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La danza del povero signor Squoqui
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 19/04/2022 0 Comments 18 min read
Agnello Leone Maiale Uomo Previous Viaggio a Treblinka - Next

di Matteo Quaglia
Copertina di Pablo Follieri

Arrivo a casa e sto ancora da schifo. Allora mi viene in mente il signor Squoqui.

All’epoca in cui io e mia sorella prendevamo molto sul serio cose come Date Un Nome al pesciolino rosso, sottovalutando, al contempo, cose come Cambiate L’Acqua Spesso a Geordi, mamma aveva messo in piedi questa società no profit. Credo che l’idea le fosse venuta guardando un film.

Uno dei protagonisti raccontava di un modo con cui truffare i lettori abituali di certe riviste per uomini birichini in cerca di cose da uomini birichini. L’idea era più o meno questa:

  • Fondare una società e darle due nomi. Un nome piuttosto esplicito e un altro normale.
  • Pubblicare un’inserzione reclamizzando l’ultima trovata in fatto di protesi per penetrazioni anali. Con tanto di promesse su orgasmi mai provati prima. La protesi anale ti farà toccare vette di piacere inaudite; Risultati garantiti o soldi restituiti.
  • Chi avesse voluto comprare una di queste protesi, avrebbe dovuto mandare un assegno intestato al nome “normale” della società;
  • La società avrebbe intascato i soldi;
  • Poi avrebbe spedito al mittente un assegno di pari importo. L’assegno sarebbe stato accompagnato da una letterina. Una cosa tipo: “Ci dispiace, il suo ordine è esaurito. Ecco i vostri soldi”;
  • Solo che l’assegno sarebbe stato inviato usando il nome sconcio della società. Che, mettiamo, sarebbe stato qualcosa come “Uomini nudi ingrifati e duri”;
  • Nessuno avrebbe incassato l’assegno inviato dalla società con il nome esplicito. Chi vorrebbe far conoscere i propri gusti più intimi all’ingrigito sportellista di una banca di provincia?

L’idea di mamma non aveva niente a che fare con le protesi anali. Mamma non intendeva frodare nessuno. Non nel senso più stretto del termine. Però anche la società di mamma aveva l’obiettivo di rimestare nel torbido mondo postale di ignare famiglie felici.

Mamma era una donna con i capelli ossigenati. Guardava un sacco di film. Il suo piatto forte erano le Speedy Pizza. Aveva queste unghie con residui di smalto viola.

Mamma ci voleva così bene. Ci aveva comprato Geordi e pure il cibo con cui nutrirlo.

Era il giorno dopo Natale e c’era un freddo da rischiare di spaccarsi gli incisivi. Per tutta la mattina mamma era stata china sul tavolo della cucina, intenta a scarabocchiare una pila di fogli. Quando mia sorella le aveva chiesto cosa stesse facendo, mamma aveva risposto Vedrai amore, presto vedrai.

Mia sorella aveva stretto le spalle e poi si era infilata nella sua porzione di letto. Mia sorella ricordava un coniglio. Durante quelle vacanze non si sfilava mai dal suo pigiama con le orecchie di pelo.

Poi mamma concluse il suo lavoro e ci disse di restare al calduccio sotto il piumone. Disse che sarebbe tornata nel giro di un battibaleno e avremmo mangiato qualcosa di buono e, presto, avrebbe avuto una sorpresa per noi. Anche se Natale era passato.

Aspettammo così tanto che quando mamma tornò, mia sorella mi si era attaccata alla gamba come un koala.

Mamma disse Oh Oh Oh, ci accarezzò i capelli e cucinò delle ottime Speedy Pizza. Poi tornammo a letto e guardammo un cartone della Disney.

Il giorno seguente, quando mi svegliai, mamma non era a casa. Pensai che fosse partita per un viaggio in America e che si fosse dimenticata di me e di mia sorella, come in quel film.

Poi pensai Sì, e con quali soldi?

Saltai fuori dal letto, mi infilai gli scarponcini e uscii in giardino. Il signor Scorbutico stava disfando il suo pupazzo di neve. Gli stava cavando via la carota dalla faccia. Aveva già tolto: gli occhi e la sciarpa gialla. Eppure il pupazzo continuava a fissarmi.

