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La trama alternativa - Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere
By Malgrado le Mosche Posted in Cacao Meravigliao, Miscellanea on 30/12/2023 0 Comments 90 min read
Pdfb #4, anno V Previous Io sono Babbo Natale Next

di Elena Garbarino, Carlo Martello, Mara Surace
Copertina di Minimum fax

La lettura de La trama alternativa, di Giusi Palomba, è stata dirompente e feconda, faticosa e illuminante. Ne è nato il desiderio di fare qualcosa che andasse oltre la recensione, di provare a trasmettere non solo le qualità del testo ma anche la potenza del metodo. Si è cercato di essere creativ* e attent*. Il risultato è questo lungo scambio di mail, susseguente a un incontro dal vivo, tra Elena Garbarino, Carlo Martello e Mara Surace.

Pubblicheremo lo scambio diviso in parti, una a settimana. In ogni ideale capitolo ci saranno tre mail, una per ogni persona partecipante allo scambio.

Di seguito, invece, la scheda di presentazione del libro, edito da Minimum fax.

La trama alternativa
Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere

Cosa succede quando a essere accusato di stupro è un attivista, agitatore culturale, alleato femminista, ed è il tuo migliore amico? E cosa succede se la sua comunità decide di rifiutare l’intervento della polizia e del sistema di giustizia dello stato, e inizia invece un percorso di riparazione del danno e di trasformazione?
Giusi è appena arrivata a Barcellona quando incontra Bernat: è lui che la accompagna a conoscere l’anima più profonda della città, che la aiuta a decifrarne il fermento culturale e politico, incoraggiandola a farne parte. In poco tempo diventa per lei un confidente, un mediatore prezioso, un amico. Fino al giorno in cui viene accusato di violenza sessuale, e tutte le certezze vacillano. In uno scenario più probabile, l’uomo verrebbe denunciato alle autorità, ci sarebbero delle indagini, un processo, forse una pena da scontare. In questa storia, invece, la donna che ha subito la violenza sceglie una via alternativa, in linea con la convinzione che ognuno possegga la capacità di riparare i danni inferti, di trasformarsi: è l’inizio di un percorso collettivo, che coinvolgerà non solo lei e Bernat ma l’intera comunità di cui fanno parte, proiettandoli in uno spazio privo di certezze, dal quale contemplare possibilità impreviste. Da quello stesso spazio – più familiare dopo anni di studio e di attivismo – Giusi Palomba ci offre un’analisi partecipata e rigorosa della nostra cultura e delle sue narrazioni, e ci dimostra che la violenza non è mai solo una questione privata tra chi la compie e chi la subisceLa trama alternativa è un punto di vista inedito sulla violenza di genere, e un invito a guardare oltre i nostri orizzonti, verso un’idea di giustizia che somiglia a un processo di guarigione collettiva.


Parte prima

Carlo Martello, 31/08/2023

Buongiorno Elena, buongiorno Mara, 
per prima cosa mi scuso con voi per avervi coinvolte e poi essermi dedicato sostanzialmente ad altro. Tuttavia, il pensiero riguardo a questo lavoro è rimasto presente nelle mie giornate.
Per provare ad accelerare un po’ i tempi, cercando però di mantenere una profondità di sguardi adeguata, vi proporrei, se siete d’accordo evidentemente, di trascrivere pari pari le nostre mail, così da riportare il dialogo che avviene tra di noi a partire dall’analisi del libro di Palomba.
Eventuali autocensure le possiamo segnalare in giallo. Credete possa funzionare?
Già questa mail, per parte mia, è interamente pubblicabile. Inserisco la data di oggi e vi scrivo alcune domande o osservazioni, chiedendovi, se volete, di continuare. Se invece il metodo non vi piace o per qualsiasi altra ragione non intendete procedere così, questa mail “muore” e iniziamo da capo con una vostra proposta o parlandone nuovamente, vediamo, come preferite. Questo approccio è solo per iniziare e provare a rompere il ghiaccio, oltre che, a dire il vero, perché leggere questa strana corrispondenza credo possa essere interessante, ma su questo vorrei confrontarmi con voi.
Ultimissima premessa. Qualche riga che aiuti le lettrici e i lettori a capire di quale libro parliamo forse vale la pena scriverle. Avreste voglia di farlo? Preferite che ci limitiamo a copiare le informazioni che dà la casa editrice, che sono sintetiche e corrette?
Vi ringrazio moltissimo per la pazienza, la comprensione e la disponibilità. 

