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Il bambino depravato
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 25/10/2022 0 Comments 14 min read
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di Simone Carucci
Copertina di Susan Orlok x Midjourney

Era mercoledì o forse giovedì pomeriggio quando il bambino vestito di stracci spuntò sul giardino della villa e si mise a calpestare le aiuole insozzandosi le scarpe di fango e poi svoltò l’angolo ed entrò in cucina dalla porta di servizio, si guardò per un attimo intorno, fece due passi in avanti, abbassò i pantaloni e si mise a pisciare sul pavimento, e bello soddisfatto rimase così, col pene all’aria (un pene incredibilmente lungo e sviluppato per un ragazzino della sua età) per quaranta o cinquanta secondi, facendo sgocciolare dalla pelle bruna e corrugata anche il ricordo dell’ultimo millilitro di urina, e infine tirò su i pantaloni e gridò poveracci!, poveracci! con un rancore indirizzato, un rancore che presupponeva – o forse aveva la certezza – ci fosse qualcuno che poteva sentirlo.

Il ragazzino non sbagliava, in effetti. Qualcuno poteva sentirlo. Ero io che, nello studio ad amareggiarmi con il bilancio in rosso dell’azienda – se era mercoledì –, o a rasserenarmi con il rendiconto delle rendite degli appartamenti affittati – se era giovedì –, mi ero distratta vedendo comparire nel giardino quella che dapprima era un’ombra e poi la figura in carne ossa, e che d’istinto mi ero alzata dalla scrivania e nascosta dietro lo stipite della porta e avevo osservato la scena in cucina con emozioni contrastanti. Emozioni che, anche adesso che è tutto finito, fatico a specificare.

Dentro quel calderone inedito e inaspettato, ci fu sicuramente lo sdegno e lo stupore. Mi chiesi infatti chi fosse quel nanerottolo presuntuoso che si era appena permesso di urinare nella cucina dei marchesi – abbozzai l’ipotesi che fosse il figlio di una bracciante appena assunta o di una lavoratrice occasionale che stava facendo una sostituzione. Lo stupore. Osservare le scarpe piene di fango dalle quali partivano gambe storte come tronchi d’albero allevati senza tutore. Gambe che erano lisce e bianche ed esili e allora perché il pene così scuro e lungo? Da dove veniva fuori? – a questo non avevo risposta.

Se fosse mercoledì o giovedì non so. Di certo era il periodo della raccolta delle olive. E il fango portato fin dentro casa – nel posto in cui una volta persino mia madre cucinò un timballo –; l’urina a bagnare il cotto fiorentino che il nonno si vantava di aver scelto di persona; e il membro furono elementi che resero l’incontro affascinante. Per questo, nonostante i modi da villano, quando il ragazzo prese la strada inversa lo seguii con lo sguardo e quasi rapita mi appostai alla finestra dello studio e lasciai scivolare l’occhio sotto la siepe – dove la nonna tanti anni fa mi ha insegnato a guardare per controllare il passaggio delle ombre sulla strada di ciottoli.

Non saprei dire invece perché quando il ragazzino scomparve mi affrettai in cucina e, invece di prendere secchio e straccio per pulire il piscio, rimasi immobile a osservare la pozza. Era piuttosto grande, sui due o tre metri, e in leggero movimento. Alla luce aveva dei riflessi come di cristallo, riflessi che rimandavano all’acqua di mare. Attirata da quei giochi di luce, mi accostai al pavimento e, a quattro zampe, annusai il liquido con l’accortezza di non bagnarmi le mani o le ginocchia. Era inodore. O comunque di un odore abbastanza debole. Tanto debole da mimetizzarsi con gli altri odori della stanza. Non mi bastò. Tutto ad un tratto divenne per me fondamentale conoscerne il gusto. E fu per questo se dalla bocca feci spuntare fuori un triangolino di lingua e leccai. Era tiepida e frizzantina. La leccai ancora, me la passai sui denti e sulle gengive per cercare di capire meglio che sapore avesse. Mi parve erbaceo, il sapore. Ma forse ero troppo eccitata. O forse tenere la testa abbassata mi aveva fatto tornare su le verdure del pranzo. Non so dirlo e comunque non è importante.