Mi dissi che l’anno seguente avrei fatto anche io un pupazzo di neve. Gli avrei fatto un ghigno simpatico e gli avrei dato un bel nome. L’avrei lasciato in giardino finché il sole non se lo fosse portato via. Ma l’anno seguente era ancora lontano. Per il momento, la cosa più simile a un pupazzo che possedevamo era il mezzo busto di plastica bianca che mamma usava per appoggiarci sopra il soprabito. Anche lui non aveva una faccia. Solo vaghi lineamenti. Pensai che l’anno seguente avrei potuto usare quel mezzo busto come base per il mio uomo di neve. Ma per ora niente pupazzo. Invidiai il signor Scorbutico.

Era stata mia sorella ad affibbiargli quel nomignolo. Mia sorella battezzava tutto ciò che, per qualche ragione, le faceva paura.

Agitai una mano e lo salutai. Lui alzò la testa, mi vide ed emise il suo solito rantolo. Poi tornò a occuparsi del pupazzo.

Il cielo era bianco. Faceva pensare a “Ciobar” e a pubblicità di famiglie strette attorno a un camino. Di mamma, però, neanche l’ombra. Sospirai e rientrai in casa.

Tornai a letto e cercai di svegliare mia sorella, che per tutta risposta iniziò a vorticare le mani davanti alla sua faccia da coniglio. Come se volesse graffiarmi.

Dissi Sveglia, mamma è sparita.

Mia sorella aprì gli occhi. Disse Oh. Poi tossì. Poi mi chiese quando sarebbe tornata mamma.

Dissi a mia sorella di contare fino a duecento e se per quando avesse finito mamma non fosse tornata, avremmo chiamato quel numero scritto con il pennarello sul foglietto appiccicato al frigo.

Mia sorella era quella forte in matematica.

Io ero forte nel tranquillizzare quelli bravi in matematica.

Mia sorella iniziò a piangere. Le dissi Non piangere. Potrai piangere solo quando arriverai almeno a centottantacinque.

Allora lei si mise a contare. Per ogni secondo snocciolato dalla voce tremolante di mia sorella ne trascorrevano almeno quattro reali.

Ecco un esempio di come il tempo si dilata quando proprio non sarebbe il caso, pensai.

Diedi alcuni colpetti sulla schiena di mia sorella. Lei tossì e si mise a contare con maggiore convinzione.

Neanche il tempo di arrivare a settanta, che mamma rincasò. Portava in spalla un sacco di patate.

No, ancora patate, pensai.

Poi pensai che le patate erano meglio delle Speedy Pizza. Sorrisi.

Saltai fuori dal piumone con i pugni al cielo e dissi Sì, patate!

Mamma scoppiò a ridere e disse Non sono patate! Sono la vostra sorpresa speciale.

Venne fuori che mamma aveva scritto delle lettere a nome di una società inesistente e le aveva imbucate nelle cassette postali dei nostri vicini di casa. Cittadini benestanti, che venivano a trascorrere Vigilia e tutto il resto nella seconda casa, nel clima invernale, da Natale Vero, del nostro piccolo paese di montagna. Con la neve, le urla degli ubriachi e i boscaioli senza dita.

Gente che aveva la seconda casa dove noi avevamo l’unica casa.

In quelle lettere mamma aveva scritto: “Non gettare via ciò che non vuoi. Ricicla i tuoi doni. Pensa al prossimo. Perché cancellare, quando puoi donare?”

In pratica aveva lanciato una piccola campagna di quello che, oggigiorno, definiremmo “crowfounding”. Una speciale raccolta di regali brutti.

Dona ciò che non vuoi.

Come la letterina di Babbo Natale, ma al contrario.

Nelle lettere di restituzione regali mamma aveva indicato un posto in cui lasciare gli scarti: l’indirizzo era quello del vecchio rudere di nonna.

Ecco come io e mia sorella ci siamo trovati la casa invasa da regali.

Credo fossimo i due bambini con più versioni di Barbie e Tartarughe Ninja di tutto il paese.

Trascorremmo quel pomeriggio a inventarci mondi in cui i nostri nuovi pupazzi erano chiunque volevamo che fossero. Giocammo finché mamma disse È ora di mettersi a nanna. Sotto quelle coperte pesanti ci addormentammo beati.

Le cose si complicarono il giorno seguente. Quando mamma, dopo aver recuperato il sacco di patate, disse che doveva andare a vedere se c’erano ancora doni indesiderati da recuperare. Si mise in testa il suo cappello di lana e uscì.

Contai quattro volte fino a dieci, poi uscii anche io.

Mamma era già lontana. La neve, a bordo strada, era diventata una pappetta. Mi fece pensare agli omogenizzati.

