine delle cartolerie?».

Ceridwen aveva scosso il capo. «Perché gliel’hai detto tu?».

Fennicus si era stiracchiato il codino e sistemato dei capelli gialli dietro le orecchie con l’insistenza di chi volesse buttarsi tutto alle spalle. Si mordeva le labbra, da quanto era nervoso.

«Non voglio saperlo» disse Ceridwen. «Non voglio sapere perché ho incollato la roba dei miei. So solo che quando ho capito che potevo farlo, mi andava».

Fennicus aveva sospirato dolorosamente. «Siamo tutti dannati, Chéri. E tu e io lo siamo alla grande».

Fennicus viveva in un orrendo palazzone di un quartiere residenziale più drastico del suo monociglio. Cellule abitative senza cortile, senza luce. Le aveva detto che poteva stare nel suo garage. Le sue sopracciglia nerissime risaltavano nell’ovale pallido e grigio. Quel tocco di colore che gli davano gli occhiali, quando li calzava per mostrarle qualcosa, le parve un insolito sfoggio di vanità. Non sapeva se era voluto. Situato in un buio scantinato dal quale si accedeva dall’androne o da una ripida rampa per auto, il garage era pieno di roba. Scatoloni, biciclette scassate, un paio di manubri senza manopole, un vecchio candelabro con dei moccoli anneriti e polverosi, scaffali di metallo che contenevano attrezzi, albi di fumetti, damigiane, barattoli di acqua ragia e vernice, altri scatoloni. Le aveva liberato uno spazio e ci aveva piazzato un tappetino da yoga e una sudicia coperta a scacchi. Sopra l’improvvisato giaciglio, a mo’ di omaggio della casa, ci aveva messo uno sgarrupato volume da cinquecento lire dei Quarantanove racconti di Hemingway, di cui avevano parlato. Poco più in là, accanto a un lavandino per lillipuziani, c’era un secchio per le funzioni corporali e una cassetta foderata di carta di giornale che doveva servire da coperchio.

«Se volevo prendermi la scabbia, restavo a casa» disse Ceridwen prendendo il libro e sfogliandolo a ventaglio.

«È solo una vecchia coperta, ma è pulita».

«Sè. Sembra proprio un posto pulito e illuminato bene».

Fennicus guardò la lampadina nuda che gli pendeva davanti, il cui sottile filamento di tungsteno sfarfallò sfrigolando come se rispondesse all’occhiata.

«Se metti a posto quel candeliere, puoi crearti una situazione niente male. Ce le hai delle candele?».

«Sono l’ultimo dei miei problemi».

Fennicus si cacciò le mani nei pantaloni come se volesse grattarsi il didietro.

«Mi dispiace ma questo è il massimo che la ditta può offrire». Fece un bel sorriso lupesco e tirò fuori delle lunghe candele verdi con lo stoppino vermiglio.

«Senti, stai attenta a non dare fuoco al box. Della roba che c’è non m’importa, ma c’è molta carta straccia e in un attimo ti ritrovi con la pellaccia nera. Perciò, sta’ attenta».

«Zì zignore».

«Per uscire te l’ho spiegato, per entrare pure… che altro?».

Ceridwen alzò le spalle ossute e si soffiò via un ciuffo dagli occhi.

«Bene, allora mettiti comoda. Per la doccia… c’è l’hotel stellato a due isolati» disse Fennicus.

Ceridwen aveva pensato che se stava attenta, poteva andare a lavarsi nell’appartamento infestato. Si era immaginata i parassiti della scabbia in agguato sopra il tramezzo della doccia, pronti a saltarle addosso non appena avesse chiuso il getto d’acqua.

«Non stavo scherzando», disse Fennicus. «Ci lavora uno che mi deve praticamente la vita. Ti farà entrare di nascosto nei bagni del personale».

«Non ci credo».

Ancora quel sorriso lupesco. «Domani te lo presento».

Stava per andarsene, ma Ceridwen, fissando la lampadina, si era fatta venire le macchie agli occhi. Gli chiese come aveva potuto, proprio lui, mettere al mondo un figlio.

Fennicus era appena fuori dal garage, con una mano in alto sulla pesante saracinesca.

«Ceri-Ceri» le disse con dolcezza, «tu non sai ancora dove ti sei cacciata. Mettere incinta una donna è stato il mio quinto sovvertimento».

Parte #3

Mentre attraversavano la strada fuori dalle zebre come un padre e una figlia sconsiderati, i clacson gli fecero tutta la nona sinfonia. In questa sua nuova vita Ceridwen non avrebbe più potuto camminare sulle zebre. Non avrebbe nemmeno più potuto fare il dito agli automobilisti. C’erano tutta una serie di regole bislacche che Fennicus le spiegava strada facendo, di giorno in giorno. Serpenti di nuvole grigie si mangiavano il deprimente orizzonte di palazzi.

«Ma ignorare le zebre non è passare inosservati!».

«E chi ha detto che dobbiamo passare inosservati? Le zebre sono per i timorosi. Noi rischiamo la vita ogni giorno».

«E allora, scusa, perché non posso alzare il dito a uno che magari scende e mi spacca la faccia?».

Ceridwen si era fermata in mezzo a una strada. Le auto le sfrecciavano intorno apostrofandola con diversi gradi di livore. Una dimostrazione di sprezzo del pericolo che aveva in sé qualcosa di derivativo, come se non fosse da lei. Fennicus tornò indietro con l’incuranza di chi camminasse su un marciapiede.

«Rischiare la vita provocando il prossimo è troppo facile. Cazzo, possibile che tu non lo capisca?».

Le afferrò la mano e la trascinò via, mentre un’enorme auto inchiodò a due centimetri dal suo fianco sinistro e Fennicus nemmeno si voltò. 

«Drogati del cazzo!» gridò la conducente.

L’uomo in divisa sembrava un impiegato delle ferrovie senza cappello. Con la sigaretta finita, se ne accese un’altra. La teneva in uno strano modo, tra l’anulare il mignolo, e quindi tirava come se respirasse dentro la mano.

