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Cosmesi
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 28/03/2023 One Comment 31 min read
Le voci del tempo Previous Ci sono corpi che non hanno voce, ma parlano Next

di Elisabetta Giromini
Copertina di Roberta Delitala

Le regole per vivere in una realtà di provincia a cui non si appartiene sono semplici: fidanzarsi con qualcuno del luogo per integrarsi, fare comunella tra forestieri. Stefania aveva capito che l’unica opzione per lei praticabile era andarsene prima possibile. Tre anni prima l’avevano chiamata da Ancona. Aveva una vaga idea di dove si trovasse nel centro Italia, ma al mare o in collina? Quanto distante da Milano? Aperto Google Maps, era un pezzo più giù di Rimini. Un piccolo uncino di terra interrompeva la linearità della costa adriatica e c’era un porto, forse, con le linee tratteggiate dei traghetti verso la penisola balcanica. «Ci serve uno sguardo nuovo». Fece zoom su Falconara Marittima, sulla raffineria: un rettangolo grigio sulla cartina. Accettò quasi per gioco quell’incarico, l’avevano fatta sentire importante. 

Il treno veloce da Milano arrivava ad Ancona in meno di quattro ore, l’ingegner Mazzi sarebbe andato a prenderla in stazione. Un caffè veloce, il correttore per nascondere le borse sotto agli occhi, miracoloso, denso quanto basta, di una tonalità poco più chiara del colore della sua pelle. Un tratto deciso di eyeliner. Adorava la precisione di quel gesto, stendere il fluido nero sulla palpebra bordo ciglia, per aumentare la luminosità dello sguardo. Completò l’opera con mascara extra volume, quel liquido scuro rimpolpava la curvatura delle ciglia e si asciugava subito, duro, rinvigorente. Aprì e chiuse un paio di volte gli occhi a dieci centimetri dallo specchio del bagno, poi più lontano. Perfetta. Con una spugnetta passò una polvere color terra, leggermente glitterata e pastosa, sugli zigomi, sullo spazio tra le sopracciglia, sotto il naso e sotto le labbra: gesti leggeri, per evidenziare i punti giusti. Rossetto forte, purple, un sigillo condensato alle labbra carnose, il suo pezzo forte. Tailleur attillato e camicetta con scollo a V. Scarpe con tacco a stiletto, sei, misurato. E occhiali da sole. Impeccabile.

Stazione centrale di Milano, Bologna, Rimini poi Pesaro, ecco che cominciavano le Marche. La costa era tutta una ferrovia bordo spiaggia. Osservò le dolci colline e il blu del mare dal finestrino, i riflessi del sole sull’acqua le fecero stringere gli occhi, sentiva nelle ossa un tepore rassicurante che l’allontanava dalla pioggia di poche ore prima. D’improvviso una desolazione di torri, fornaci e tubi. Non immaginava si sarebbe manifestata così sfacciata. Una dentellatura d’acciaio si prolungava verso il mare, fiamme uscivano dalle alte ed esili torce come tante lingue serpentine. E il suo treno a tagliare e stridere, un apparecchio che un macabro dentista regolava su quella bocca di ferro tra denti aguzzi e tozzi molari. Durò pochi secondi, ma ebbe a lungo nelle orecchie l’eco di quel suono intermittente che si sovrapponeva al tiro dei freni, un gutturale sfiato di balena. Era sicura provenisse dalla gola profonda di quel mostro grigio argento, per sfogare dalle narici, bordo mare. Poi ripresero le casette basse dalle pareti aranciate del paese, fino alla stazione di Ancona.

Poteva essere quello il posto dei sogni. Quella provincia italiana in cui le sembrava sarebbe stata qualcuno. La raffineria aveva bisogno di lei. E lei era pronta. Sentiva che non sarebbe mai stata abbastanza a Milano, che avrebbe dovuto competere coi coetanei, coi ragazzi più giovani, competere su tutto, dimostrare. In quella provincia la sua competenza era data per assodata. Era già un miracolo che una milanese fosse scesa a quelle latitudini, no? Relazioni sindacali, rappresentare gli interessi dei datori di lavoro nelle trattative. Ristrutturazioni, licenziamenti. Di questo si occupava.

L’ingegner Mazzi l’aspettava. Un ometto calvo, tra i quaranta e i cinquant’anni, una station wagon. Era stato lui ad andarle incontro non appena aveva varcato le porte scorrevoli.

«Buongiorno dottoressa, tutto bene il viaggio?». Si affrettò a stringerle la mano e con l’altra le prese la valigia.

«Sì, la ringrazio». Avrebbe potuto tranquillamente trascinare lei il suo trolley verso la macchina. Mazzi si asciugava perle di sudore dalla fronte col fazzoletto. Era lui il garante del suo ingresso in raffineria, il suo mentore? «È stato molto gentile a venirmi a prendere».

