menu Menu
La fabbricante di angeli
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 04/04/2023 0 Comments 19 min read
Pdfb #11, anno IV Previous Darryl Next

di Nicole Trevisan
Copertina di Beatrice Nicolini

Jùlia era innamorata di sua madre. Senza un padre a cui tributare l’adorazione che gli sarebbe spettata e ricordando la sua voce carnosa e gonfia di vino, il cuore aveva scelto lei. La pettinava prima di dormire: una bambola grande, pensava tastando i nodi tra le dita. Teneva un fazzoletto sulle ginocchia, per le forcine che durante il giorno le raccoglievano i lunghi capelli color cenere, da fata. Quando aveva finito, lo piegava e glielo restituiva. Al mattino faceva da sola. Era un rituale delle loro notti: nel mondo succedevano cose brutte. Le allontanava raggomitolandosi sul suo ventre. Lei la respingeva solo quando tentava spingerle un ginocchio tra le cosce per scardinare lo spazio che teneva per sé. Era calda, morbida e rotonda, bellissima. La osservava quando facevano visita alle zie o alle vicine, donne flosce o scannate dalle rughe che portavano fogli malmessi, macchiati d’acqua e caffè, perché zia Sofia li leggesse. Parlavano piano, piangevano e si tenevano strette. Soffrivano. Lei non piangeva solo perché non capiva – dicevano, avrai tutto il tempo quando sarai grande. Esci a giocare. Lei rimaneva, mamma poteva diventare triste. Per strada, la prendeva per mano e tornava il suo sorriso, sottile e beato; le ricordava una biscia, di quelle che catturava lungo il fiume: la nudità dei tratti del suo viso esponeva un candore che richiamava la metodica purezza del rettile.


Capitava dovesse mettere le scarpe blu. Di solito, moriva qualcuno: matrimoni non ce n’erano da quando suo padre era partito e con lui quasi tutti i maschi. Erano rimasti quelli rattrappiti e bianchi, troppo consunti per arrivare alla frontiera. Il nonno era uno di loro, fumava, pensava alla terra e al figlio che si era perduto. La veniva a trovare, portava le uova e Jùlia, con le scarpe blu che le aveva regalato e che le stavano piccole, andava barcollando al suo funerale. Morire di vecchiaia era considerato un lusso che meritava appena le lacrime delle vedove. Infatti, sua madre non pianse.

«Sei triste?»

«Moltissimo, piccola mia».
Il suo bel viso rimaneva asciutto. Consolava la nonna accartocciata al primo banco; dietro, uno stormo scuro di donne soffocava nell’incenso. Jùlia vide ritratto il dolore nell’onda delle gonne che strusciavano dall’inginocchiatoio ai passi che accompagnavano il feretro, un pio silenzio di bisbigli e raccomandazioni al Dio che si era ripreso l’anima e lasciava una carcassa. Le parve egoista: aveva voluto i giovani per un destino incerto e non risparmiava i vecchi. Lo confessò alla mamma.

«Fa parte di noi avere una fine. Dio ha tempo e non conosce vie a metà tra la vita e la morte. Non fa prigionieri. Quello lo fanno gli uomini».

«Oppure sparano».

«Anche, sì».

«E non fa male?»

«No, non sentono niente. Come se si addormentassero. È una buona morte».


Guardò attraverso la finestra, accucciata contro il corpo di sua madre. Pensava alla morte che somigliava al sonno e si domandava se potesse non esserci un risveglio, al mattino. Senza un colpo di fucile, Dio poteva portargliela via. Era un uomo, lui. Si insidiava con ipotesi che le mettevano nel petto i battiti di un cardellino. Jùlia chiuse gli occhi, a fatica lo mise a dormire.
Li aprì che l’aria era grigia. Il posto accanto a sé era vuoto e freddo, il fazzoletto con le forcine sul tavolo. Ogni cosa nella loro casa chiamava l’assenza di lei, che l’abitava addormentata, affaccendata tra stoviglie, il poco cibo, gli animali. I contorni degli oggetti le parvero intatti, estranei come se non fossero mai stati suoi, solo di sua madre. Viveva nell’alone della sua impronta, al riparo nel fitto della sua ombra.  Non tornava. Attese contando dieci volte fino a dieci, imponendosi la pazienza dei grandi; quando sentì di aver fatto il suo dovere, andò a cercarla.