Carlo Martello, 31/08/2023

Inizio col dire che la lettura de La trama alternativa è stata molto impegnativa, nonostante lo stile di Giusi Palomba sia improntato alla massima chiarezza. Mi sarebbe piaciuto essere più veloce (parlare di un libro, anche di un volume come questo che avrà vita molto lunga, serve anche a farlo restare nelle librerie. Più tempo passa e meno il servizio è utile), ma se devo cercare il lato positivo della cosa, almeno c’è stato modo, per me, di lasciar sedimentare alcune riflessioni non semplicissime. 
Uno dei punti fondamentali, per quanto mi riguarda, è che il libro parte da uno stupro, ovvero da una violenza terribile, atroce, e di un tipo specifico, operata esclusivamente da uomini ai danni di donne.
Non si tratta di dire “io no”, ma piuttosto di riconoscere che a determinate condizioni la violenza è possibile per qualsiasi uomo, perché il sistema sostanzialmente la veicola e se talvolta la punisce, la punisce in modo circoscritto. Allargando un minimo il pensiero, riflettendo con me stesso, in queste settimane in cui mi avete pazientemente aspettato, ho ricordato una discreta quantità di episodi di violenza che mi hanno visto spettatore o che ho agito io stesso, senza arrivare allo stupro ma inequivocabili, atti di violenza chiarissimi, più o meno gravi. 
Il sentimento prevalente in quella fase della lettura e della riflessione è stato la paura, anzi, più paure: paura di me stesso, paura del potere che mi giustifica e mi copre, paura di non riuscire a gestire il seppur minimo potere di cui dispongo, di non accorgermi, paura di essere scoperto. 
Il punto non è parlare di me, che non serve a niente in questo caso, ma provare a dire che forse questa paura è un passo necessario per provare il desiderio di non esserne più afflitti (parlo al maschile in questo caso, perché è, detta proprio brutalmente, la paura di essere eterodiretti dal patriarcato, magari non sempre consapevolmente), per provare il desiderio di tirarsene fuori.
In questa prima parte del discorso mi sto riferendo alla prima metà del libro di Palomba, in cui si racconta della gestione dello stupro e dei conflitti che ne seguono esaminando il caso specifico di Mar e Bernat. Tuttavia, nella seconda parte, in uno degli ultimissimi capitoli, c’è un riferimento al “femminismo” degli uomini che mi sembra possa essere utile: Andrés Montero dice, provo a riassumere, che un uomo può “stare nel femminismo” ma non dirsi “femminista”. Sono d’accordo e non mi sembra solo una questione di spazi e identità non maschili, ma anche di identità, in questo caso anche maschili. Non posso e forse neppure voglio dirmi femminista, piuttosto voglio partecipare con altre caratteristiche, “stare nel femminismo”, che oltretutto è già abbastanza complicato. Dico questo (e di nuovo, non parlo di me, ma cerco di categorizzare) perché mi sento sollevato a pensare di poter essere altro, sollevato a fare ben più di un passo indietro rispetto al potere che il patriarcato vuol darmi a tutti i costi, sollevato a poter essere né macho né femminista, ma stare nello stesso spazio del femminismo come progetto di costruzione. Spero di essere riuscito a essere chiaro. 
Allora la paura, la sensazione di claustrofobia, in parte passano.
Detto questo, che non vuole essere una terapia psicanalitica estorta a voi due, per di più gratuitamente, la domanda è: la prima parte del libro che sentimenti vi ha generato? E sono sentimenti, sensazioni, pensieri, riflessioni che possono stare in relazione, secondo voi, con quanto ho provato a dire o c’è invece una distanza da colmare?
Prima di chiudere, vorrei proporvi anche un brevissimo elenco di temi che mi piacerebbe approfondire con voi nelle prossime mail (sempre che accettiate il metodo, come si diceva all’inizio, altrimenti ne troveremo un altro):
– nessuno spazio è sacro. Questa consapevolezza, di nuovo, genera molta paura, rabbia, sconforto.
– la giustizia trasformativa non è gratis. Non c’è la galera, non c’è l’intervento diretto dello Stato, ma il prezzo, per Mar e poi per tuttə le persone coinvolte, è altissimo. Insomma, il processo è faticoso, è lento, prevede conseguenze più o meno importanti. 
– i contenuti culturali hanno un ruolo? Io credo di sì, ma vorrei approfondire la cosa insieme a voi. 
– ha senso pensare a pratiche di giustizia trasformativa anche per questioni più comuni, per le relazioni con lə partner, con lə figliə, con padri, madri, colleghə, eccetera? E questo potrebbe aiutare a prendere confidenza con alcuni concetti e alcune pratiche?
Ne avrei altri, ma mi fermo, così abbiamo spazio per immaginare degli spunti diversi. 
Vi ringrazio ancora. 
Buona serata. 