Il pupazzo del signor Scorbutico non c’era più. Feci per rincasare, quando mi accorsi che la signora Dialisi stava rovistando nei bidoni dell’immondizia, all’angolo della strada. La signora Dialisi indossava una vestaglia e un cappello con due pon pon di lana. Alcuni ciuffi bianchi spuntavano da sotto il cappello. Mia sorella aveva affibbiato quel nome all’anziana il giorno in cui mamma si era lasciata scappare un commento sullo stato di salute della donna. Mamma aveva detto Non è cattiva, sta solo poco bene.

Aveva detto Quella cosa che si trascina dietro non è un’arma, ma una portaflebo per la dialisi.

Aveva detto Non dovete avere paura.

Niente paura. Raggiunsi l’anziana donna. Le chiesi cosa stesse facendo. La signora Dialisi disse che aveva gettato per sbaglio una confezione di medicine nell’immondizia. Chiesi Che medicine?

Lei si gratto i capelli sotto il cappello di lana e disse Non ho niente per il mio mal di testa.

Poi bestemmiò. Iniziò a guardarmi come se fossi uno di quei ragazzini che nei film bussano alla porta dei vecchietti chiedendo “dolcetto o scherzetto?”. Si raschiò la gola e sputò.

Dissi alla signora Dialisi di aspettare un secondo e corsi a casa. Dentro il mobiletto del bagno trovai ciò che faceva al caso mio. Tornai fuori e le consegnai una confezione di pillole. Dissi Quando mamma ha mal di testa, prende queste e sta meglio.

La signora Dialisi si mise a giocare con i pon pon del suo cappello, con aria pensierosa.

Disse Sei sicuro che questa roba non mi ammazza?

Poi sentii un lamento provenire da casa. Mi voltai e corsi dentro. Mia sorella si era svegliata. Disse Credevo che ve ne foste andati via senza di me.

Pensai Sì, e per andare dove?

Il tempo di guardare mezza cassetta di “Aladin” e mamma rincasò, con il sacco di patate in spalla. Spiegò che la raccolta sarebbe durata diversi giorni.

A quanto pare, disse, Molte persone aspettano un po’ prima di disfarsi di ciò che detestano.

Gli occhi di mamma erano tremolanti. Sembravano di gelatina. Pensai che se non si stavano sciogliendo in una secchiata di lacrime era solo per via del freddo.

Ringraziai i termosifoni guasti.

Come il giorno precedente, io, mia sorella e mamma cominciammo a rovistare nel sacco di Juta. Una macchina telecomandata. Che bomba!

Una videocassetta di Cenerentola. Che palle!

Altre Barbie. Ad alcune di esse mancava un braccio, o una gamba. Olé!

Presi un orsacchiotto peluche con un bottone al posto del naso. Mamma lo vide, me lo strappò di mano e disse Ehi, ma questo è il nostro regalo per la nuova figlia di vostro padre.

Disse Ma che cazzo?!

Disse Scusate, non si dicono le parolacce.

Disse Va be’, pazienza.

Poi trovammo anche un trattore giocattolo. Non telecomandato (quello costava troppo). Mamma disse Ehi, ma questo è il nostro regalo per il figlio di Marina (una sua collega).

Certe cose ti fanno male, anche se non capisci il perché.

Il terzo giorno la scena si ripetè. Mamma uscì presto di mattina, per recuperare gli oggetti lasciati dai turisti del nostro piccolo borgo felice.

Io questa volta non uscii. Restai accanto a mia sorella, perché proprio non avevo voglia di sentirla piangere di nuovo.

Mamma rincasò, sempre con il sacco pieno. A differenza dei giorni precedenti, però, i regali indesiderati erano più strambi. Bambole senza occhi. Action man senza braccia. Una parrucca da uomo. Un paio di occhiali con gli occhi a molla integrati. Barbie con i capelli rasati a zero. Una pistola giocattolo senza grilletto.

Mamma lasciò che prendessimo le cose che ci piacevano di più, poi accantonò le restanti cianfrusaglie in un angolo.

Disse Mi sa tanto che domani dovremo fare un po’ di pulizia.

La sua voce era opaca. Come quando le veniva il mal di gola e poi doveva stare a letto con la borsa dell’acqua calda premuta sul petto.

Cenammo, poi guardammo un cartone e infine ci addormentammo.