«Lui è Macomber» disse Fennicus.

Ceridwen gli allungò la mano e lesse “Lucio” sulla targhetta di stoffa cucita sopra il taschino.

«La sua breve vita si è allungata di un po’» disse Fennicus. Poi guardò in alto, guardò in basso, sputò e se ne andò.

«Ma davvero potrei… » disse Ceridwen a Macomber.

Lui buttò ciò che rimaneva della sigaretta, aprì la porticina alle sue spalle e distese il braccio teatralmente.

Era giovane, Macomber, su trent’anni, aveva una faccia interessante, una di quelle facce che più le guardi più ci trovi scritto cose tipo “qui giace un sopracciglio a cui piaceva inarcarsi di sorpresa”. Una faccia che ne aveva viste e si era dovuta adeguare allo schifo. Attraversarono diversi corridoi senza incontrare nessuno. C’erano dei tappeti rossi con delle laminature color oro sul bordo che avevano perso lo smalto. Dei puzzle di paesaggi antichi e scene di caccia incorniciati alle pareti. Ceridwen aveva con sé lo zaino col ricambio. Macomber la fece entrare in un bagno piccolissimo dove c’erano un lavandino, un water e una doccia senza tenda.

«Meglio di niente, no? Non bagnare troppo e se lo fai, pulisci». Macomber tossì.

Ceridwen lo ringraziò.

«Senti» gli disse mentre lui stava per lasciarla sola. «Che cosa ti è successo? Sì, cioè, perché la tua vita sarebbe… ».

«Ho un cancro ai polmoni» disse Macomber senza muovere in alcun modo la faccia. «Fennicus mi ha portato da un guaritore suo amico. Sono il primo a cui è sembrato incredibile eppure, quando sono tornato dall’oncologo, mi ha detto che la formazione tumorale ha avuto una battuta d’arresto». Tossì forte nel palmo della mano. «Be’, forse dovrei smettere di fumare».

Ceridwen si tolse il giacchetto e si guardò intorno.

«Non ce n’è di appendiabiti» disse Macomber.

«Farò senza. Che cosa ha voluto da te, in cambio? Fennicus intendo».

Da di là si sentì il suono di un campanello e Macomber si voltò.

«Devo andare. Tu fai con comodo, qui non viene nessuno». Chiuse la porta ma alcuni istanti dopo la accostò e ci parlò attraverso. «Mi ha contattato ieri e mi ha chiesto se una sua amica poteva venire qui a lavarsi».

Ceridwen si stava togliendo la maglietta e rimase immobile, in quel gesto compiuto a metà, davanti allo specchio sopra il lavandino. Il gomito destro le stava fasciato sul petto e la mano usciva dal girocollo a peso morto. Filtrando da una finestrella zigrinata accanto alla doccia, la luce le illuminava la sottile peluria bruna sulla pancia scoperta. Si soffiò via i capelli dagli occhi.

Più tardi, mentre cammina senza meta, si ritrova davanti ai manifesti degli spettacoli di un grosso cinema. Anche se è a corto di soldi, entra. Non va a un matinée dai tempi del liceo. Sembra un’assurdità infilarsi in una sala buia quando fuori c’è il sole ma, del resto, quello è il senso di un matinée. Deve essere un’esperienza onirica: rientrare nel sogno dopo aver fatto colazione. A quel pensiero le brontola lo stomaco. Siccome non ha fatto nemmeno colazione, decide di concedersi un cestello di popcorn al caramello con gli ultimi soldi rimasti. La sala è quasi vuota fatta eccezione per un paio di vecchi seduti l’uno a un capo all’altro delle file e due ragazzini che guardano gli schermi degli smartphone e allungano le gambe sulle poltrone davanti. Ceridwen siede lontano da loro, abbastanza vicina allo schermo, desidera un’esperienza completa priva di distrazioni. Dopo una sfilza quasi infinita di réclame che la infastidiscono al punto che accarezza l’idea di farsi restituire i soldi del biglietto – durante i quali per di più finisce tutta la sua colazione – il film comincia e se la porta via.