Sogni e pratiche di giustizia trasformativa: intervista a Giusi Palomba – DINAMOpress

La trama alternativa. Intervista a Giusi Palomba – Altri Animali

La trama alternativa – Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere (infoaut.org)

Elena Garbarino, 01/09/2023

Vado subito al dunque: penso che “lasciar sedimentare alcune riflessioni non semplicissime”, come hai scritto tu, Carlo, non sia solamente un lato positivo rispetto alla lettura e alla critica di un libro, ma piuttosto l’obiettivo finale e più alto a cui chi scrive aspira, aldilà di quanto un titolo possa rimanere o meno nelle librerie, fatto legato anche a contingenze che poco hanno a che vedere con la qualità dello stesso.
La sedimentazione e il percorso archeologico all’interno dei miei pensieri sono ciò che ha guidato anche le mie riflessioni rispetto a “La trama alternativa” di Giusi Palomba durante questa pausa estiva, testo che ha avuto vita lunga nella mia testa.

Non risponderò punto per punto alla tua riflessione, però, vorrei condividere i pensieri provocati dal tuo primo messaggio in bottiglia lanciato nel mare della nostra conversazione: il sentimento di paura su vari livelli che hai provato leggendo la prima parte del libro da me non è condivisa. Molto banalmente, credo che il tuo essere socializzato come uomo e il mio essere socializzata come donna sia la causa di questa discrepanza emotiva. Infatti, di tutti i privilegi dei quali sicuramente godo, non c’è la mano protettiva del patriarcato. La mia è un’ipotesi del tutto personale e perciò sono curiosa di sapere cosa ne pensa Mara rispetto a questo argomento.

Invece, la prime sensazioni che ho provato approcciando il libro e affrontando la prima parte di lettura sono state la sorpresa e la curiosità: la sorpresa di trovare un racconto personale come punto di partenza e la curiosità di immergermi in un punto di vista inedito per me, quello della giustizia trasformativa applicata a una violenza di genere, rispetto al dipanarsi delle conseguenze che tale azione comporta all’interno di una comunità; e anche un po’ l’ammirazione nei confronti dell’autrice per aver riposto così tanta fiducia nelle pagine, nelle parole e ne* lettor* tanto da affidare loro fatti e pensieri estremamente personali.

Da questo libro ho rafforzato la convinzione che i percorsi sono più importanti delle conclusioni, che le domande sono più importanti delle risposte, che i dubbi e gli interrogativi sono preziosi, non un inciampo della conoscenza. Proprio per questi motivi vorrei condividere le pagine del mio quaderno, sul quale mi appunto tutto quello che ritengo rilevante e non che mi passa per la testa. Sono le mie sedimentazioni rispetto al libro, frammenti di riflessioni che ho intrappolato tra le righe, impressioni, ricordi, citazioni ed errori. Non si tratta di pensieri elaborati, anzi. È materiale grezzo, che vuole essere elaborato con l’aiuto di tutt*.

Venerdì 12 maggio, Libera Collina di Castello, presentazione del libro “La trama alternativa”
“Io però vorrei fare un passo indietro e partire da prima: nel libro parli di un’esperienza personale, di un avvenimento che è accaduto e le cui cause, conseguenze e strascichi sono stati presi in carico dalla comunità, ma come si costruisce una comunità che abbia le conoscenze, le capacità, la volontà di mettere in moto queste pratiche?”

