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Il nemico non ha pietà
By Malgrado le Mosche Posted in Cacao Meravigliao, Miscellanea on 01/03/2023 0 Comments 11 min read
Il periodo tardo di Libero Trementini Previous Lava Next

di Vargas
Copertina di Eris edizioni

Spesso e volentieri a chiederci una recensione è la casa editrice. Più di rado capita che sollecitiamo noi l’ufficio stampa o l’autore, ma in questo caso le cose sono andate in modo diverso. Questa volta un amico si è fatto avanti e senza essere minimamente sollecitato, mi ha messo in mano il libro che si era comprato per fatti suoi e mi ha fatto: “Leggitelo” Perché? “Leggitelo”. Così me lo sono portato a casa.

Dopo un paio di settimane l’amico ha rincarato: “E spicciati che lo devo prestare di nuovo”.

Leggenda vuole che questo sia il famoso passaparola.

Il nemico non ha pietà è il secondo romanzo di Marco Boba per Eris edizioni, illustrato da Officina Infernale.

Parla di Andrea Pulici, un anarchico allontanatosi dalla militanza attiva per stanchezza e disillusione, che si barcamena tra lavoretti a termine buoni giusto per tirare a campare. Dopo anni di inattività la sua compagna, ancora addentro a manifestazioni e movimenti riesce a convincerlo a partecipare ai cortei per lo sgombero violento da parte della polizia dell’Asilo, un edificio occupato da 30 anni a Torino. La sua ricomparsa sulla scena delle proteste allerta la Procura di Torino nota per essere molto suscettibile ad alcuni determinati capi d’accusa e mesi dopo viene incarcerato per un reato del tutto inconsistente.

Come spesso succede a Torino, insomma.

Uscito dopo tre settimane, Andrea è ancora più provato. Si rassegna a lasciare la compagna che non ha mai amato e si chiude in sé stesso finché non viene in possesso di un’ingente quantità di denaro. Alienato dal movimento e da un mondo dove la legge dei compromessi impone che a prenderla al culo son sempre gli stessi, capisce di non aver più nulla da perdere. Siccome la lancetta luxemburgiana tra Socialismo e Barbarie non pare aver alcuna intenzione di propendere per la prima opzione nell’immediato futuro, Andrea decide che se non può esserci giustizia almeno può esserci vendetta e si dà alla lotta armata.

Prima di parlare del libro però è opportuno fare un passo indietro.

Nel 2015 Boba esordisce col suo primo romanzo, sempre per Eris: Io non sono come voi.

Grossomodo la trama è l’embrione del secondo: un uomo scontento della società trova un borsone di soldi e decide di impiegare questa nuova serenità economica per darsi al vigilantismo. Una normale opera di fiction che nessuno si sognerebbe di criticare perché qua siamo tutti per la libertà creativa e la separazione tra opera e autore, no? NO?

Nel 2021, mentre Boba è già ai domiciliari per il suo attivismo, arriva dal solito Tribunale di Torino una richiesta per la sorveglianza speciale, l’ennesimo provvedimento fuori dalla grazia di Dio (e della Costituzione) che con la scusa del contenimento dei fenomeni mafiosi viene comminata con agghiacciante liberalità a chi faccia attivismo radicale. Un altro esempio è stato il caso di Maria Edgarda Marcucci, che avrebbe del ridicolo se non fosse successo davvero e condivide la ratio con il trattamento altrettanto disumano riservato ai detenuti del 41bis.

Tra le motivazioni addotte c’è il contenuto di Io non sono come voi, assieme alla manifesta avversione a una certa linea ferroviaria di alta velocità di cui non sarà detto il nome per ragioni del tutto comprensibili.

Nel luglio dello stesso anno, viene comminata la misura preventiva.

Ad agosto esce Il nemico non ha pietà: chiunque stesse lavorando alla sorveglianza speciale di Boba, si sarà consumato gli zoccoli a forza di sfregarli.

Tornando al libro, mi sembra il caso di iniziare dal bastone.