Dove? Austria 1939. La vita di un villaggio di montagna agli albori della seconda guerra mondiale. Paesaggi da urlo. I campanacci delle mucche. I mulini e le pagnotte di pane infilate nel forno a legna. La gente che miete il grano con quelle lunghe falci da tristo mietitore. Il tristo mietitore in questione, però, è Hitler. Vecchi filmati in bianco e nero sul Terzo Reich. Hitler si spiattella il ciuffo sulla testa. Gioca con una bambina. Nel villaggio ci sono un lui e una lei che si innamorano, si sposano, fanno figli. Scavano buche con le mani per le patate, le intrecciano (le mani). Lui è un ex soldato. I ragazzini fanno caciara, la loro attenzione torna agli smartphone che creano altri rettangoli di luce nel buio della sala. Uno dei vecchi, quello a sinistra, tossisce e scatarra. Lui gioca con le tre figlie e la moglie, ha una benda sugli occhi e deve rincorrerle nel prato in pendenza. Loro battono su dei barattoli per fargli intuire la direzione. Deve partire, indossare la divista. Saluta tutti, anche il fornaio. Entra altra gente a spettacolo iniziato. Tre ombre. Fanno in tempo a sedersi che una si alza e va in bagno. I ragazzini adesso ridacchiano. I loro piedi fanno su e giù sulle poltrone davanti. I piedi di una piccola figlia, nel film, sono illuminati dalla luce che entra da una finestra. Lui è finito in un reparto dove fa amicizia con un altro soldato. Non sanno ancora cosa li aspetta, sono allegri. Nel villaggio la vita continua, ci sono le pecore da tosare e la sorella di lei che è come lei ma più robusta l’aiuta con l’aratro e le bambine. Qualcuno bela, appena appaiono le pecore. Bela e ride. Il vecchio scatarra quando lui torna a casa e la moglie corre ad abbracciarlo. Le bambine sono in casa? Intenzioni che balenano negli occhi degli sposi. Parte una musichetta che cresce d’intensità, uno dei ragazzini risponde e dice alla madre che è in classe. Risate. Scenette familiari, felicità per il ritorno dell’uomo. Le cose si mettono presto male, pare che stia per scoppiare una guerra. Passa una didascalia: 1943. Nei filmati i soldati fanno il saluto al Fuhrer. La folla lo incensa, tutti col braccio su. Sapeva che sarebbe successo, si è voltata apposta: uno dei vecchi alza il braccio, quello a destra. Le musiche enfatizzano i pascoli e le montagne e i due sposi sdraiati su un prato. Non c’è bisogno di parole, le mani con le fedi si stringono e salutano il sole. Il punto è che lo richiameranno in servizio e lui pensa che quella guerra sia sbagliata. Crede in Dio e sente che quell’uomo che tutti adorano è l’incarnazione del demonio. Non lo dice così, ma lo sa. Il sindaco del villaggio gli fa la ramanzina, e uno dei ragazzi fa un peto. I loro due volti ridacchiano illuminati dalla luce dal basso. Quelli entrati in ritardo parlano tranquillamente tra loro. Suoni di messaggi ricevuti. Il sindaco è ubriaco e arrogante. Lui sta zitto. Si mette male, la gente lo guarda storto. Si è sparsa la voce che non vuole giurare fedeltà a Hitler. Lei non sa che pensare, ma lo ama. È mascolina, ma graziosa. Le piacciono da morire le sue gonne e la figlia riccia bionda. Un fischio. Sì proprio un fischio, un atto caustico, irragionevole, buttato come commento al vescovo che dice al padre che deve fare il suo dovere nei confronti del proprio paese. Ceridwen si alza e va spedita verso i due ragazzini. Salta come fosse una staccionata delle montagne austriache una fila di poltrone e poi un’altra. Si piazza tra i ragazzi e il film. Si porta le mani sui fianchi e adesso la sentono. Suona un telefono e loro tre si guardano. Il suono è vicino, ma non proviene dai cellulari dei ragazzi. Illuminati dallo schermo, tutti la stanno guardando. Ceridwen si precipita verso il suo zaino scavalcando di nuovo le poltrone agilmente e lo afferra, lo apre mentre il telefono continua a trillare e lo cerca alla rinfusa. I ragazzi ridono di lei mentre alle sue spalle nel villaggio c’è una processione. Trova il cellulare, risponde. Fennicus le dice che è giunta l’ora del suo secondo sovvertimento.

Parte #4

Era pronta Ceridwen per colpire di nuovo? Il mondo le faceva abbastanza schifo. Totalmente schifo. Se fosse vissuta durante la seconda guerra mondiale si sarebbe uccisa. Pensava spesso alla morte. In questo non si sentiva originale, sapeva che c’era molta gente, come Fennicus, che ne andava in cerca. Fennicus le diceva che il mondo degli uomini era il peggior posto in cui vivere, che una volta, molto prima dei nostri antenati, la terra era abitata da esseri pacifici. Naturalmente lei sapeva che gli uomini erano una brutta, bruttissima razza, per questo aveva conosciuto uno come Fennicus. Per questo aveva abortito. Molte volte si era chiesta perché i suoi non le avessero riservato lo stesso favore. Era la terza di tre figli, non l’avevano cercata, era stata un inconveniente – una volta sua madre l’aveva proprio chiamata in questo modo – e adesso l’inconveniente si era sbarazzata di un altro inconveniente, mentre ce n’erano un sacco, come lei, che andavano in giro a far danni. Che erano pronti a credere a qualsiasi invenzione pur di non guardare in faccia la loro natura di miserabili. Almeno Fennicus lo sapeva, che era un miserabile. Lo sapeva anche Macomber, era pronta a scommetterci qualsiasi cosa, anche se non aveva nulla che avesse valore. Ci avrebbe scommesso suo figlio, se fosse potuta tornare indietro di qualche settimana. Tutti che sapevano cosa fosse giusto, come nel villaggio del film, tutti lì pronti a giurare fedeltà al più grande assassino della storia. Pure un’infermiera le aveva detto di ripensarci. Come se sapesse qualcosa sulla sua vita e sullo stupido idiota che le aveva aperto le gambe mentre lei dormiva il sonno profondo degli ubriachi. Lei aveva interpretato tutte le parti, che cosa si credeva, l’infermiera? Era stata Padre e Madre, Fratello e Sorella, era stata Cugino Lontano e Amica Perduta, ciascuno col suo bel discorsetto di buon senso e speranza, di rimprovero e consolazione. Aveva sentito le loro mani sulla sua, cazzo. Ma non aveva dubitato un solo attimo, come il soldato del film, che la cosa giusta da fare per lei e quel povero feto era azzerare i contatti con questo schifo di mondo. Che ne poteva sapere, l’infermiera, di quanto lei fosse brava a mettersi nella testa degli altri.  

«Sono incazzati come bestie, cazzo» disse Ceridwen a Fennicus, dopo che lui, camminandole davanti, le aveva esposto il piano. «Non vorranno più saperne niente, di me, cazzo. Mi hanno sospeso i viveri, non c’ho più un soldo e non so che cazzo fare. Lo sanno, perché i miei fratelli sono normali, lo sanno che sono stata io».

«Calmati. Respira. Non gridare».

Fennicus si fermò sul marciapiede, dove c’era l’ingresso di una banca.

«Dove guardi? Di là».

Cosa c’era di là da vedere? Niente. C’erano un fioraio e un supermercato. «Lo sanno che sono stata io, e adesso mi odiano più di prima, mi odiano più di quanto li odi io».

«Dovevi saperlo, Ceri, sei una ragazza intelligente, non potevi escludere questa evenienza».

Ceridwen stava quasi per mettersi a piangere dal nervoso.

«E adesso come faccio? Chi mi mantiene, tu?».