La capra era legata fuori dal riparo, non aveva mangiato e vedendo Jùlia levò un belato, fissandola con le sue pupille squadrate da demonio. Proseguì sull’erba scura. Puzzava, sotto ci cresceva il muschio. Si immergeva sotto le fronde, avanzando verso qualunque cosa brutta fosse arrivata, prendendosi sua madre. Si preparava al suo cadavere e, oltre la linea degli arbusti, vide il tappeto di cenere dei suoi capelli sciolto a terra.

La sua testa piccola e chiara era sommersa da quella di un uomo. Era vestito di stracci e respirava forte. Lei era nuda, lui le teneva un fianco e dava dei colpi col bacino, affossandola, scavando e spingendo in basso, giù, sotto l’orizzonte tremulo del campo; lei non scalciava, non tentava di fuggire. Pensò fosse ferita. Cominciò a piangere, i due si fermarono. L’uomo si sollevò. Un ciuffo gli attraversava una vasta cicatrice rosa. Non seppe mai il suo nome, ma ricordò la tristezza del suo volto assemblato male, la carezza al fianco prima di staccarsi. Capì di essere diventata abbastanza grande per piangere, non per fame né per capriccio, ma del dolore che animava le donne. L’avevano avvertita: il male sarebbe nato con gli uomini, perché da loro cominciava la guerra e ogni dispiacere. Lo guardò con odio, infantile e sconfinato, richiamando ogni orrore su quell’estraneo che non diceva una parola. Sua madre gli scivolò via senza coprirsi.  Non era ferita. Le sue labbra erano umide, la sua pelle era rugiada e sudore, arrossata in chiazze che si allargavano sul viso, sul petto e le gambe. Si alzò in piedi e raccolse la sua bambina per mano.

«Non dovrai dirlo a nessuno».

La presa delle sue dita si inasprì sotto le unghie che premevano sul palmo. Singhiozzò più forte.

«Hai capito? Nessuno».

«Papà ti ammazza».

Si inginocchiò davanti a lei, il suo corpo era tornato bianco, velato dai capelli fino alle ultime vertebre. Usò entrambe le mani per avvolgere la sua, tenera carne della sua carne. La carezzava, consolandola per la sua devozione. Sorrise.

«E ti piacerebbe?»

La capra belava alle loro spalle, Jùlia taceva.

«Vorresti che io morissi?»

Glielo chiese piegando la testa su una spalla, esponendo il collo dove un livido c’era, inciso da una dentatura malferma e affamata.
Deglutì altro odio, tornò sulla lingua il gusto della distruzione e si scoprì a desiderare che sì, morisse. Adesso, davanti a lei: fucilata, impiccata, dilaniata dai cani, mutilata e sgozzata. Ma disse di no; disse che l’amava.

Perché aveva bisogno di lei. Perché poteva finire, la storia con l’uomo. Sarebbero state ancora loro due, sole. Per sempre, perché papà non tornava.

La abbracciò, cullandola nel suo nuovo odore, selvatico e gelido.

«Anche io, piccola mia. Ti amo anch’io».


La conferma di essere diventata grande passò dalla sua passione, avida e assoluta: lottava manovrando in silenzio i margini dell’attenzione materna. Si insinuava negli interstizi del suo tempo, la aiutava con i piatti e i panni da rammendare; la ascoltava parlare della gente, della guerra. Voleva esserle necessaria quanto lo era l’uomo per cui fuggiva tra gli alberi che sorvegliavano il fiume. Falliva. Era altro rispetto al desiderio che la muoveva, il suo amore per lei si era distratto e la sua presenza era conciliante da quando aveva giurato silenzio, ma contaminata dal tradimento. Essere complici non le avvicinava. Era sporca, il segreto le prudeva nella testa, sulla pelle. Si formarono delle bolle, pensarono al Fuoco di Sant’Antonio; sopravvisse alla superstizione e alla paura infondata. Sua madre non aveva creduto alla malattia, sapeva che a vivere nella menzogna, il corpo impara a ingannare. 
Era il 1917, Dio non faceva prigionieri e Nagyrév ne era piena. Stranieri, nemici: erano una questione in sospeso e nell’attesa venivano accatastati nella campagna, distante e indifferente. La situazione bellica era difficile, di tanti mariti e fratelli non si aveva notizia, ma il destino aveva voluto che nel paese tornassero gli uomini.