«Non c’è problema, io ci abito in Ancona». Le sorrise da dietro gli occhiali spessi. Il sedile della macchina era leggermente sfondato, Mazzi si scusò del disordine «Sa, i bambini…».

In meno di venti minuti erano al cancello della raffineria.

«C’è aria di sciopero», Mazzi le fece strada verso l’ingresso degli uffici. Subito s’insinuò nelle narici quell’odore noto.

«Potremmo fare prima un giro degli impianti?» gli chiese Stefania. Mazzi inarcò le sopracciglia. «È la prima volta che entro in una raffineria, per me è indispensabile prendere dimestichezza coi luoghi di lavoro, capirne le dinamiche». Mazzi annuì e le fece cenno di seguirlo. «Posso scattare alcune foto?».

«Non credo ci siano problemi. Le foto della raffineria sono ovunque, e io la accompagnerò solo nelle aree consentite».

Passarono di fronte a un’alta torre d’acciaio, Mazzi le spiegò che lì il petrolio greggio veniva separato nei vari tagli che sarebbero poi stati ulteriormente lavorati per ottenere composti commerciali: GPL, propano, bitume. Poi le indicò dei tozzi edifici di forma cilindrica. Il greggio veniva riscaldato nelle fornaci per poi passare nelle torri di frazionamento, delle torri cilindriche più strette, con al loro interno i piatti che favorivano lo scambio tra sostanze liquide e gassose. Il vapore, salendo nella colonna, entrava in contatto col liquido in discesa dai piatti superiori. Stefania seguiva Mazzi a passi lenti, il rumore dei suoi tacchi sull’asfalto era quasi impercettibile. Scattava foto col cellulare, voleva fissare i dettagli di quel paesaggio che aveva solo visto scorrere a veloci fotogrammi dal finestrino. Proveniva da lì quello sfiato di balena. Intermittente, profondo. Mazzi continuava a parlare. I composti più volatili, risalivano verso la parte alta della colonna, mentre quelli più pesanti rimanevano in fase liquida al fondo. Da alcuni piatti venivano spillati i vari tagli petroliferi poi inviati alle lavorazioni successive. I suoi passi, il suo respiro, la voce di Mazzi, tutto annegava in un frastuono di pistoni al lavoro. Grigio ovunque posasse lo sguardo. Quell’ometto che le faceva strada, un ometto qualunque. La sua parlata oscena, provinciale. Il tailleur, il trucco impeccabile, si estingueva la sua eleganza in quel paesaggio desolato, i tacchi a stiletto sembravano sprofondare nell’asfalto. Che posto volgare. D’un tratto si irrigidì di botto, sentì le cosce serrarsi, le braccia stringersi ai lati del corpo e dei leggeri brividi correrle dietro al collo. Smise del tutto di ascoltare l’ingegnere e tutto quel fracasso. Una zaffata le invase le narici. Le bruciavano gli occhi, il film lacrimale si era seccato, batté le palpebre più e più volte. Sentì il duro del mascara fare resistenza. L’aria sembrò d’improvviso essersi asciugata. Era un odore permeante, lo conosceva bene. Batté di nuovo le palpebre, ancora e ancora. Finalmente gli occhi si inumidirono facendosi acquosi. L’aveva invasa quell’odore spesso, acre. Sentiva espandersi in tutto il corpo quella consistenza densa, che entrava dalle narici e dalla bocca, avvolgeva e poi seccava tutto. L’odore che annusava abbassando il finestrino quando suo padre faceva il pieno per partire per le vacanze. Quell’odore atteso, alla fine della scuola, come un regalo perché sarebbero andati via da Milano verso il mare, lei la mamma e il papà. Si stagliava ancora netta nella memoria della pancia l’eccitazione: avrebbe affrontato il mare, saltato i cavalloni, nuotato, fatto il morto a galla. Non importunare gli altri bambini le avrebbe detto la mamma, ma sarebbe stata troppa la voglia di giocare, di conoscere. Un’esaltazione scaturiva da quell’odore, da quella promessa di svago, di evasione dal quotidiano, e finalmente sarebbero stati loro tre insieme. Proprio lì veniva prodotta la magica miscela, quella certezza di felicità, in quella raffineria.

«Ecco, abbiamo visto i componenti principali che si ripetono per 700.000 metri quadri, fino alla costa», concluse Mazzi.

«Grazie per il giro», gli sorrise mentre la riaccompagnava verso gli uffici, un casermone di cemento prossimo al cancello d’ingresso.