«Io ti dò già un posto in cui dormire e Macomber per lavarti. Apprezza». Fennicus guardava dall’altra parte della strada.

«Un seminterrato ributtante e l’ultimo dei cessi dell’ultimo degli alberghi? Bella roba!».

«Meglio che niente, Ceri. Meglio che niente». Fennicus sembrò individuare chi stava cercando. «Ora concentrati e guarda là» disse. «Vedi quella donna con i capelli legati e la gonna marrone che cammina sul marciapiede?».

La vedeva, anche se avrebbe voluto non vederla.

«È lei».

Fennicus si voltò improvvisamente, come se la donna potesse riconoscerlo. Si era messo un berretto da baseball e il codino usciva dalla mezzaluna del cappello. Era un travestimento ridicolo.

«Ora potrai dimostrarmi che brava attrice sei» disse Fennicus annusandosi l’indice. «Dall’accademia direttamente alla strada, ragazza mia. Sono sicuro che come la tua dea Ceridwen sarai capacissima di cambiare forma e convincere quella donna che sta per morire».

«Chi è?».

«Nessuno, Ceri, come te e me».


Dopo aver preso la metro ed essersi fatta a piedi nel traffico un paio di chilometri con tanti pensieri in testa che non se ne accorse nemmeno, Ceridwen attese che gli allievi del corso furono usciti dal teatro ed entrò prima che Dori chiudesse a chiave la porta d’ingresso. Aveva intenzione di nascondersi nei camerini ma sentì che c’era ancora qualcuno. Quando tornò in corridoio per salire al secondo piano, si sentì chiamare. Dori era appena uscita dalla platea, stava spegnendo le luci e l’aveva vista.

«E tu che ci fai qui?».

Ceridwen spiegò che le servivano degli abiti per uno spettacolino improvvisato a casa di amici. Le chiese se poteva farle il favore di prestargliene qualcuno promettendo che li avrebbe restituiti al più presto.

«Dimmi che non dici sul serio».

Si erano avvicinate e Dori la guardava con l’indisponibilità che si era aspettata da lei.

«Prenderei solo due cose, te le restituisco non più tardi di… una settimana».

«Allora dici proprio sul serio».

Dori le disse che l’eventualità non esisteva nella maniera più assoluta; che non poteva in alcun modo prestarle degli abiti di scena che appartenevano all’associazione. Nel frattempo gli allievi rimasti erano usciti dal camerino e se n’erano andati. Ceridwen non li conosceva. Le braccia ora conserte sul cardigan di cotone e l’espressione impassibile, Dori faceva muro. Era ben in carne e poco incline ai patteggiamenti, ma era lesbica e in passato aveva manifestato verso di lei un certo grado di ammirazione per come teneva il palco. Quindi Ceridwen le sorrise e si toccò i capelli. Si era lavata i denti, quel giorno?  

Dori infilò le mani nelle tasche del cardigan.  

«Se te ne vai posso chiudere» disse con un sorriso mal recitato.

La scortò fino all’ingresso, assicurandosi che uscisse dal teatro.

«Scusa la franchezza» le disse Dori sulla porta, squadrandola dall’alto in basso con un sopracciglio inarcato, «ma ti trovo molto dimagrita e pallida. Sicura che va tutto bene?».

Ceridwen s’incamminò verso l’appartamento infestato. Una delle sue coinquiline, la stronza con la scabbia, aveva degli abiti che facevano al caso suo. Potevano gli abiti recare ancora traccia dei parassiti? Mentre se lo chiedeva, Ceridwen capì che il timore di quegli esseri nascosti nel tessuto dei vestiti che era intenzionata a indossare avrebbe reso la sua interpretazione molto più convincente. Ciò la fece sentire galvanizzata dall’ispirazione.

Entrò nell’appartamento trattenendo il respiro, come se varcasse la soglia di un portale verso un mondo sconosciuto. Tutto ciò che c’era, in realtà, era così familiare che pensò alla categoria del perturbante di freudiana memoria. Sopra il tavolo della cucina una tazza, la moka e una confezione di cereali erano abbandonati come se l’allarme avesse interrotto le solite attività quotidiane per precipitare nella fuga gli inquilini. Come in guerra. Respirò. Si sentiva ancora nell’aria un vago aroma di caffè. Andò nella stanza della coinquilina e aprì l’armadio, guardandosi intorno circospetta e pronta a scattare di lato come se un gatto infuriato potesse saltarne fuori. Si sentì un po’ ridicola e rise di sé, mentre passava in rassegna gli indumenti e trovava quelli a cui aveva pensato. Cercò per la stanza una busta in cui metterli, e fu allora che si accorse che c’era qualcosa di strano in quell’ordinarietà. I vestiti buttati alla rinfusa sul letto non sembravano lì da una settimana. C’era pure il trench bianco, un recente acquisto del quale la stronza era entusiasta. Non avrebbe mai lasciato quel capo d’abbigliamento in balia delle presenze che si nascondevano in quel posto. Tornò in cucina e aprì la caffettiera. Dentro c’era un po’ di caffè che era sicuramente recente, e il fiuto le confermò che era così. La stronza non aveva lasciato l’appartamento!  

Pensò di salire al piano di sopra e spiattellare tutto alla proprietaria dello stabile, ma non ne aveva la minima voglia, in realtà, quindi ficcò gli indumenti in una busta e passò in camera sua per vedere se c’era qualcosa che avrebbe potuto tornarle utile, oltre alle carte dei tarocchi che prelevò immediatamente da un cassetto in bagno. Si guardò nello specchio. Aveva ragione Dori, era pallida, gli occhi cerchiati e sulle tempie le erano spuntate delle sottili vene come coralli azzurri. Si toccò la pancia ed ebbe un brivido, immaginandosi di sentire un calcetto, poi uscì dalla stanza e dall’appartamento e fu certa che non ci avrebbe più messo piede.  