Il nemico non ha pietà, come da ammissione dell’autore, è stato scritto cercando di seguire la successione degli eventi che Boba poteva osservare dalla prigionia della propria abitazione. La cifra del romanzo, quindi, almeno nella sua prima parte è quella della lentezza esasperante. Andrea è soffocato dalla propria disillusione verso il movimento che si è espansa a qualsiasi aspetto della propria vita. Non frequenta più nessuno, si lascia vivere e lavora quando serve e può. È Torino a soffocarlo, una città che ha visto raggiungere la cianosi nella stretta di amministrazioni che qualunque schieramento politico millantassero, hanno alacremente lavorato per sciupare il tessuto sociale urbano sotto la bandiera di neoliberismo e gentrificazione. Le prime 100 pagine del libro sono una ferrea routine di pasti, leggere news, incazzarsi e vivere nel terrore che la sua faccia appaia in qualche foto di troppo negli archivi della questura e in effetti questa cosa succede. L’arrivo in galera fa spingere ad Andrea ancora più il piede sul freno, tanto che la narrazione comincia a tornare indietro: il grosso del romanzo è un rimbalzare avanti e indietro tra i ricordi senza soluzione di continuità e anche se questa trovata fosse pensata per immergerci nel pantano che è il primo Andrea Pulici, la lettura ne soffre.

Ci va aggiunto che come molte scritture “di movimento” (mi viene per esempio da pensare a UFO78 di Wu-Ming) la prosa tende ad altalenare tra uno stile asciutto e uno da proclama che genera un leggero senso di uncanny valley in scene dove la gente inizia a parlare come un volantino di sensibilizzazione.

La struttura stessa del romanzo è abbastanza strana. A leggere la sinossi parrebbe che la trama si focalizzi sulla parte della lotta armata, mantenendo le vicende d’apertura come un pretesto. La svolta vigilantistica, invece, inizia a poco più di metà del libro e impenna con una forza che dopo duecento e passa pagine di straziante guado nella palude dell’oppressione politica, causa un modicum di sconcerto.

Quanto alla carota: questo romanzo è più utile o interessante di centinaia di robe scritte meglio.

La rappresentazione è importante, fondamentale. Tutte le storie che abbiamo sugli anarchici vanno dal propagandistico alla parodia al necrologio. Basti pensare che un tribunale si è permesso di indicare Afredo Cospito come “il capo degli Anarchici” senza che nessuno gli ridesse in faccia. Ripetete lentamente con noi: il capo di un movimento che si basa sul rifiuto delle strutture gerarchiche. Oppure ai memotti su un ragazzino in felpa preso all’intrasat durante le manifestazioni No-Expo del 2015 a cui viene chiesto di giustificare un’intera protesta. Al massimo qualcuno defenestrato dalle forze dell’ordine.

Questi anarchici non li vediamo mai tra loro, vivi e vegeti che parlano di ciò che li spinge a riunirsi e opporsi a un sistema progettato per schiacciarli. I black block nelle storie che conosciamo sono sempre violenti e facinorosi, seguaci di una violenza fino a sé stessa perché a quanto pare è divertentissimo farsi suonare come bonghi a manganellate.

Ad altri tipi di disagio sociale è concessa tutta la magnificazione di questo mondo. Il Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia è l’eroe dell’uomo comune, no? Eppure quando chi protesta mira alla sovversione di un apparato chiaramente tossico, non merita di essere ascoltato.

Le prime 200 lentissime pagine di Il nemico non ha pietà sono forse la parte più importante del romanzo. Leggiamo di scontri, sgomberi, arresti pretestuosi, polizia prevaricatrice e Tribunali repressivi, dei lenti processi di gentrificazione che rendono le grandi città il teatro di posa di una vita che non esiste più, ma anche di realtà solidali, stili di vita alternativi, reti di supporto e dopo un primo momento di incredulità possiamo semplicemente rintracciare quegli stessi elementi in un qualsiasi motore di ricerca.