Il quarto giorno, il sacco di mamma conteneva per lo più scarti. Giocattoli rotti. La custodia di una videocassetta. Una dentiera. Una sciarpa arancione. Un naso da pagliaccio.

Mamma disse Ok, possiamo finirla qua. Chiese a me e a mia sorella di aiutarla a scegliere i regali più belli. Disse Mettete nell’angolo quella roba stramba. Obbedimmo.

Mamma disse Adesso scegliete qualcosa per voi.

La sua voce era un soffio di vetro.

Per me scelsi la macchina non telecomandata. Mia sorella tenne per sé una Barbie.

Poi mamma prese i restanti giocattoli intatti, li mise nel sacco di patate e uscì di casa dicendo Torno tra poco.

Disse Oh Oh Oh.

Che, nel caso specifico, ricordò più una serie di colpi di tosse.

Quando rincasò, il sacco di Juta era vuoto. Mia sorella chiese Dove sono i nostri regali?

Mamma rispose che li aveva portati al centro raccolta per bisognosi.

Mia sorella disse che anche noi eravamo bisognosi.

Mamma si mise a piangere.

Mia sorella disse che noi non eravamo poi così bisognosi, in fondo. Poi ci mettemmo tutti assieme a guardare una cassetta della Disney.

La mattina seguente mamma non si alzò dal letto. Disse che stava poco bene. Disse Fate dormire un po’ la mamma, okay, che è stanca.

Più tardi si svegliò. Mi chiese di farle un piacere. Disse Metti gli scarti in un sacco nero e vai a buttarli via. Puoi?

Era proprio esausta. Dissi Certo. Poi, però, persi tempo a giocare con la mia nuova macchina. Infine obbedii. Presi un sacco dell’immondizia e ci infilai tutte quelle cianfrusaglia accantonate in un angolo.

Gli scarti degli scarti.

Uscii di casa. Feci per chiudere la porta, ma mia sorella si frappose. Le dissi Non uscire, che fa freddo.

Lei mi guardò e rispose che anche in casa faceva freddo.

Chiese Posso controllare se tra quegli scarti c’è qualcosa da tenere?

Che palle, pensai. Ma non dissi questo. Invece, dissi Fai pure.

Si mise a trafficare dentro il sacco nero, lì, nel nostro giardinetto privo di pupazzo di neve. Immaginai cosa stessero pensando i vicini. Poi pensai ai nostri vicini e mi strinsi nelle spalle.

Mia sorella recuperò la parrucca e gli occhiali con gli occhi a molla. Disse Ora puoi gettare via il sacco.

Tornai dentro casa e mia sorella aveva portato il suo piccolo tesoro nello sgabuzzino. Mamma stava ancora dormendo. La luce dello sgabuzzino era arancione. Mi fece pensare al laboratorio in cui era stato portato in vita il mostro di Frankenstein.

Il giorno seguente mamma stava un po’ meglio. Le chiesi se avesse voglia di alzarsi. Lei rispose che aveva mal di testa.

Disse Pensavo di avere delle pillole, ma non le trovo.

Mi venne in mente la signora Dialisi.

Dissi Se vuoi te le vado a comprare. Mamma mi rispose di lasciar perdere. Avrebbe riposato ancora un po’. Poi sarebbe dovuta andare a fare il suo turno al negozio. Poi sarebbe tornata a casa e avrebbe cucinato qualcosa di buono per la cena dell’ultimo dell’anno. Sentendo queste parole mia sorella si svegliò. Disse Sì, che bello, la cena dell’ultimo dell’anno!

Sbadigliò. Poi chiese Sarà speciale?

Mamma si stropicciò la faccia e rispose Ma certo, tesori miei.

Mia sorella chiese Ci sarà la musica da ballare?

Mamma disse Tutta la musica che vogliamo.

Quando mamma andò al lavoro, mia sorella mi tirò per la manica. Disse Vieni a vedere. Entrai nello sgabuzzino. Mia sorella aveva preso il mezzobusto di mamma, gli aveva disegnato una specie di faccia sghemba, poi gli aveva messo la parrucca da uomo e gli occhiali con gli occhi a molla. Disse Così è più bello, non credi?

Disse Ora che ha una faccia, non fa più paura.

Pensai che quando mamma avesse scoperto che fine aveva fatto il suo manichino, si sarebbe arrabbiata. Cose che succedono.

Mamma tornò a casa. Ci chiese se eravamo stati bravi. Mia sorella disse Certo mamma. Le sorrise.