Parte #5

Per una settimana usò il bagno di Macomber con una frequenza tutta nuova. Lui non ebbe nulla da ridire (l’albergo era di famiglia), anche se vedeva entrare Ceridwen e uscirne mezz’ora dopo una mendicante stralunata, zoppa da un piede e che non sembrava nemmeno conoscerlo. Macomber prese a chiamare la mendicante signorina Esmeralda.

«Prego, signorina Esmeralda» le diceva quando tornava, «conosce la strada. Faccia pure con comodo».

Continuava a fumare come una ciminiera, Macomber, era sempre sulla porta che tirava come se respirasse un pugno d’ossigeno. E tossiva. Si portava l’incavo del gomito sulla bocca e giù di spurgo. Sputava in un fazzoletto che teneva in tasca, ma ci tenne a rassicurare Ceridwen che lo cambiava ogni giorno, anche se a Esmeralda sembrava sempre lo stesso. La mendicante gli scroccava anche qualche sigaretta per Ceridwen.

Fu un’esperienza straordinaria, per lei, impersonare per strada la zingara Esmeralda. Ma anche molto dolorosa. Il suo palcoscenico erano i luoghi tra la banca, il fioraio e il supermercato, persino dentro il supermercato, dove lavorava come commessa la donna alla quale avrebbe dovuto parlare. Creò il personaggio con molta attenzione, dal trucco che le imbrattava il volto alle movenze zigane che prima di impersonare Esmeralda aveva osservato in una ragazza che se ne andava in giro con un bicchiere di carta tintinnante nelle stazioni della metro. Si mise in testa come un dato di fatto che la donna del supermercato era in pericolo e lei voleva comunicarglielo. Lo mise in testa a Esmeralda, naturalmente, perché Ceridwen vedeva solo una sconosciuta alla quale non si sarebbe mai sognata di rivolgere la parola. Il dolore le veniva da ciò che sapeva Esmeralda. Allo stesso tempo la zingara le rifocillava entrambe, perché scroccava il cibo nei bar all’orario di chiusura, da Macomber e da Fennicus, che ogni tanto le consegnava un panino avvoltolato nella carta stagnola chiedendo a Ceridwen di farlo avere coi suoi omaggi alla zingara.

Un tardo pomeriggio, mentre fumavano insieme una sigaretta sul retro dell’albergo dove solitamente fumava Macomber da solo, lui chiese a Ceridwen da dove venisse Esmeralda. Erano appoggiati alla parete e guardavano il traffico proibitivo del dopolavoro. L’aria imputridiva degli scarichi pestiferi delle auto e delle loro emissioni di CO2 (Fennicus le aveva detto che dieci giocatori in un campo di calcetto emettevano ottocentoventi tonnellate di anidride carbonica – un quinto di quanto emetta uno shuttle in partenza). Ceridwen capì che Esmeralda aveva bisogno di una biografia e la improvvisò sul momento. Era di origini bulgare, viaggiava per l’Europa insieme alla famiglia da quando era ancora in fasce. Erano numerosissimi, naturalmente. C’erano anche parenti che in realtà non erano veri parenti ma che lei chiamava zii. Poi un uomo, un belga, si era innamorato di lei e aveva voluto strapparla dalla vita di strada. Macomber si stava divertendo, tra un colpo di tosse e l’altro, così mise alla prova Ceridwen e le chiese come si chiamasse l’uomo.

«Thomas», disse Ceridwen.

Era stata in Belgio con un gruppo di amiche, diversi anni prima, quando fingeva di essere normale. Thomas era il nome di un ragazzo che ci aveva provato con la sua Amica Perduta in una brasserie.

«E poi, che fine ha fatto questo Thomas?» le chiese Macomber, mentre lei rifletteva sul da farsi.

«Perché non lo chiedi a Esmeralda?».

«Lei non parla con me, è schiva». Macomber sorrise. Questa era una novità; il fatto che Macomber potesse sorridere. Le disse che era capitato anche a lui che una donna volesse salvarlo. Dal cancro?

«No, no, non sapevo ancora di averlo».

Macomber era stato un tossico. Eroina. Aveva conosciuto questa donna in un centro di recupero, l’ennesimo in cui era finito; no, lei non era una tossica, era un’assistente psicologa alla sua prima esperienza in comunità. Si erano innamorati, erano fuggiti insieme e avevano abitato per un po’ proprio in una stanza di quell’albergo. Lei era stata licenziata a causa sua. Storie, pensò Ceridwen. Il passato di ciascuno di loro ne era imperlato come fili d’erba all’alba, anche quello di Esmeralda. Alla fine la psicologa si era accorta di cosa volesse dire vivere con un tossico che, anche se resisteva alla tentazione di lasciarsi andare, era fragile, depresso e non smetteva mai di pensare che farsi fosse l’unica soluzione a ogni cosa. Ma non se n’era ancora andata perché anche lei non sapeva cosa fare della sua vita, aveva perso il lavoro per un grave sbaglio e si sentiva inadatta a esercitare la professione.   

«Ma che stronza» aveva detto Ceridwen. Non era da lei giudicare qualcuno solo per ciò che aveva fatto attraverso il racconto di un altro, ma forse proprio perché si stava affezionando a Macomber, le era scappato.

«Non la biasimo, in realtà» aveva detto Macomber accendendo altre due sigarette e passandone una a Ceridwen. «Nemmeno perché se n’è andata quando è spuntato fuori il cancro».

Ceridwen rimase con la sigaretta tra le labbra. Non osava più muoversi. Una parte di lei era terribilmente addolorata dalla vicenda di Macomber, ma un’altra molto più segreta provava di nuovo la beatitudine dell’ispirazione. Aveva capito che fine avesse fatto Thomas, poveretto, il cancro se l’era portato via proprio al culmine della sua felicità terrena con Esmeralda.


Fennicus passava a trovarla in garage, alcune sere, quando sapeva che lei e Esmeralda non erano uscite. Portava del vino infimo che bevevano in due calici di latta trovati in mezzo a tutta quella roba. Quando facevano cincin i bicchieri cozzavano come armature in una battaglia sanguinolenta. Il vino, rosso, le dava un ottundimento leggero alla sera e pesantissimo al mattino. Lo chiamavano complici, come uno dei racconti di Hemingway, il vino del Wyoming.