Quello che è importante è che il ragazzino tornò il giorno seguente. Vestito allo stesso modo e con le stesse scarpe sporche di fango ripeté i gesti con la solennità di un monaco o di un asceta. Prima le aiuole del piazzale. I fiori calpestati un po’ a casaccio e distrattamente. Poi entrò dalla porta di servizio, arrivò al centro della cucina, abbassò i pantaloni e da quell’arnese lunghissimo e bruno fece zampillare l’urina. Infine le grida. Poveracci!, poveracci! E conclusa la bravata si allontanò con tutta calma per poi sparire al di là della siepe, sulla strada che porta all’uliveto.

Anche stavolta lo seguii da dietro la finestra, ma per andare in cucina attesi qualche attimo in più. Volevo avere la certezza che sarei passata inosservata.

Non so quanto riuscii a resistere. Un tempo breve, forse brevissimo. Poi mi scaraventai sul pavimento della cucina e mi misi a leccare come una gatta. Con la furia di una gatta che non beve da settimane. L’attimo dopo il sapore di sale esplose sulla lingua e sul palato. Era un sapore molto intenso e sgradevole, un sapore che niente aveva a che fare con quel gusto dolciastro ed erbaceo del giorno precedente. Leccai una seconda volta e una terza. Leccai finché non mi accorsi di essermi inzuppata le mani e i polsi. Un gesto involontario che, come ogni tanto capita alle cose che succedono senza premeditazione, si rivelò epifanico. Il piscio, come una miracolosa crema per la pelle, distese e dilatò i pori, lenì il dolore nelle ossa, rinvigorì i muscoli della mano.

Tornata all’impiedi tremavo come una foglia e boccheggiavo. Quel liquido, quel piscio a volte salato a volte erbaceo poteva farmi ringiovanire!

Corsi allora nel ripostiglio esterno. Presi secchio e straccio. Li lavai accuratamente con la pompa del giardino per eliminare qualsiasi impurità. Poi rientrai in cucina e, con il massimo dell’accortezza, prelevai il liquido dal pavimento. Dal secchio lo travasai con cura in diversi contenitori di vetro, vecchi barattoli per le conserve, che riposi nel bagno privato della mia stanza al primo piano. Valutai non ce ne fossero abbastanza per farmi una doccia completa, forse ce ne sarebbero stati abbastanza per ungermi pezzo dopo pezzo con una spugna. Preferii comunque non rischiare di rimanere a metà e decisi di aspettare il giorno seguente.

Quella notte feci un sogno di cui, anche se mi sforzo di scacciare le immagini peccaminose, purtroppo ancora ricordo. C’ero io nel sogno e naturalmente c’era lui, il bambino depravato. Era in cucina, i pantaloni abbassati, e stava per liberare l’urina. Ma io lo anticipavo. Spuntavo dallo studio, con una sola mossa mi toglievo i vestiti e mi sdraiavo sul pavimento. Proprio sotto il suo pene lungo, scuro e flaccido. Il bambino si apriva in un sorriso o in un ghigno; insomma, era felice di accontentarmi. Mi pisciava addosso. Come sotto a un idrante, venivo inondata di urina. In un batter d’occhio ero fradicia. E il mio corpo, il mio corpo rugoso e avvizzito, il mio corpo che mi fa rabbrividire ogni volta che per errore guardo lo specchio dopo aver fatto la doccia, il mio corpo a poco a poco riacquistava lo splendore di gioventù. La pelle tornava a farsi candida, di un rosa delicato e tenue; la pancia piatta; dalle gambe sparivano le vene varicose, dai piedi i calli, dalle mani le macchie dell’età. E allora il pene già incredibilmente lungo del bambino si faceva ancora più lungo ed eretto. Aveva finito di sgocciolare su di me il liquido. Aveva le guance arrossate e uno scintillio delle pupille da stallone indomabile. Praticamente mi saltava addosso. Io spalancavo le cosce giovani. La vulva umida ed elastica era pronta ad accoglierlo. Ma proprio quando ormai mi era di sopra e la sua pelle stava per fondersi con la mia e il suo sesso adamantino penetrarmi, proprio quando almeno in sogno sarei potuta tornare a godere, le immagini si interrompevano. Buio. Nero assoluto. Silenzio totale. Mi svegliai di soprassalto che ero lì lì per godere. Per un attimo mi sfiorò l’idea di accarezzarmi. La mano andò giù, giocò per un po’ con l’elastico, ma poi mi vennero degli spasmi. Il vomito risalì lungo la gola. Mi versai e bevvi un bicchiere d’acqua dalla bottiglia che sempre tengo sul comodino e come d’incanto mi riaddormentai.