«Il settore della raffinazione è in crisi. Andiamo incontro a una riconversione» le diceva Mazzi con aria corrucciata mentre la introduceva nella sala riunioni anni Settanta, tappezzeria pesante, mobilio massiccio, luci al neon. Sapeva perché l’avevano chiamata, la competitività delle raffinerie del Golfo Persico e del Far East, l’eccesso di capacità produttiva in Europa e le normative penalizzanti che gravavano sul sistema industriale.

«Non ho visto operai» disse distrattamente poggiando la borsetta sul tavolo. Riconversione voleva spesso dire lo stop degli impianti, lo smantellamento.

«Oggi purtroppo è giorno di cassa, lavoriamo col minimo degli addetti». Erano già alla cassa integrazione.

«Beh, almeno ha avuto più tempo per me, e la ringrazio di nuovo per la gentilezza». Stefania si sedette e aprì il taccuino.

«Temo ci sia poco da sperare per gli operai, tra i quaranta e i cinquant’anni, padri di famiglia. Perderanno il lavoro e gli sarà difficile trovarne un altro, vero, dottoressa?». Gli ingegneri avevano magari qualche chance in più, e cercavano di andarsene prima che la baracca chiudesse, ma Mazzi non sembrava abbastanza scaltro da giocare di anticipo.

«Ingegner Mazzi, siamo ancora in una fase troppo preliminare, come posso saperlo? Piuttosto, gli azionisti si sono già pronunciati?».

«La famiglia, intende? Questa è un’azienda famigliare in fondo, anche se c’è scritto SpA sulle carte».

«Sì, la famiglia, certo. Sarà loro l’ultima parola. Sa che la discussione avverrà anche in Regione, oltre che al tavolo negoziale? E che i sindacati chiederanno casse straordinarie, che avremo bisogno della ratifica dal Ministero del Lavoro?».

«Me ne rendo conto, non accetteranno mai un licenziamento collettivo».

«La famiglia, dovrà dimostrare che è disposta a investire in un piano di rilancio». Le relazioni industriali erano arte del compromesso, la sua arte. «Formazione, energia pulita».

«La vedo dura… la raffineria è in perdita, dubito la famiglia voglia fare investimenti».

«Il Ministero potrebbe istituire un fondo ad hoc». Mazzi aprì la finestra, cominciava a fare caldo. E di nuovo quell’odore. Non ci si poteva scontrare muro contro muro, sarebbe stato un delirio sui mezzi di comunicazione, si sarebbero sollevate ancora pesanti proteste cittadine, piovute a raffica denunce. Quella raffineria era già sulla bocca di tutti: esalazioni periodiche, forti concentrazioni di benzene nell’aria, ripetuti incendi. Una raffineria così grossa costruita al centro di un paese nel secondo Dopoguerra. A lei stava il compito di imbellettare la situazione, renderla esteticamente accettabile per le parti in causa. Fare gli interessi dell’azienda, senza ostentarlo, con la grazia che le veniva riconosciuta di giovane donna in carriera, e quando c’era da litigare, di certo non si tirava indietro.

«Dobbiamo evitare contrapposizioni. Scioperi, cortei, picchetti ai cancelli. Non possiamo iniziare le trattative senza la prospettiva di un accordo». Continuava Stefania, e Mazzi annuiva, con gli occhi bassi. Spostò lo sguardo oltre la finestra, una lingua di fuoco uscì da una delle alte torce di raffineria, rapida e mutevole, prima blu, poi rosso arancio. Anche lei aveva dentro quella fiamma, quella lingua di fuoco danzante, bruciava ed era grinta, determinazione, rabbia. «Con chi della famiglia mi posso interfacciare?».

«Organizzerò una riunione col presidente» le assicurò Mazzi, «ma adesso, se permette, la invito a pranzo. Sarà stanca del viaggio».

Era in Ancona ormai da più di due anni, aveva preso casa vicino alla chiesa di San Francesco. Un bilocale dalle finestre ampie con vista sul porto a ovest, a nord sui tetti di tegole in terracotta tra cui svettava la cupola di San Ciriaco. Dal primo sguardo alla cartina di Google Maps, non avrebbe mai immaginato che Ancona potesse svilupparsi in altezza, un su e giù di stradine intricate lungo la collina, e il mare su due lati, ma senza un lungomare. Il porto e i cantieri di Finmeccanica da una parte, il Passetto con la sua scalinata fascista a forma di aquila che digradava verso gli scogli sull’altra. Michel sarebbe passato a prenderla di lì a un’ora. Era belga, finitoin Ancona a lavorare come responsabile vendite nella ditta del padre: producevano scambiatori di calore. L’aveva conosciuto a uno di quegli eventi per giovani imprenditori, il suo unico appiglio di vita sociale all’inizio. Le era sembrato l’unico con l’accento meno osceno e senza anello al dito.