«Devo dire che è diventato proprio un ambiente confortevole» le aveva detto Fennicus toccando il paralume di un abat-jour che mandava una luce gialla. Ceridwen aveva commentato che al quinto bicchiere di quella roba diventava confortevole anche una fogna. Fennicus s’informò se continuasse a leggere i nuovi pezzi che pubblicava nel suo blog. Non le chiedeva mai niente di come stesse andando con la donna del supermercato. Per quello, era paziente, sapeva che Ceridwen se la stava lavorando e che Esmeralda era più viva di quanto lo fosse molta gente non travestita. Ceridwen gli disse che aveva finito i giga da tempo immemore, e che naturalmente non aveva soldi per ricaricare il telefono. Esmeralda portava a casa qualcosa, ma visto l’attuale domicilio le sembrava un lusso che Ceridwen ed Esmeralda non potevano concedersi. A proposito, gliel’aveva detto che la stronza era rimasta nell’appartamento come se niente fosse e che questo significava che lei non poteva più tornare in quel luogo abitato da parassiti di cui uno bello grosso? Tanto non avrebbe più avuto nemmeno di che pagare l’affitto. Fennicus scolò il bicchiere e le mise in mano dieci euro. «Per la ricarica», disse.

Lesse un nuovo pezzo di Fennicus non appena ricaricò il telefono. Parlava di “sproporzioni”: ricchi e poveri, felici e infelici, chi lavora e chi no, chi ha fede e chi non ne ha, chi non dubita di niente e chi dubita di tutto, chi riceve sussidi e chi non ne riceve, chi ha una casa di proprietà e chi non riesce a pagare l’affitto, chi è amato e chi non ha nessuno che lo ama, chi ha amici e chi non ne ha, chi è colto e chi non lo è e quindi chi legge e chi non legge, chi studia e chi paga, chi fa sesso e chi non ne fa, chi non riesce a stare solo e chi da solo si trova in buona compagnia, chi è africano e chi europeo, chi è razzista e chi non lo è, tutto lo scibile umano scisso in due, in pratica, due categorie per ogni cosa, o sei qui o sei di là, chi è vivo e chi è morto. E poi diceva che queste due grandi e apparentemente opposte categorie erano troppo contingenti, nel senso che si riferivano al presente, all’ora, al qui. Quindi bisognava rivoluzionare il momento presente e cambiargli di segno, non importava in quale direzione. Il momento presente, scriveva Fennicus, sarebbe passato al successivo, e ciò, lo diceva la parola, era già un successo. Le parole non mentivano, gli uomini sì. Perché un uomo abbiente avrebbe voluto cambiarsi di segno? Perché la sua abbiezione – anche qui lo diceva la parola – gli era data dal suo essere abbiente. Anche gli infelici erano in-felici, e stava a loro privarsi di qualcosa o piuttosto congiungersi alla permanenza di uno stato d’animo acquietato, che era molto meglio che esaltato. Forse si pensava che il calmare le acque, scriveva Fennicus, fosse sovrumano, ma anche l’umano e il sovrumano erano apparentati da una sproporzione di soli segni opposti. Meno è più, scriveva Fennicus, Io è un altro, brutto è bello, guerra è pace.

Un uomo non potrebbe mai capire come si sente una donna, pensò Ceridwen. Ne sei assolutamente certa? Disse Fennicus nella sua testa.

Parte #6

Quando aveva provato a chiedere a Fennicus qualcosa sulla moglie e il figlio, Fennicus le aveva detto che non voleva in alcun modo parlare della sua “vita privata”. Non perché fosse uno spazio che voleva proteggere e custodire e blablablà, ma perché loro due avevano talmente tante cose interessanti di cui parlare che gli sembrava uno spreco di tempo raccontarle del suo matrimonio combinato che aveva dato origine a un futuro sovvertitore. Era vero, non erano mai a corto di argomenti, loro due. Alla domanda su chi gli avesse assegnato i suoi sovvertimenti, compreso dunque il quinto che aveva sovvertito il suo celibato, Fennicus le disse che era stato Magnus. E chi è, Magnus?

«Pensi di conoscere tutti i sovvertitori, Ceri? Non potresti nemmeno se fossi immortale e vagassi sulla terra dall’alba degli uomini, e quindi dalla partenza dei Miti. Quando un giorno risponderai a una domanda col mio nome, avrai in cambio lo stesso batter d’occhi che ho appena ricevuto da te. Non esiste una storia ufficiale dei sovvertitori, esiste una storia nascosta dei sovvertitori. Che nessuno conosce».

Un giorno, mentre Esmeralda sedeva fuori dal supermarket coi tarocchi e il bicchiere di carta davanti alle gambe incrociate, un uomo si era avvicinato senza lasciare cadere niente. Semplicemente, stava lì. Esmeralda aveva alzato lo sguardo. L’uomo la fissava con il ghigno di chi la sa lunga.

«E tu chi saresti?» le aveva chiesto, o perlomeno questo era il senso delle sue parole farfugliate.

Mentre gli disse il suo nome, Esmeralda notò che non aveva un orecchio. L’uomo le disse, a suo modo, che lì non ci poteva stare. In un secondo momento Ceridwen considerò che avrebbe dovuto essere felice di quell’intimidazione, perché se uno zingaro l’aveva scambiata per una vera mendicante questo significava che il suo travestimento era ineccepibile.

Esmeralda aveva alzato una mano aperta verso l’uomo senza un orecchio.

«Cinque giorni», aveva detto. «Me ne vado tra cinque giorni».

L’uomo aveva bofonchiato, andandosene, ma lei non era affatto sicura che quello fosse un segno di assenso. 