Le donne avevano sollevato il mento, staccato lo sguardo dalle crepe della terra che non le voleva ascoltare, dal cielo sordo da sempre. Finirono le preghiere. Uscirono nelle strade, indossarono i vestiti migliori e le loro facce adunche si distesero all’autunno. Non importava che lingua parlassero i prigionieri o chi fossero prima di finire tra le anse del Tibisco: tra le loro braccia accoglievano, stringevano, nutrivano morti di fame, straccioni senza patria né futuro. Jùlia non assisteva più alla desolata cerimonia di zia Sofia che teneva segno col dito tra le righe e restituiva le voci dei soldati. Ora bisbigliavano di incontri, favori, promesse. Ridevano, illanguidite dal coronamento di certe smanie da additare come peccati, se fosse rimasto qualcuno a giudicarle. Il prete era uno, le bigotte cedevano come le vergini e la fame – era fame – non escludeva nessuno. Le bocche mordevano finché la carne era viva, che di cadaveri sprofondava il mondo e Nagyrév era nauseata dal marcio della morte. Si sfamavano prima che ogni cosa si piegasse al suo inverno, lasciandole aride a bramare i giorni in cui smettevano le vesti da corvo e cantavano a orecchie straniere i segreti sacrificati al letto nuziale. Jùlia tappava le orecchie ai respiri affannati, alle urla gracchianti e umide che sentiva tra i muri delle case, nei campi, riflesse nell’acqua. Ovunque la inseguivano e chiamò nemico anche il proprio desiderio, ospite inatteso nei suoi pensieri, nel corpo acerbo che si assottigliava sotto le sue mani.


«Contro cosa stai lottando?»

La capra spiava dalla soglia, aveva occhi d’ambra. Sua madre era a letto da giorni e non c’era nulla da mangiare neanche per lei. Alla bambina aveva allungato qualcosa zia Sofia, che aveva accompagnato Zsuzsanna. La chiamavano Baba.

«Contro cosa stai lottando, Maria?»

Lei strepitò, nascosta dietro le braccia rinsecchite. Non correva nemmeno più al fiume, dallo straniero. Forse era finita tra loro, potevano tornare a essere loro due, senza che l’odore dell’uomo la rovinasse. La sua malattia poteva essere salvezza.

«Portate fuori la bambina! Per favore».

Baba la cercò in fondo alla stanza e le fece cenno di restare. Lei si appiattì contro una parete: mimesi, compromesso tra l’esserci e non esserci.

«L’ho fatta nascere io e presto farò nascere i suoi figli. Non è più una bambina».

«No, no».

«Combatti qualcosa che hai già vinto, Maria. Te l’ho spiegato anni fa, non è oggi che dirò di essermi sbagliata. Alzati, pensa a tua figlia. Non ne verrà nulla».

«E se…»

«C’è sempre un modo».

Era arrivata con una borsa, avvolta nella mantella, a capo coperto. La scriminatura rivelava radici grigie; aveva ciglia lunghe e fitte, da signora. Era molto alta e non aveva voluto sedersi. Aveva sfiorato la spalla della malata, rivelando una mano senza calli, chiara come le cose maturate troppo a lungo sott’acqua. Pulita, gonfia. La mano che l’aveva estratta dal buio, mettendola al mondo, cavandola dal ventre materno. Per ora, abitato da qualcun altro.

Jùlia sentì lo stomaco torcersi. Vomitò sul prato soffocato dalla prima neve, sopra i singhiozzi di sua madre. Fissava la pozzanghera dei suoi succhi gastrici, un ultimo rigurgito appeso a un filo di bava colava ai suoi piedi. Quando rientrò, il sole era calato.


Tornò novembre e caddero le armi, ma a Nagyrév sentirono l’eco con mesi di ritardo. Che avessero perso, l’avevano annusato da tempo. Che avrebbero ridotto il regno a brandelli, una teoria in bocca ai pessimisti, biasimati in coro da chi si aggrappava alla speranza di una pietà inspiegabile. Le donne si fecero guardinghe, tornarono a piegare la testa. Era novembre e Jùlia divenne una donna. Baba le sorrise nel viso spelacchiato della capra.


Disse che era stato un italiano. Che il bastardo era uno smilzo, un ragazzino barbuto con elmetto e fucile che aveva avuto la fortuna di sparare un attimo prima che fosse lui a farlo. L’avrebbe ammazzato, continuava a ripetere. Se non è morto a quest’ora, prima o poi me lo vado a riprendere e lo restituisco all’inferno.

Aveva una sua idea dell’inferno e non la taceva né alla moglie nè alla figlia. Se cinque anni prima aveva stabilito di escluderlo dalle proprie passioni, ora la ritrosia – ai tempi confusa per un’auspicabile forma di rispetto – era diventata astio. Suo padre era nemico non meno dello straniero.