Anche quel giorno era stata in raffineria per un round di trattative. Ne aveva ancora l’odore nelle narici e nella bocca la consistenza spessa. Si spogliò, legò i capelli in uno chignon ed entrò in doccia. Sentiva lo scroscio d’acqua sulle spalle, lungo la schiena. Si insaponò il corpo col bagnoschiuma al latte. Schiumoso di tensioattivi, cremoso di parabeni, profumato. Con le mani massaggiava il collo, l’incavo delle ascelle, strizzava i seni, dolcemente. Le mani scorrevano sulla pelle. Il ventre, l’ombelico, i fianchi. Si soffermò con le dita nell’incavo tra le cosce. Uscì dalla doccia e si avvolse nel telo in microfibra. La pelle asciutta le dava una sensazione di secchezza e durezza. Ci voleva la crema corpo, glicerina dall’azione emolliente e idratante. Si piazzò davanti allo specchio del bagno e col palmo della mano pulì via l’alone di vapore. Prima la crema idratante, la passò su tutto il viso, il collo e il decolleté. Per la serata aveva scelto un ombretto grigio argento, grigio raffineria. Infilò le calze a rete a maglie larghe, un tubino nero che le fasciava il seno e i fianchi, anfibi e giacca di pelle. Prese la pochette coi soldi e il cellulare, e scese. Michel era lì nella sua Yaris grigia tutta abbozzata ad aspettarla. Entrarono al Loop che cominciava già a riempiersi di gente. Era un locale alternativo, ricavato nella vecchia casa della nonna di qualcuno, c’era un concerto di musica indie. L’ingresso dava sulla credenza della cucina, piena di alcolici, adibita a bar con di fronte un bancone. Gente che fumava ovunque. Michel girò una sigaretta di tabacco, se ne girò una anche lei, e ordinarono due gin tonic. La stanza adiacente, un grosso salotto, vuoto, con un divano liso al fondo e, dall’altra estremità, una pedana adibita a palco. In breve tempo l’aria si fece calda e irrespirabile, continuavano ad arrivare persone. Stefania si tolse la giacca, la poggiò in un angolo del divano. La prima band cominciò a suonare. Batteria poco invadente, il frontman aveva una voce melodiosa e un po’ nasale, il synth componeva i suoni, di tanto in tanto il trillo delle bacchette veloci sui piatti di bronzo si diffondeva nell’aria a solleticare la gente persa nel suo movimento ondulatorio. Il suono riverberato, lento, arrivava sempre più attutito, erano al terzo gin tonic. Le loro facce si allargavano in grossi sorrisi, gli occhi erano fessure e i loro corpi si avvicinavano sempre di più finché anche le lingue si toccarono. Quarto gin tonic. Andavano una volta per uno al bancone a fare refill per non perdere il posto tra la finestra e il divano, ormai pieno di cappotti. Erano sostanze liquide, la musica liquida, i gin tonic dentro ai corpi, sinuosi, aderenti. Si poteva stare così per ore, senza neanche accorgersi delle band che si davano il cambio. Michel tirò fuori qualcosa dalla tasca dei pantaloni. Il portafoglio. Poi qualcos’altro dal portamonete. Una micro-bustina di plastica. Prese una pillola rosa e gliela mise davanti alle labbra. Le sorrise. L’azzurro degli occhi era indistinguibile tanto le pupille erano dilatate. Stefania gli si avvicinò di più. Aveva un buon odore Michel, bagnoschiuma fragranza pino silvestre, l’aveva visto nella doccia di casa sua. Scrollò la testa, sorridendo. Non aveva mai preso pasticche e l’indomani doveva pur sempre lavorare. Allora Michel se la poggiò sulla lingua e deglutì mentre le sorrideva ancora. Stefania lo osservò allontanarsi: si muoveva lento e liquido, di fronte al palco. Lei andò al bancone per un altro gin tonic, poi si fece spazio tra le giacche e si sedette sul divano. Anche quel giorno era stata in raffineria. Sotto suo consiglio, la famiglia aveva chiamato i sindacati al tavolo prima di aprire la procedura ufficiale di riduzione del personale. Era stato un buon segnale di apertura. Aveva affrontato tutte le negoziazioni seduta composta, la schiena dritta, le mani incrociate sul tavolo, si fidavano di lei tutte le parti sociali. La famiglia non ne voleva sapere di investire. Una famiglia vecchio stampo, un’azienda vecchio stampo. La negoziazione più estenuante era sempre con loro. Aveva alzato la voce coi sindacati, provato a difendere gli interessi della raffineria anche quando le parevano indifendibili, portato a casa lo stipendio. Aveva litigato, ma con stile. Poi rimetteva in ordine i fogli sul tavolo, andava un momento in bagno e si aggiustava il trucco. Sarebbero arrivati a un accordo, per forza. Si sarebbero stretti le mani, datori di lavoro e sindacalisti. Doveva solo convincere la famiglia a investire, poco, lo stretto necessario, ma investire, su energia verde e formazione, qualunque cosa questo potesse significare per gente arricchitasi col petrolio.