Ora che si era data un limite di tempo entro cui fare ciò che doveva, Ceridwen si domandò se sarebbe stato sufficiente. La cassiera l’aveva certamente notata, lì fuori come dentro il supermarket, ma ogni volta che Esmeralda aveva cercato un contatto visivo non aveva ricevuto risposta. In un’occasione, mentre le lasciavano saltare la fila con il pretesto che aveva solo una busta di mele (ma in realtà perché Esmeralda puzzava: Ceridwen si era strofinata addosso un intruglio di cipolla e acqua ragia), una volta alla cassa si era profusa in scuse per non si sa cosa, ma la donna, che vista da vicino era molto più giovane di ciò che le era sembrata, aveva passato la busta e battuto lo scontrino senza aprire bocca né alzare gli occhi, limitandosi soltanto a un sorriso basso e ombroso con cui le comunicava di lasciar stare. Esmeralda lasciò scivolare sul nastro la tredicesima carta degli Arcani Maggiori, la morte con la falce, poi se ne andò. Qualche giorno dopo volle fare un esperimento e mandò Ceridwen al supermercato. Ceridwen acquistò una confezione con dentro lo stesso quantitativo di mele della medesima qualità, andò alla cassa interessata e fece la fila. Questa volta nessuno si offrì di farla passare. Era sicura che se l’avesse chiesto, le avrebbero indicato la cassa automatica. Ma naturalmente Ceridwen non voleva saltare la fila: attese il suo turno osservando attentamente come la donna si comportasse coi clienti.

Quando Ceridwen ed Esmeralda ponderarono insieme, giunsero alla conclusione che la cassiera non ce l’aveva coi mendicanti; era introversa con chiunque, e lo era in una maniera che vista da vicino trasmetteva un disagio profondo, sul genere io non sono qui. Se le mele le ricordavano qualcosa non diede a vederlo, e in generale tutto nel suo aspetto discreto comunicava il bisogno di scomparire agli occhi degli altri. Ceridwen ed Esmeralda giunsero alla stessa, inaspettata conclusione: la cassiera era la psicologa che aveva perso il lavoro alla comunità e si sentiva in difetto; la ragazza che aveva abbandonato Macomber al suo calvario dopo averlo illuso che al mondo esistesse un amore disinteressato.


Si chiamava Marta. Esmeralda e in seguito Ceridwen ne avevano letto il nome nel cartellino. Lo sciocco e pretenzioso vezzo del consumismo per far credere al cliente che aveva a che fare con una persona, che a quella persona ci teneva al punto che potevi rivolgerti a lei chiamandola col suo nome di battesimo; che quella persona non era un numero ma un figlio della grande famiglia. Finché Marta avesse avuto il suo nome sul petto, non avrebbe potuto scomparire. Ceridwen sapeva scomparire, Esmeralda sapeva scomparire. Marta come Macomber, o meglio Lucio, si portavano appresso il loro nome ogni volta che infilavano la divisa, per metà delle loro giornate, cosicché s’illudevano nell’altra metà di poter essere chi volevano, anche nessuno. Come aveva potuto Ceridwen non pensarci prima? Da qualche giorno non passava da Macomber perché piuttosto che cospargersi ogni volta del suo intruglio aveva smesso di lavarsi. Aveva portato il travestimento di Esmeralda in garage e si preparava direttamente lì, come se fosse la sua grotta segreta e la mendicante il suo costume da Donna Pipistrello. A volte lo trovava persino divertente.

Ora che era tornata a cercare Macomber in albergo, una donna che assomigliava terribilmente al FaceApp di Macomber stagionato e invertito di genere aveva detto a Ceridwen che Macomber – Lucio – era stato ricoverato in oncologia. La donna era prostrata, ma capì che Ceridwen era un’amica di suo figlio e non ebbe timore di mostrarle il suo dolore, anche se con dignità. Sembrava proprio che a quel punto non ci fosse più niente da fare. Ceridwen si sorprese molto quando sentì le lacrime sulle labbra. Fino a quel momento non si era ancora accorta che stava mostrando le proprie emozioni.

Immaginò Macomber intubato e solo, in fin di vita e senza nemmeno potersi fumare l’ultima sigaretta doppia. Pensò che se c’era qualcosa che poteva fare per lui era quella, portargli da fumare, accendere e passargli la cicca, allungare una mano a carezzargli la ruvida guancia come aveva sempre provato il desiderio di fare quando lo guardava fuori dall’albergo, appoggiato al muro sporco. Provò riconoscenza per Fennicus. Perché le aveva fatto conoscere Macomber prima che fosse troppo tardi, e perché le aveva assegnato il compito di vendicarlo in un modo che era più sottile che uccidere davvero (cosa che forse sarebbe stata per la sciagurata Marta una manna dal cielo). Ora avrebbe capito che cosa significa vivere con la morte addosso.


Ma la sua Donna Pipistrello, la zingara Esmeralda, non sarebbe più entrata in scena. Andò in oncologia, trovò Macomber così come se l’era immaginato ma non fumarono insieme. Non ne sarebbe stato capace. Riusciva appena a parlare, ma Ceridwen non voleva che si sforzasse e volle parlare lei per una volta. Gli parlò di Esmeralda e di ciò che avrebbe fatto per lui. Quando uscì dall’ospedale, Ceridwen era stravolta. Tornò nel suo garage e finì la bottiglia di vino del Wyoming che Fennicus si era dimenticato lì qualche sera prima. Ubriaca, cantò a squarciagola vecchie canzoni e fumò un pacchetto di sigarette fino a che il fumo non divenne una nebbia cancerosa in cui tossì come Macomber. La luce gialla del paralume riempiva la nebbia di presenze rabbercianti, univano le cose scomparse di collegamenti misteriosi, i boccali e l’acqua ragia, i manubri senza manopole né telai, I quarantanove racconti e il vecchio candelabro coi moccoli verdi consumati a metà per leggerli a lume di candela. Li vedeva, quei fili nascosti, nella nebbia cancerosa Ceridwen li vedeva passare sotto la porta e salire le scale e la rampa fino ad avviluppare tutto il condominio come tante celle dentro le celle. Vomitò in giro sulle cose che non vedeva, perché salì improvviso e forte da dentro, soffocante e incontrollato come il suo desiderio di farla finita.