Trascinava la gamba sinistra dal letto alla sedia e si bilanciava con bottiglie di palinka. Non era più sceso nei campi. Vagava: il suo corpo imponente e soffice si era asciugato in una muscolatura derelitta e furiosa, incapace alla quiete. Aveva piegato quel che restava della divisa in un baule, ma il colletto della camicia verde continuava a stringerlo al collo, a tenerlo sull’attenti. Era uno zoppo che camminava ritto, non rassegnato alla miseria. Senza guerre da combattere, ne aveva create altre e si indignava con altri reduci in congetture di rivalsa: odiava i francesi, gli italiani, i rumeni, gli ungheresi che non potevano più dirsi ungheresi; odiava la resa, l’arretratezza. Uno sconfitto determinato a non farsi sconfiggere in casa propria. Aveva appreso rudimenti di strategia, ma non erano necessari: era un uomo. Gli dovevano obbedienza e rigore.

Jùlia aspettava che uscisse, per chiudere gli occhi. Sua madre la sorvegliava. Avevano dovuto chiamare Baba, per certi gonfiori, per la carne che bruciava e non guariva. Era venuta un pomeriggio che il padre era alla kocsma e aveva visto tra le sue trecce i vuoti di ciocche strappate.

«Mandala da una tua sorella».

«Andrebbe a riprenderla».

«E tu?»

«Me lo sono meritato».

«Sbagli. Non vuoi salvarti».

«Non sono una buona moglie».

«Lui non è un buon marito né un buon padre. È una tua scelta».

Si trattenne sulla porta. Era in controluce, nera come il nero che si portava addosso – giovane vedova invecchiata vedova. Le compativa in silenzio. La bellezza di sua madre si era ricoperta di polvere, aveva smesso di sorridere, di farsi pettinare. Era lei il nodo: di nervi, di lividi.

«Questa guerra ne ha fatto dei mostri, Baba».

Scosse la testa.

«L’hai detto tu, Maria».


Dovette andare ai funerali con le vecchie scarpe di sua madre, quelle del nonno non le entravano più. Cinque reduci, tra febbraio e aprile. In guerra avevano contratto un brutto male, di quelli che prosperano nel fango e nel putridume: li aveva consumati, operando muto per mesi per poi ucciderli in pochi giorni. Avevano sofferto: non era stato un proiettile, non un sequestro nel sonno. Le bare erano fatte di pezzi di mobilia, di assi inchiodate alla meglio. Jùlia sentiva l’odore uscire dalle fessure, indovinava i loro corpi custoditi nel bozzo di lenzuola e tovaglie. Nonostante il combattere, il bere, l’affannarsi per la gloria, erano fantocci e li avrebbero dimenticati prima che cominciassero a sbocciare fiori sui loro volti corrosi dai vermi. Quel pensiero la raggiunse inatteso come il primo sangue, ma senza calore. Ogni cosa era destinata a cadere e a farsi dimenticare; era l’ennesima piccola morte.

Al cimitero, Baba la avvicinò per regalarle un fazzoletto. Le ricordava di piangere, che le lacrime quietano i morti.

Ce ne furono altri. Tre, fino a ottobre. Il morbo non lasciava la presa su Nagyrév. Suo padre era nervoso, pretendeva ogni giorno che gli controllassero schiena e gambe alla ricerca di piaghe; volle mangiare di più, riposare di più – convinto di essere infetto quanto di poter trionfare sull’invisibile malattia ereditata dalla guerra. Dava la colpa agli eccessi della febbre quando tornava ubriaco, svegliava la moglie e la batteva. Una volta, un colpo alla testa. Uscì del sangue, uscì lui. Rimase ad attendere che il suo respiro svanisse, ma si svegliò, le rivolse il sorriso piatto e lungo da biscia che non la illuminava da mesi e le premette sulla fronte un bacio ruvido, ansimante, distrutto.

«Ci sono io, mamma. Sono qui. Io ti amo».

Le sussurrò, ma non sembrava sentirla. La mandò a chiamare le donne, che le dissero di badare ai bambini, cugini di gradi incalcolabili che le si appesero addosso, costringendola a giochi che non erano più della sua taglia e non la facevano ridere: si divertivano in un eccesso stonato, svogliato, fuori tempo. Più tardi, zia Sofia le chiese di andare con lei. Maria doveva riposare. Non sembrava ci fosse una decisione da prendere: quando cercò di rientrare in casa, la zia la fermò: starà bene, è solo una notte.