Michel la svegliò quando ormai il concerto era finito e quasi tutti se ne erano andati. Fecero l’amore sul sedile posteriore della vecchia Yaris con lei ancora mezza addormentata. Mentre le sussurrava parole oscene in francese, le mordeva i seni attraverso il vestito e le leccava il collo e la faccia, impastandosi la bocca di fondotinta.

«Ciao Stefy, che dici torniamo al Loop stasera?». Continuarono a vedersi Stefania e Michel, mese dopo mese, a frequentarsi senza mai mettersi insieme.

«Non so, vorrei prendermela con calma oggi. Fare un giro in centro, andare per negozi. Lunedì è decisivo, devo arrivarci lucida». Lunedì sarebbe stata una giornata importante, la chiusura delle trattative.

«Ma dai, andiamo presto! E poi te ne vai quando vuoi». Alzò il volume della tv. Incendio in raffineria. Gli abitanti di Falconara Marittima serrati in casa per le esalazioni.

«Perché, non andiamo insieme?», cercò di sembrare disinvolta. Il cancro dovuto alle emissioni tossiche è la principale causa di morte tra gli abitanti della cittadina alle porte di Ancona.

«No, devo dare un passaggio a Marina». E adesso chi era Marina? Staccò per un momento il cellulare dall’orecchio e fissò il nome sullo schermo. Michel. Non aveva senso vedersi con Michel, lo sapeva. Ma almeno a fine serata c’era il premio di consolazione. Apparentemente non ci sarebbe stato neanche quello, quella sera. Le associazioni verdi hanno indetto picchetti di protesta ai cancelli della raffineria per domani mattina, quando il grosso delle esalazioni dovrebbe essersi placato. La raccomandazione per tutti è di indossare mascherine.

«Ehi, sei ancora lì?», Michel la richiamava all’attenzione. «Allora per stasera?».

«Ci penso e ti faccio sapere, okay?». Spense la tv. Che ripercussioni poteva avere quell’incidente in raffineria due giorni prima della chiusura delle trattative? Non era niente di nuovo in fondo e dovevano chiudere, per forza. Se ne sarebbe andata da quel posto. Aveva già mandato la disdetta per l’affitto della casa, aveva tre mesi per lasciarla. Uscì per fare un giro in centro, quei sali e scendi di viuzze tra palazzi cinquecenteschi e scorci sulle macerie del terremoto del ’72. Quel posto non era mai diventato casa sua, lo abitava casualmente, come fosse una parentesi nella sua vita. Anche se dopo quella parentesi non aveva idea di cosa fare, tornare a Milano? Si sedette tra i due leoni veneziani che facevano da guardia all’ingresso di San Ciriaco. Era quello il punto più alto, il punto in cui la città piegava il gomito e si affacciava sull’altro lato del mare. C’era un grosso sbuffo di fumo a inquinare la vista all’orizzonte, oltre il porto. Un fumo denso, si allungava nel cielo spostato a destra dal vento. La bocca aveva sputato fuoco, tanto fuoco. L’odore delle esalazioni era arrivato anche lì, lo fiutava nell’aria. C’era pochissima gente in giro. Che desolazione. E va bene, sarebbe andata al Loop, ci stava bere, svagarsi. E poi chi era, questa Marina?

Rientrata a casa, sentì un fastidio, un pungolare acuto sulla tempia destra. Sfiorò la pelle con le dita, si avvicinò allo specchio. Una protuberanza, un ponfo rosso grande come l’unghia del mignolo premeva da sotto, lo sentiva pulsare.

Mise un gel astringente sulla tempia oltre alla crema, poi il primer, il fondotinta che a Michel piaceva leccare, l’eyeliner spesso, l’ombretto grigio (raffineria), il mascara lo passò tre volte. E poi si vestì, questa volta avrebbe indossato un pantalone in ecopelle nero lucido (fibre sintetiche, rivestimento poliuretano). Delle pumps con plateau, per camminare comunque con disinvoltura e ballare senza affaticare troppo i piedi. Un body in microfibra bordeaux aderente con uno scollo quadrato e maniche a tre quarti, non prima di aver indossato un push up e aver abbondantemente cosparso le ascelle di deodorante, il suo preferito, bianco latte (glicerina, alcool benzilico, benzoato benzilico, salicilato benzilico). Giacca di pelle, ecopelle (poliuretano). Prese la pochette e le chiavi della macchina. Si diede un ultimo sguardo allo specchio vicino all’ingresso, fissò attentamente la tempia destra, ormai il ponfo era seppellito e invisibile alla vista, ma se inclinava leggermente la testa poteva scorgere ancora l’orrendo rigonfiamento. Ci spostò sopra una ciocca di capelli, e uscì. Arrivò al parcheggio del Loop e restò in macchina finché non vide la vecchia Yaris di Michel entrare. Allora scese e gli andò incontro ondeggiando sui tacchi.