Sabato 8 luglio, quaderno
Ripensandoci, da antropologa, chiedere come si costruisce una comunità potrebbe causare il ritiro della laurea, o almeno la sospensione. O forse no. O forse per l’ennesima volta il mio bagaglio accademico, la memoria muscolare che mi guida sui medesimi percorsi nel mio cervello, mi portano ad avere una postura che comporta la presenza di diversi punti ciechi.
La mia idea di comunità proviene da un luogo sbagliato, che non è stato scardinato: non è ai margini.

Tra il 13 e il 17 aprile, appunti su pagine bianche tra la fine della prima parte e l’inizio della seconda parte di “La trama alternativa”
La problematizzazione di un’esperienza personale e la messa in prova dei propri sentimenti non è un modello di comportamento da replicare in maniera pedissequa, bensì è [un germoglio della] genealogia della responsabilità e della consapevolezza del proprio ruolo all’interno della società in generale.

La trama alternativa”, G. Palomba
«In sostanza abbiamo relegato ai margini il compito di pensare ad alternative, abbiamo affidato questo lavoro alle persone che in qualche modo sono costrette a farlo per la sopravvivenza delle proprie comunità».

Tra il 13 e il 17 aprile, appunti a margine del libro “La trama alternativa” a p. 47
Il fatto è che la verità è un inganno: la sicurezza securitaria istituzionale passa attraverso la ricostruzione morbosa e minuziosa dell’accaduto – pensiamo ai resoconti maniacali, il dettaglio ricercato in maniera ossessivo all’interno delle narrazioni di cronaca nera -, come se sapendo e conoscendo i minimi dettagli si possa evitare che un certo avvenimento accada nuovamente, se non viene ripetuto il dettaglio x o y. Ma non è vero, non funziona così. La verità è semplicemente una catena di avvenimenti, anche casuali, aleatori, circostanziali, per questo è irrilevante. Quello che è rilevante è tutta la struttura su cui questi eventi scivolano.

Giovedì 24 agosto, quaderno
È necessario abbandonare le ricostruzioni di cronaca, morbose, dei media, della polizia, dei tribunali e di tutto ciò che segue una burocrazia, perché il potere ricostruisce per annullare; la genealogia ricostruisce per creare. È potenza. È azione collettiva in potenza.

La trama alternativa”, G. Palomba, pp. 43-47
«Io parto come un treno, chiedo spiegazioni, fatti, con il tono secco e frenetico di chi guarda una bussola, non riesce più a leggerla e non sa a chi dare la colpa. (…) “Dobbiamo rispettare le richieste”, “non è una questione di fatti”, “non possiamo dirvi tutto” (…) “Non è questione di ricostruire una sequenza di eventi, ma constatare che la donna ha vissuto qualsiasi cosa sia successo, al di là di quello che Bernat possa credere come, come una violenza”. (…) mi tremano le mani, vorrei avere Bernat davanti, proprio in quel momento, e poter chiedere a lui una precisa ricostruzione dei fatti che possa far tornare la realtà a girare intorno all’asse che conosco. (…) Altre volte l’istinto è quello di andare sotto casa di Bernat e urlargli contro: “Che cazzo hai combinato?” Ma quello che prevale è il desiderio irrazionale e superbo di tornare a prima, alle bugie di Bernat e a tutti i suoi tentativi di proteggermi dalla realtà, e forse posso farlo pensando che non era lucido, che in realtà non sapeva quello che faceva; potrei raccontarmela così. E invece sto fabbricando* fatti per riempire i vuoti: non è quello il punto, non è quello il punto, non è quello il punto. (…) Lo ripetono fino alla nausea: non deve essere rilevante stabilire la verità. Ora la priorità della comunità è occuparsi delle cause e delle conseguenze».

*mi sono accorta ora, mentre ricopiavo le citazioni dal libro, del termine “fabbricando”. Il termine “fabbricare” mi riconduce alla fabbrica, alla catena di montaggio, allo stesso movimento riprodotto all’infinito: quella memoria muscolare da cui ero partita e alla quale riconducevo il mio errore, la mia cecità indotta dall’abitudine a percorrere la stessa strada, senza pensare a un’alternativa.

Lunedì 21 agosto, quaderno
Facendo mente locale: sono successe un po’ di cose. Poco prima di Ferragosto le cronache raccontano, a grandi linee, di due donne che nel giro di poche ore sono morte entrambe mentre si trovavano sotto la custodia detentiva dello Stato.