Sei grande, ormai.

Nel cortile, la capra era libera. Passandole il cappio attorno al collo, si irrigidì e scoprì i denti, gialli e umani.

Al mattino, suo padre era morto.

Sentì qualcuno consolarla: era una fortuna morire nella terra d’Ungheria. Erano gli uomini, venuti a salutare il loro compagno, il soldato che era stato – avevano trovato una cassa, l’avevano portato in spalla e lo seppellivano come ne avevano sepolti a decine. Erano fratelli, la sua famiglia; i soli a dispiacersi nel vederlo sprofondare sottoterra. Provò pena, non abbastanza da diventare dolore. Il dolore nasce dagli uomini e con loro si spegne.

Non avrebbe saputo dire se sua madre lo fingesse, si tenne a distanza. Non cercò il suo fianco nella pena, non la stretta delle sue braccia che l’avrebbero dovuta proteggere dal male. Lei, che lo aveva voluto e compiuto, galleggiava nel tremore, gracidava in un nugolo di donne. Le tendeva la mano e il fazzoletto appesantito dalle lacrime.

«Torniamo a casa, piccola mia?»

La voleva e ancora una volta Jùlia le disse sì, torniamo a casa – perché l’amava.

Crollò, immersa in odori femminili, nelle trame luride dei loro abbracci; le labbra indurite le biascicavano miseria. Avevano scelto la dannazione per la pace, un’altra guerra che non sarebbe mai finita. Si sentì annegare, scendere nel nero degli abiti, nel fango. Un buio che era famiglia: erano zie, cugine, nipoti legate da eredità che non potevano rintracciare, da fili di sangue decisi per matrimonio, conservati per sopravvivere. Suo padre non c’era più, il mostro era morto. Era salva e le mancava l’aria. Era complice di tutte loro e avrebbe tramandato ai figli la menzogna, nata col suo essere donna. Aprì gli occhi. Baba stava declamando che Dio chiama a sé i migliori, facendosi il segno della croce. Dietro alle sue labbra viola era rimasto incastrato un sorriso che l’acqua santa non aveva potuto sciogliere, maligno, materno.

Jùlia cominciò a ridere, il suo corpo era disabituato ai sobbalzi del petto, le fece male. Rideva a bocca aperta, rideva con due denti in meno che non sarebbero ricresciuti e attorno a lei si allargò il vuoto. Il cerchio nero che l’aveva accolta si dissolse, lasciandola a vegliare sulle tombe.


Venne al mattino, tenendosi basso sulle ginocchia, appostato tra i rovi.

«Lei dov’è?»

Aveva addomesticato la loro lingua in sillabe morbide e stentate, ma sulla faccia la cicatrice era rimasta liquida e arrossata come tre anni prima.

«Non c’è».

Confusione, tristezza. Portava i pantaloni di suo padre, rattoppati da lei, ricordava lo strappo, l’ago arrugginito e il filo spesso. Scalzo – randagio, conciato appena meglio di un cane. Accorreva alla padrona cercandone l’odore.

«Ha detto quando torna?»

Gli costò un certo sforzo mettere insieme quella frase, Jùlia lo riconobbe e lo riascoltò a mente. Calma, si girò verso di lui. I capelli le erano ricresciuti, erano spenti e sbiaditi. Un viso ovale dalla punta affilata, zigomi piatti, alti, e il naso storto non lo rovinava, la faceva sdegnosa e acerba.

«Non hai sentito le campane?»

«Suonano. Ogni giorno».

«Allora lo sai. Adesso lo sai, dov’è».

Indicò il campanile, oltre le case. Lo spiazzo del camposanto gli si dilatava intorno, invisibile dall’argine. La punta del dito si affilava in quella direzione, impeccabile nel rivelare senza confessare. Sorrise: la capra attraverso la bambina, la madre attraverso la figlia e Baba, madre di vedove che l’aveva resa madre di sé stessa.

Lo straniero non capiva, era agitato. Ma più la guardava più lo stupore divenne orrore, il raccapriccio rifiuto e, infine, sorse il lutto.

Lo vide formarsi, solidificarsi. Mutarsi in grido, scagliandosi contro di lei.

Avrebbe potuto fuggire, forse alzarsi. Non si mosse.

Portò le mani agli occhi. Non volle vedere, solo sentire – il dolore.

Il dolore, lo portano gli uomini.


Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?

angeli Autrici istria letteratura Nicole Trevisan Racconti


Previous Next

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Cancel Invia commento

keyboard_arrow_up