Fennicus la trovò immersa nel suo vomito e la portò in braccio fino all’ascensore e da lì dentro il suo appartamento. Ceridwen era come morta ma sentiva e percepiva tutto. La mise a letto e si prese cura di lei, lavandola con uno straccio tiepido e facendole ingerire del liquido caldo. Quando fu in grado di aprire gli occhi e deglutire, le diede due aspirine sciolte nell’acqua. Tuttavia le sue prime parole furono di rimprovero.

«Che cazzo hai fatto, Ceri? Di sotto è un inferno».


Attese che Fennicus uscisse, ma lui non lasciò mai l’appartamento finché lei era in casa. Le aveva detto che la moglie e il figlio erano andati a trovare i suoceri, che era stata una botta di fortuna per lei.

«Senti, io non ho più il coraggio di entrare là sotto, mi prometti che ripulisci tutto per bene quando stai meglio?».

Ceridwen annuì, guardandolo negli occhi cerchiati.

«Se c’è della roba da buttare, la buttiamo» disse Fennicus alzandosi dal bordo del letto e tornando di là.

Lei studiò la camera e poi uscì dal letto. Aveva addosso un pigiama da uomo che le stava larghissimo e si arrotolò i pantaloni che strusciavano sul pavimento. I suoi capelli erano così inzaccherati che non aveva più bisogno di soffiarseli via dagli occhi.

Fennicus sedeva in poltrona col laptop sulle ginocchia. Batteva sui tasti. La guardò da sopra il monitor. L’appartamento era tutto pieno di cose come nel garage, pile di libri e riviste per terra. Una mensola era ceduta da una parte sotto il peso dei volumi che erano rimasti di sghimbescio tra il piano e il pavimento insediato da fiocchi di polvere grossi come scarafaggi. 

«Come vedi, devo lavorare. Quindi se stai meglio ti chiederei di… ».

Ceridwen percorse l’appartamento rapidamente, aprendo le porte chiuse e sbirciando il bagno, il ripostiglio e il cucinino a pochi metri da dov’era Fennicus, che nel tempo in cui era durata la perlustrazione aveva appena fatto in tempo ad alzarsi brontolando dalla poltrona, l’unico arredamento della zona giorno insieme a un mobiletto con sopra un televisore a tubo catodico e un tavolo con due sedie. Nelle pareti gialle c’erano soltanto i segni neri lasciati dai quadri di precedenti inquilini, ma in tutto l’alloggio non c’era un solo segnale che suggerisse altri abitanti all’infuori di Fennicus.

Lui la guardò accucciarsi sul pavimento e rannicchiarsi, abbracciandosi le ginocchia.

«Ceri… è per Macomber che fai così? Tu non sai quanto mi… ».

Lei lo guardò.

«Non sapeva nemmeno chi fosse, Marta. Gliel’ho letto negli occhi… I sovvertimenti non vengono assegnati per vendetta personale. L’hai detto tu».

Fennicus non disse niente. Sedette anche lui sul pavimento sudicio e si portò alcuni ciuffi dietro le orecchie con la solita insistenza inutile e nervosa.

«Chi è, Marta? Tuamoglie?». Lo scrutò fin dentro i pensieri. «La donna che ti ha ridotto l’ignobile rimasuglio di polvere che sei?».

«Ceri… ».

«Fanculo Ceridwen. Ceridwen è morta. Esmeralda, Macomber, Fennicus sono tutti morti. Anzi, non sono mai esistiti». Si dondolò, stringendosi le ginocchia. Non riusciva più nemmeno a guardarlo.

Perciò non vide i suoi occhi colmarsi di lacrime, le mani nervose stringere forte la stoffa sfinita dei pantaloni. Ma lo sentì tirare su col naso come un ragazzino colto in fragrante.

«Ho ucciso il gatto dei miei, cazzo» disse scuotendo il capo. «Non ce la faccio più… Quante persone dovrò ancora perdere perché ho il brutto vizio di fidarmi di loro?».

«Mi dispiace, Ceri, ma non è come… ».

Ma lei aveva deciso che poteva bastare così. Qualunque cosa avesse detto, il suo cuore era spezzato. Si alzò e andò a prendere gli anfibi. Il vomito secco li faceva sembrare imbrattati di melma. Quando tornò di là lui era in piedi in mezzo alla stanza, con le braccia lungo i fianchi e l’espressione di chi si trattenesse dal crollo. Le ricordò la madre di Lucio.

Andò diretta alla porta. La aprì.

«Ha preso mio figlio» disse lui. La voce gli si ruppe. «Il mio piccolino».

Lei si fermò sulla soglia. Lo sentì così vicino che poteva toccarla.  

«È una donna depressa, lo farà diventare un disperato… Devi sapere, Ceri, devi sapere che i Miti non avrebbero mai… ».

Chiuse la porta e scese le scale di corsa, scalza e con gli anfibi in mano. Lui la chiamò affacciandosi dalla ringhiera, supplicandola di tornare indietro, ma quel nome non le apparteneva più. Non sapeva cosa avrebbe fatto adesso. Poteva sempre tornare all’appartamento, chiedere di essere riammessa, ripartire da lì… Ma prima sarebbe andata in ospedale. Aveva ancora addosso il pigiama e forse poteva fingersi una ricoverata, stare accanto a Lucio finché il tristo mietitore non sarebbe venuto a prenderlo. Gli avrebbe accarezzato il viso senza dire nulla. Sì, senza dire più nulla fino alla fine. Avrebbe chiesto perdono ai suoi genitori. Che figlia ingrata, sono, vi chiedo perdono, perdono, perdono. Era notte e faceva fresco. Sedette su un gradino il tempo d’infilarsi gli anfibi, poi si avviò verso l’ospedale con il cuore pieno di speranza.    


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