Due donne morte in un solo giorno nell’inferno del carcere. Due tragedie consumatesi all’interno delle mura delle Vallette a Torino: una donna si è suicidata e un’altra reclusa si è lasciata morire lentamente rifiutando acqua, cibo, cure e chiedendo insistentemente del figlio (Torino, 12 agosto 2023, 12.47. Redazione Ansa).

Poco dopo Ferragosto una nuova notizia risalta su tutto, per giorni.

Falla ubriacare, poi ci pensiamo noi! Sette giovani sono stati arrestati con l’accusa di stupro di gruppo nei confronti di una diciannovenne a Palermo un mese fa. È la notte del 7 luglio e un gruppo di ragazzi di si rivolge così al titolare di un locale nel quartiere della Vucciria, noto mercato storico del capoluogo siciliano. Dopo aver bevuto, la ragazza viene accompagnata dai sette giovani, tutti con età compresa tra i 18 e i 22 anni, in una zona isolata del Foro Italico, dove viene ripetutamente violentata (18.08.2023. 17.20. Gloria Ricci, TgLa7).

L’istantaneo “se fosse successo a me?”,

Eccolo, immediatamente successivo, lo spettro sentimentale entro cui ci si muove, fatto in prima battuta di emozioni grezze, non processate, che molto spesso tali rimangono, perché si hanno gli strumenti per esprimerle ma molto spesso non quelli per lavorarle.

La trama alternativa”, G. Palomba
“La giustizia trasformativa è imperniata su questa volontà di tenere tutto insieme, sulla capacità di contemplare due o più tensioni. Nello stesso momento, sullo stare in uno spazio – sicuramente scomodo e non sempre semplice e possibile da non concepire – necessario alla riparazione e alla trasformazione, e riempirlo con tutto ciò che serve a questi due processi”.

Lunedì 28 agosto, quaderno
In verità, io te lo dico, le ombre della nostra nuova prigione ci avvolgono fin dalla nostra nascita, e troppo presto noi dimentichiamo il passato.
(J. London, Il vagabondo delle stelle)

Il più bel libro sulle prigioni l’ho letto quando non avevo ancora un parere sul tema delle carceri. Il libro è “Il vagabondo delle stelle” e io non sapevo nemmeno si potesse avere un’opinione sull’esistenza di un organo statale che disponesse della libertà delle persone, secondo legge: era, per me, semplicemente un dato di fatto, una realtà scontata nelle sue funzioni e motivazioni.
Jack London racconta di Darrell Standing, professore universitario che in seguito a una serie di vicissitudini si trova ad essere rinchiuso, in isolamento, nel carcere di San Quentin, dove viene torturato e costretto alla camicia di forza. Per sopportare tali sofferenze, trova il modo di fuggire dal proprio corpo: procurandosi la “piccola morte”, sfruttando la trasmigrazione dell’anima e la reincarnazione, mentre il suo fisico è intrappolato a San Quentin, la sua mente vive numerose altre vite.
Si può dibattere o meno sulla meditazione, la reincarnazione, la metempsicosi e l’immortalità dell’anima, ma se riduciamo ai minimi termini gli elementi narrati, si ottiene che il protagonista del romanzo di London è sfuggito ad una situazione estremamente (e dolorosamente) concreta grazie alla fantasia, all’immaginazione, all’irrazionalità. Ha scritto la sua trama alternativa ad una storia che gli è stata imposta, come la camicia di forza che gli stritola gli organi e le ossa.
A questo punto, la metafora è scontata, ma vale la pena esplicitarla: la nostra società è la camicia di forza e noi dobbiamo con tutta l’immaginazione, la fantasia e i sogni che abbiamo in corpo per poterci liberare delle cinture del potere che ci impediscono i movimenti, ci offuscano la vista.
Inevitabilmente, in questo tentativo di escapologia, si dovranno assumere posizioni scomode, talvolta anche dolorose. Sì, perché il carcere è comodo: «È questa la funzione ideologica del carcere: ci solleva dalla responsabilità di affrontare seriamente i problemi della nostra società, in particolare quelli prodotti dal razzismo e, in maniera crescente, dal capitalismo globale» (A. Davis, Aboliamo le prigioni?, minimum fax, Isola del Liri (Frosinone), 2005, p. 17). 