Io pensai, Sì, e il manichino?

Mamma si tolse la giacca e la buttò sul letto, si lavò le mani e si mise ai fornelli.

Niente Speedy Pizza, stasera, disse. Sembrava soddisfatta. Stanca ma soddisfatta.

Patate?, chiesi.

Mamma non rispose. Si mise all’opera.

Il tempo passò scandito dai programmi trasmessi da Rai1. Finché fu ora di cena.

Alla fine, mamma aveva preparato una torta di patate.

Finimmo di mangiare e mia sorella chiese a mamma se non volesse ascoltare un po’ di musica. Mamma disse Certo, perché no.

A mamma la musica era sempre piaciuta. Lei e papà si erano conosciuti in discoteca. Così ci aveva detto. Mamma mise su una canzone rock, poi si sedette e appoggiò la testa sulle mani. Mia sorella chiese Perché non balli?

Mamma si strinse nelle spalle.

Mi venne un’idea. Pensai Sono un genio.

Dissi Torno subito, signore.

Indossai il cappotto e gli scarponi e uscii. Tirava vento. I lampioni erano accesi. Sembravano tanti occhi di gatto nella notte. Solo che i gatti in inverno non sono in giro, perché si pisciano di freddo.

Mi trascinai fino al campanello della signora Dialisi e suonai. Le mie ginocchia sbattevano tra di loro, così come i miei denti. Chiesi Posso entrare?

La signora Dialisi chiese se volessi una cioccolata calda. La vecchia sapeva il fatto suo, dopotutto.

Mi accomodai e attesi che si mettesse all’opera. Preparò un intruglio marrone e me lo servì in una tazza di ceramica rosa. La ringraziai.

Poi dissi Senta, avrei bisogno di un piacere.

Dissi Mi servirebbe una di quelle cose che si trascina sempre dietro.

Dissi anche Domani gliela rendo, lo giuro.

Incrociai gli indici sulle labbra.

Promesso.

La signora Dialisi si grattò la testa. Da quando ero entrato in casa sua, non aveva bestemmiato nemmeno una volta. Infine, disse Tu mi hai dato le pillole per il mal di testa. Posso anche prestarti uno di questi maledetti, per un paio di giorni.

Sparì per qualche minuto. Casa sua era molto più spaziosa di casa nostra. Mi sentii a disagio. Mi domandai cosa se ne facesse, la signora Dialisi, di tutto quello spazio. Non ci andava mai nessuno, a trovarla. O, almeno, non mi pareva di aver mai visto nessuno, se non gli ubriaconi che i fine settimana si aggiravano nei paraggi. Poi la signora Dialisi ricomparve, trascinando una portaflebo. Disse Domani me la riporti però.

Fuori ormai era buio. Entrai in casa. Mia sorella stava ballando con gli occhi chiusi. Mamma, seduta con gli occhi chiusi, agitava la testa a destra e sinistra.

Andai nello sgabuzzino, presi il busto e lo fissai con del nastro adesivo alla portaflebo. Uscii dallo sgabuzzino trascinandomi dietro la mia creazione frankesteiniana.

Mia sorella mi vide, si fermò e disse Oddio, è vivo.

Risposi No, non proprio.

Mamma aprì gli occhi. Sembrò mettere a fuoco ciò che stava vedendo.

Mia sorella disse Oddio, è vivo ed è il signor Squoqui.

Disse Il signor Squoqui vorrebbe ballare con te, mamma.

Mamma disse Oh.

Mentre me ne stavo lì, al centro della stanza, con il signor Squoqui incerto sul suo destino, mia sorella disse Il signor Squoqui è il miglior ballerino del paese. E chiede con insistenza di fare una danza con la migliore ballerina del paese.

Gli occhi di mamma tremolarono. Ma non come avevano tremolato quando avevamo trovato il trattore tra i regali indesiderati.

Mamma si alzò. Afferrò il signor Squoqui per le spalle e iniziò a piroettare e a piroettare e a piroettare, finché i dettagli della stanza sfumarono tutti assieme e poi fu ora di metterci a letto.

Il giorno seguente, riportai la portaflebo alla signora Dialisi. Lei mi maledisse. Mi chiese come avevo fatto a rubargli quel coso da sotto il naso. Disse L’ho cercato tutta la notte.

Disse Almeno ne è valsa la pena?

Fece l’occhiolino.


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autori letteratura manichino Matteo Quaglia Natale Pablo Follieri Racconti


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