Il mattino successivo mi svegliai con l’umore sotto le scarpe. Il sogno mi aveva sconvolta e pure frustrata. E non fu necessario guardarmi allo specchio né togliere le coperte per rendermi conto di essere tornata vecchia. Di avere ancora tutte le mie rughe e le mie disgustose macchie della pelle. Me le sentii addosso come cancri, come zecche inestirpabili, come una punizione divina.

Fu tanto tragico il risveglio perché, per quanto possibile, negli anni avevo imparato a convivere con la mia vecchiaia. Con l’ingrigirsi dei capelli, con il volto da zitella repressa, con le ossa scricchiolanti che chiedevano pietà ad ogni scalino. Ma l’incontro aveva cambiato tutto. Il piscio del ragazzo mi aveva ridato speranza. L’illusione della speranza. E in quell’illusione mi ero vista ricominciare daccapo e scappare dalla villa. Mi ero vista compiere azioni che in gioventù non mi sarei mai nemmeno sognata. Vendere tutti i miei averi, comprare un camper e girare il mondo, frequentare uomini scapestrati e con loro fare l’amore su spiagge lontane ed esotiche. Ma quell’illusione si interrompeva lì. Sulle macchie nere delle mani, sulle zampe da gallina che avevo intorno agli occhi. Sui seni flosci che mi toccai per sbaglio o per abitudine appena alzata dal letto.

Dovetti farmi forza per scendere al piano terra e prepararmi la colazione. Mangiai senza avere appetito e senza sentire il sapore del cibo. Poi uscii dalla villa e feci quattro passi nel giardino. Era una giornata di sole e nuvole; ma il vento tirava da est: non avrebbe piovuto. Misi l’acqua ai fiori, cercai con lo sguardo il movimento in lontananza di qualche animale. Vidi gazze, picchi, poiane e fagiani. Le lepri a quell’ora del giorno erano nelle tane o tra i fossi. I caprioli nascosti nel boschetto. Andai a salutare il cedro, passai le mani sui tronchi di pino e abete. Staccai una foglia di menta e l’odorai. Rientrai in casa non più triste, ma nemmeno felice. Rientrai serena, accettando la mia sorte, e mi diressi in bagno. Presi spazzolino e dentifricio. Serrai i denti e aprii la bocca. I denti erano tornati bianchi. Non giallini né avorio, perfettamente bianchi. La pipì del ragazzino aveva funzionato da smacchiante. E questo era un dato tangibile, non stavo sognando. Mi battei l’unghia del medio sugli incisivi. Davano l’impressione di essere sani come non mai.

Appena uscita dal bagno chiamai il fattore. Quanto sarebbe durata ancora la raccolta delle olive? Non più di una decina di giorni, disse. Presi carta e penna e calcolai una media di due litri al giorno di urina. Divisi per trecentosessantacinque. Avrei avuto a disposizione, approssimando per eccesso, cinque centilitri e mezzo di urina per fare sciacqui quotidiani in un anno. Sciacqui che mi avrebbero garantito di avere almeno denti sanissimi e splendenti. E quindi di risparmiarmi di pagare le prestazioni del dentista. Una magra consolazione.