Boba ci da un’immagine, la vita vera di gruppi di individui e ci offre per la prima volta il delta da un’informazione parziaria o in malafede. Difficile immaginare cosa non sappiamo possa esistere. Nelle parole della Stampa riguardo lo sgombero dell’Asilo occupato di Torino, il provvedimento era atteso da tutti, non se ne poteva più. L’articolo si apre sugli anarchichi kattivi che insultano i nostri bravi ragazzi in divisa. La copertura sui cortei di protesta che ne sono seguiti è nettamente più esigua. Qualche ripresa luciferina di un cassonetto in fiamme. Dal romanzo invece traspare l’affetto della popolazione (nel movimento o meno) per una struttura che comunque ha ospitato 30 anni di vita culturale della città, dell’incredibile e violento dispiegamento di forze impiegato per ostacolare l’avanzamento dei cortei, dell’aperta ostilità della polizia, i fumogeni, gli arresti basati sul nulla che però si sono tradotti in condanne più che concrete.

Uno sgombero atteso precisamente da chi?

Ad oggi, manco a dirlo, l’Asilo è ancora vuoto.

Il che non vuole innalzare Marco Boba a cronachista (perché lui, a essere precisi, manco c’era), ma lo vede profondersi nel proverbiale sporco lavoro che qualcuno deve pur fare: trasformare l’anarchico, una grappetta che serve a tenere ferma risme di denunce e condanne, in una persona con delle istanze che hanno delle cause.

E se ci sono delle istanze, un potrebbe pure trovarsi a considerarle condivisibili, così. Per caso.

Un altro plauso che va fatto al romanzo è quello di evitare di ridursi a puntare il dito contro tutti abbarbicandosi dietro la fantasia di potere di un protagonista incompreso. La storia cerca il più possibile di mantenersi corale e ogni personaggio viene esplorato con lo stesso senso di rispetto: anarchici, comunisti della vecchia guardia, rapinatori, malavitosi, persino il saltuario appartenente alle forze dell’ordine (ci torniamo dopo) riceve il lusso di essere trattato dalla narrazione come un essere umano, cosa che a parti invertite non sarebbe nemmeno pensabile.

Ancora più ammirevole l’occhio verso le nuove generazioni del movimento. Si fa subito, adottando il punto di vista di un disilluso ex-attivista, a liquidare la lotta come qualcosa di futile, i ragazzini come dei sognatori con la testa nel paese degli unicorni. Invece Andrea che è un misantropo, solitario, indolente, che sente già di aver fallito la sua parte di battaglia schiva il fosso e studia quelli venuti dopo di lui quasi con sollievo. C’è sempre rabbia, insofferenza, impotenza, ma anche speranza. Qualcuno è rimasto a combattere.

Una volta terminata la “premessa” del romanzo, la faccenda si fa più surreale. Andrea trova un bel malloppo proveniente da una rapina e decide di finanziarci le sue esecuzioni. L’intersezione tra la vicenda del protagonista e quelle legate alla rapina innesca una delle parti formalmente meglio riuscite della trama: l’investigazione della rapina da parte del dirigente Varriale. Il rischio di trovarsi nelle mani il classico poliziotto cattivo viene cancellato subito. Varriale in gioventù ha fatto studi umanistici, ama leggere, il buon cibo, ci si potrebbe quasi vedere una versione “inserita” di Andrea. È sempre un poliziotto, sia chiaro, ma è anche una persona.

Le indagini di Varriale sono un raro esempio di realistica rappresentazione della prassi poliziesca: la burocrazia è farraginosa, ma il potere è immenso. Il grosso degli arresti è compiuto quasi sempre senza prove e la risoluzione di un caso è infinitamente meno lineare (o garantita) di quanto ci abbiano abituato decenni di polizieschi procedurali.

Il subplot di Varriale è anche uno dei generatori di vera, autentica tensione del romanzo. Andrea ha cominciato la sua lotta armata da appena un paio di capitoli dopo duecento pagine di stasi e il rischio che venga beccato come risultato collaterale delle indagini sulla rapina è un rischio palpabile. Dopo un paio di iterazioni la sola lettura del nome di Varriale era diventata motivo d’ansia.

Ancora una volta, insomma, più che a un romanzo da godere unicamente per ragioni estetiche ci troviamo di fronte a un documento informativo e politico, un pezzo di puzzle mancante alla narrazione che ci viene fornita ogni giorno.

E visti i tempi che corrono ci servono tutte le informazioni possibili.


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