«Lei è Marina, ti ricordi?», Michel le schioccò due baci sulle guance.

«Veramente no, piacere Stefania» e le porse la mano, doveva essere cool

«Ma sì dai, l’abbiamo conosciuta all’altro concerto! Forse eri troppo ubriaca».

«Forse» e gli sorrise «Tu non eri da meno», un sorriso ammiccante. Spostò lo sguardo su Marina e sorrise anche a lei, muovendo con le dita la ciocca di capelli a coprire il ponfo.

Marina era magra, occhi chiari e lentiggini. Si sentì una pantera accanto a un coniglietto di peluche. Michel si mise nel mezzo e le prese sottobraccio, entrambe. Ordinarono al bar dei gin tonic, ma Marina no, non beveva alcolici. Provò a fare conversazione, era ancora all’università, studiava scienze della formazione, voleva diventare maestra. Provò a spiegarle il suo lavoro, mentre Michel si guardava intorno succhiando il gin tonic dalla cannuccia, era sicura che non avrebbe capito assolutamente niente, aveva degli occhi rotondi, enormi, smarriti. Michel si girò una sigaretta e offrì il tabacco anche a Stefania, che se ne girò una a sua volta. Marina non fumava. I suoi jeans a vita bassa e il toppino coi capezzoli in vista sotto al camicione scolorito sei taglie più grande cominciavano ad irritarla. Si avvicinò all’orecchio di Michel «Ma che l’hai portata a fare?».

 Si susseguivano band sul palco, quella noiosissima musica indie pop che le sembrava sempre uguale. Un altro gin tonic. Presero a ballare nella calca di gente sudata. Marina era timida, sembrava una bambina tra lei e Michel che faceva grossi sorrisi in giro, non specificatamente a lei, né a Marina. La palpebra calante, le pupille dilatate. Sigaretta, gin tonic, sigaretta e gin tonic insieme. E ondeggiare, come alghe sul fondo del mare. E Marina niente, solo gli occhi rotondi e annoiati, faceva movimenti piccolissimi col corpo, ma aveva visto come fissava Michel. Michel tirò fuori dal portafoglio la solita bustina di plastica. Gli occhi di Marina si accesero e Stefania capì. Michel mise davanti alla bocca di Marina una pillola azzurra, lei tirò fuori la lingua come dal dottore, quando controlla la gola. Deglutì. Michel guardò Stefania e Stefania fece sì con la testa. Avrebbe avuto tutta la domenica per riprendersi ed essere pronta per il lunedì. E se Marina, piccina, prendeva quella pasticca, che male avrebbe mai potuto fare a lei? Michel le mise in bocca una pillola bianca di forma allungata, quando Stefania chiuse le labbra gli leccò un po’ le dita. Lui le fece un sorriso di sbieco, e le carezzò una guancia. Poi ne ingerì una anche Michel, chissà di che colore. Stefania buttò giù mezzo bicchiere di gin tonic e cominciò a sentire le gambe sciogliersi, le braccia sciogliersi, era una sensazione piacevole di rilassamento estremo nella pancia, bagnato tra le gambe, la testa galleggiava. La musica indie arrivava attutita, non c’era niente che poteva disturbarla. Era in uno stato liquido, liquefatto, sensuale. Viscido. Aprì gli occhi. Michel stava baciando Marina, poi si staccò da Marina e andò a baciare lei. La lingua vorticava in quella bocca nota, e si staccò. Andò verso Marina, così piccola e innocente, la vedeva quasi squagliarsi in quei vestiti troppo grandi, le prese i capelli color del grano, setosi di bambina tra le mani, avvicinò la testa e la morse in un bacio. Sentì i piccoli seni innocui toccare i suoi, turgidi, le labbra sottili di lei quasi scomparire tra le sue, carnose e lisce. Marina aveva chiuso gli occhi, fluttuava come una piccola alga del mare. Le succhiava la lingua, le mordeva l’orecchio. La pressò contro la parete di quella casa vecchia adibita a locale alternativo, che schifo di posto. Le fece cadere il camicione dalle spalle. Si accertò che Michel la stesse guardando. Sì che la stava guardando, gli occhi come fessure, le pupille ormai nere, liquide e dense, il bicchiere in mano. Le slacciò il bottone dei jeans, tirò giù la zip. Fece aderire il corpo della bambina Marina al suo. E quei pantaloni a vita bassa troppo grossi per i suoi fianchi caddero a terra, si ingolfarono sopra le scarpe. Marina bambolina, si faceva fare tutto. Le tolse il toppino verde acido facendolo scorrere oltre le braccia alzate, e quel piccolo seno appuntito e bianco le si stagliò contro. Le morse il capezzolo e sentì Marina gemere, liquefarsi tra i suoi denti. Le zaffate dell’esplosione sembravano aver raggiunto anche il Loop. Sentiva quell’odore bruciare le narici, trasudare dalla pelle. Le veniva da vomitare. Una coltre di petrolio aveva coperto il mare e non era più alga fluttuante ma relitto, braccio estrattore incagliato al largo, non più buono a succhiare petrolio, inutile. Le alghe le si attorcigliavano addosso, marce. Si guardò intorno e la gente fissava lei e Marina. Si allontanò di scatto da quella ragazzina nuda quasi svenuta davanti a lei, Michel andò a sostenerla e le rimise addosso la camicia, le tirò su i pantaloni. Stefania corse fuori e vomitò qualche gin tonic, altri gliene rimanevano in corpo, come la pasticca. Continuava a sudare, il body in microfibra bordeaux segnava un grosso alone sotto le ascelle. Il cuore batteva fortissimo. Sentiva il trucco sciogliersi lungo la faccia, avrebbe voluto strapparselo via. Aveva ancora la pochette ancorata sulla spalla. Prese le chiavi della macchina. L’ultima cosa che sentì fu Michel urlarle con quel suo orrendo accento francese «Fermati!» mentre faceva manovra per uscire dal parcheggio. Aveva gli occhi appannati, il mascara colava assieme alle lacrime e al moccio dal naso. Spingeva l’acceleratore della sua Punto, andava a memoria lungo la provinciale. Jesi verso Falconara Marittima, poi un rettilineo, per Ancona. Vide un fuoco nella notte, quella fiamma blu e poi rosso arancio, blu e rosso arancio, sinuosa. Bruciava petrolio, da un bidone. Sentì un tonfo nel buio, in quella strada senza lampioni e poi urla, lontane. Adesso guidava di nuovo dritta sulla provinciale, tra poco avrebbe svoltato sulla Flaminia. Entrò a casa e si accasciò sul divano.