Stetti per un po’ nello studio a riflettere se valesse la pena accontentarsi. Ma che non poteva valerne la pena era ovvio. Perché che farsene di una dentatura perfetta e scintillante se il corpo che la porta in giro sta cadendo a pezzi? Decisi perciò di tentare la sorte. Dieci giorni di urina avrebbero significato all’incirca una ventina di litri, senza contare il liquido già raccolto. Non sarebbero stati sufficienti per riempire la vasca fino all’orlo, ma per farmi un bagno decente sì.

Il destino era dunque scritto. Per i giorni che rimanevano alla raccolta delle olive mi sarei io trasformata in un monaco o in un asceta. Avrei aspettato con calma olimpica la venuta al pomeriggio del ragazzino, l’avrei osservato compiere la sua abbondante e preziosa minzione sul pavimento e poi, dopo le grida, quando se ne sarebbe andato, avrei preso secchio e straccio puliti a dovere in precedenza e prelevato il piscio sul pavimento fino all’ultima goccia. Infine mi sarei preoccupata di trasferire il liquido dal secchio ai barattoli delle conserve, che poi avrei riposto con cura nell’armadio della mia stanza al primo piano.

Fu esattamente quello che feci.

Arrivò il decimo giorno. Il bambino se ne andò trotterellante come al solito sulla strada di ciottoli. Io ultimai le mie operazioni. Ma poi, di fronte all’armadio interamente occupato dai barattoli delle conserve che sembravano pieni di miele d’acacia, ebbi un sussulto. Quella era la mia unica occasione. Dovevo sfruttarla al massimo. Una doccia bollente. Quello era il modo migliore per prepararsi all’immersione di urina. Perché l’acqua calda, mi dissi, apre i pori e lava via le impurità presenti sulla pelle. L’acqua calda, in un certo senso, è il primo passo per la cura miracolosa del piscio, per l’osmosi proletaria.

Naturalmente non mi diressi nel mio bagno privato, ma andai nel bagno di servizio del piano. Mi lavai a fondo con un’acqua quasi ustionante. Mi asciugai per bene. Nuda tornai nella mia stanza. Alla vista dei barattoli l’agitazione salì di colpo. Cercai di contenerla col respiro ma non ci fu più nulla da fare. Con uno stato di alterazione che non mi vergogno a chiamare delirio, presi uno ad uno i barattoli e li appoggiai accanto alla vasca. Versai all’interno il piscio con mano tremante e poi mi immersi. Il piscio riusciva a malapena a coprire il mio corpo. Anzi, lo copriva in parte. Le dita dei piedi, le ginocchia, il ventre, il seno e la quasi totalità della mia testa erano infatti allo scoperto. Mi rigirai nella vasca come un pesce che boccheggia in una pozzanghera. Più che un pesce, mi sentii come uno di quei lamantini in fin di vita che si vedono ogni tanto nei documentari alla televisione. Quando stavo quasi per soffocare mi rigirai ancora. Stetti in posizione prona per un bel po’ di tempo e poi tornai in apnea.

Non ricordo quante volte ripetei queste operazioni. Molte volte, comunque. Uscii dalla vasca che era notte. Mi affrettai allo specchio per asciugarmi. Ma lo specchio non mentì: ero ancora vecchia. Disgustosamente vecchia. Mi infilai l’accappatoio e riguardai di nuovo. Mi rividi giovane. Per un attimo, soltanto per un attimo, rividi il mio volto di bambina. Fu terribile.

Da quel giorno di ottobre è ormai passato quasi un anno. Oggi hanno iniziato la raccolta delle olive. Io sono nello studio e aspetto. A momenti mi dico che sarebbe meglio chiudere la porta a chiave, e con lei archiviare questa storia; a momenti mi accosto alla finestra nella speranza di vedere di nuovo la sua ombra sulla strada di ciottoli. Ombra che ancora, in ogni caso, tarda a comparire.


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