Si svegliò la mattina ancora vestita, la faccia appiccicata, la bocca impastata. Troppa sete. Andò a guardare se la macchina fosse parcheggiata sotto casa, non ricordava assolutamente niente di come fosse arrivata. C’era. Il paraurti davanti era un po’ ammaccato. Ci avrebbe pensato dopo. Adesso doveva struccarsi, farsi una doccia, mettere tutto in lavatrice e dimenticarsi della notte appena trascorsa, alcuni flash la tormentavano. Fece scorrere l’acqua dal rubinetto della cucina, bevve tre bicchieri di seguito. Il seno innocente di Marina tra i suoi denti, quella fiamma iridescente dal bidone lungo la provinciale. Dopo la doccia si avvolse nell’accappatoio in microfibra, quello economico del decathlon, certo avrebbe potuto permettersi qualcosa di più. E guardò le notifiche del cellulare. C’erano delle chiamate perse di Michel e alcuni messaggi tra cui “sei pazza” e “stai bene?”. Non aveva voglia di rispondere. Un altro uomo inutile della collezione. Sbucarono tra le notifiche dello schermo del cellulare le notizie, esplosione alla raffineria di Falconara, ma la situazione non sembrava peggiorata rispetto al giorno precedente. Lunedì doveva avviare soft le trattative, con tutto il putiferio che si era sollevato nel fine settimana. Prostituta nigeriana trovata morta sulla provinciale Falconara-Ancona all’altezza di Torrette. Il battito riprese ad accelerare, come la sera prima, l’acido che aveva ingoiato riprendeva il suo effetto, facendola vorticare. Un pirata della notte ha investito Ladi. Il nostro giornale ha intervistato alcune sue amiche, che sono volute rimanere anonime. Leggi l’intervista. Click.                

Sabato sera nero. Una macchina impazzita ha sbandato nella notte anconetana investendo la prostituta nigeriana. Riferiscono le sue amiche: “Abbiamo visto le luci di una macchina venire verso di noi a grande velocità e siamo scappate, urlando”. Poco dopo Ladi era a terra. Hanno subito chiamato la polizia.

Stefania non vuole guardare il bozzo sul paraurti della sua macchina, ma le sembra di ricordare del sangue incrostato sul nero della vernice.

Ladi era arrivata in Italia tre anni fa, come molte prostitute africane era scappata dal suo Paese in cerca di un futuro migliore. Era scappata dal suo villaggio dopo un’esplosione in cui aveva perso tutto.

Esplosione nel villaggio nigeriano, Stefania sa. Raffinerie clandestine. Il greggio non processato in Europa viene processato nelle economie emergenti, spesso sul mercato nero. Nella testa di Stefania si stagliano immagini di foreste, attrezzature rudimentali, gente scalza che lavora, mani sporche di pece, l’odore sensuale e vischioso a penetrare le narici, i pochi vestiti, la pelle, e poi il boato. E il fuoco. La foto del punto dell’incidente col telo bianco di plastica sopra, sotto il corpo di Ladi.

Ladi era completamente sola.

Stefania sciolse la cinta dell’accappatoio, cominciava a puzzare di sudore rancido (poliestere poliamide, microfibra). Si stese sul pavimento. Anche lei era completamente sola. Rimase incollata allo schermo del cellulare a sfogliare notizie, esplosioni a Falconara, esplosioni raffinerie clandestine, migranti, prostituzione, prostituta nigeriana morta. Quanto tempo ci avrebbero impiegato ad arrivare alla sua macchina? A lei? Quante telecamere sulla provinciale? Si alzò, i capelli ancora umidi appiccicati alla testa, il ponfo che pulsava da sotto la pelle, le tempie battevano, trascinava i piedi. Arrivò in cucina, prese un pezzo di carta assorbente e lo cosparse di detersivo per piatti (polimeri acrilici, ossidanti a base di cloro, parabeni, fosfati, sequestranti, enzimi, antidepositanti di origine petrolchimica, conservanti, coloranti, zeoliti e policarbossilati). Accese il fornello e avvicinò la carta. Era una fiamma fissa blu, fredda, non c’erano più il cangiante dell’arancio e del rosso. I fumi petrolchimici salivano, tossici, inspirava lenta dalle narici. Avvampava su per le membrane interne, gli occhi. La carta scottava, carbonizzava tra le dita. Gettò il pezzo di carta nel lavandino d’acciaio e lo guardò finire di carbonizzarsi. Anche la sua fiamma era ormai fredda, spenta, un grumo nero.

La domenica era passata tra le notizie in rete e i pezzi di carta che lasciava bruciare nel lavandino. Nessuno era venuto a prenderla, a metterle le manette. Quando arrivò in raffineria gli operai premevano i cancelli; giornalisti e cameramen appostati al varco. Alle nove le parti in causa erano tutte sedute intorno al tavolo. Quattrocento dipendenti, cento esuberi. L’ultima proposta sul tavolo era la cassa straordinaria di dodici mesi a patto che i sindacati avessero accettato la riduzione del personale. Condizioni di licenziamento: prima i più giovani perché avrebbero avuto più possibilità di ritrovare un lavoro. Se ci fossero stati dei volontari, ad esempio operai prossimi alla pensione, avrebbero potuto sostituire i giovani. I sindacati volevano un incentivo all’esodo. Ed eccoli lì anche il sindaco di Falconara, e il prefetto, e i politici locali che si vantavano di aver fatto opera di persuasione presso i ministeri.

«L’azienda propone un piano green di riqualificazione», Stefania è lì per enunciare il piano. Green. Stefania vede solo nero, nero pece, unto petrolio, denso, ne è spalmato il corpo di quella crema, di tutte quelle parole. Ottura i pori. Della sua esistenza, a perdere. Si scusa coi presenti, deve andare alla toilette. La toilette delle donne è sempre troppo distante, perduta nel fondo di un corridoio, magari un cesso in uno sgabuzzino, in quegli spazi pensati per soli uomini. Esce dall’edificio, si incammina verso le fornaci, le torri, le torce. La violenza di quell’odore diventa spessore, narici otturate, soffocamento. Stefania è coperta di una coltre spessa e nera, bituminosa, come uccello, pesce, donna nigeriana, non riesce a liberarsi. Il liquido della terra non è fatto per stare in superficie, alla terra vuole ritornare. Sale la scaletta di ferro di una delle torri distanti dall’ingresso, dai cancelli, dagli sguardi. Sale con le sue scarpe col tacco a stiletto. Continua a salire. La gonna le stringe le gambe. Arriva in cima alla torre, si volta, tenendosi bene aggrappata alla scaletta. Guarda quella bocca mostruosa d’acciaio stendersi sotto di lei fino al mare e ride con le lacrime agli occhi, la nausea che pervade lo stomaco. Può lasciarsi solo andare, tornare alla terra con un salto, uno sprofondo. Tornare alla terra che inghiotte. Stratifica. Seppellisce. Diventare petrolio.

«Fermati!».


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