Mara Surace, 03/09/2023

Mi piace la forma che sta assumendo questo nostro scambio e vorrei, quindi, tirare le fila del metodo che mi sembra si sia delineato fino a qui. Credo che il modo migliore per rendere più comprensibile per chi ci legge ciò che stiamo facendo sia riprendere le parole di Elena, che, in uno stralcio del suo quaderno, ha scritto: “Il potere ricostruisce per annullare; la genealogia ricostruisce per creare.”
Proporre un’archeologia dei nostri pensieri sparpagliati, che abbiamo fatto individualmente, ma che abbiamo rielaborato collettivamente con Giusi Palomba alla presentazione del suo libro alla Libera Collina di Castello e che continuiamo a rielaborare in diverse occasioni, credo che sia il metodo che più si addice ai nostri scopi adesso. Desideriamo tirare tutti i fili di questa “trama” che l’autrice ha iniziato, vedere dove i fili sono sufficientemente solidi da sostenere se stessi e sufficientemente mobili per adattarsi all’intero in cui sono inseriti. D’altronde, avremmo fatto questo: recuperato parti de “La trama alternativa”, appunti presi durante la sua presentazione, appunti presi dopo il nostro incontro per parlare di questa rielaborazione delle nostre impressioni, appunti presi sullo stesso tema a partire da altri libri/conversazioni/prodotti culturali, ci saremmo scambiat* mail per sincronizzare il tutto e, se qualcosa di tutto questo avesse funzionato, avremmo scritto una recensione canonica, un breve articolo sul libro, o qualcosa di simile.
Non arrivare, invece, a questo fine ultimo, non pretendere di confezionare alla perfezione i nostri frantumi di idee, significa anche non dare risposte univoche e definitive, e questa, credo, è una delle lezioni che dà Giusi Palomba col suo libro. È così che possiamo recuperare tutti i frantumi e iniziare il processo di un’azione collettiva. E quindi creiamo- azioni, utopie concrete, consapevolezze- attraverso una genealogia mai conclusa e sempre messa alla prova, ricostruiamo il cammino fino a qui e inventiamo la direzione da prendere.

La trama alternativa, G. Palomba, p. 89
«Mi rimane un senso sinistro di gratitudine, per tutto ciò che è accaduto, ma che non era scontato accadesse. Per tutto ciò che ha contribuito, molto più di tanta retorica e frasi fatte, a dare corpo e sostanza a quando si dice: il futuro desiderato inizia dai passi fatti nel presente necessari a raggiungerlo.»

Venerdì 31 marzo, sottolineature frenetiche sulla mia copia de La trama alternativa
“femminismo addomesticato” e “senza più genealogie” sono cerchiati e uniti con una freccia.

La trama alternativa, G. Palomba, p. 100
«È di sicuro più facile per chi si fa portavoce di un femminismo addomesticato, per sempre giovane, sensibile alle ricompense del mercato, avvezzo a smussare gli spigoli e a non avanzare mai critiche troppo scomode. Quello che si esprime principalmente tramite i media, i social, che frastorna e che produce incessantemente contenuti, sempre più lontano dalle storie reali, senza più genealogie.»

Mercoledì 5 aprile, agenda
–          Provare a organizzare una presentazione del libro di Giusi alla Libera Collina
–          Recuperare altri testi sul tema

Abolizionismo. Femminismo. Adesso., Angela Y. Davis, Gina Dent, Erica R. Meiners, Beth E. Richie
«Accogliamo altre interpretazioni del femminismo abolizionista e sosteniamo che le genealogie dovrebbero sempre essere messe in discussione, perché c’è sempre una ragione valida e ancora sconosciuta per collocare l’origine in un determinato momento storico piuttosto che in un altro, ed è sempre cruciale indagare quali narrazioni sono state marginalizzate o espunte.»

Mercoledì 10 maggio, appunti dopo l’incontro, come sempre molto caotico, in cui Elena e io ci confrontiamo sul libro di Giusi Palomba prima della presentazione.

Genealogia: approfondire questo tema. Come restituirla quando si scrive e le citazioni non bastano? E la bibliografia è solo un pesante strumento del mondo accademico o può essere traccia di una genealogia? Forse c’è genealogia se c’è collettività. Genealogia è anche archeologia.

Rispondo intanto alla tua domanda, Carlo, che riguardava le impressioni sulla prima parte del libro, quella che rende il libro anche un memoir. Dico la verità, quando è uscito questo libro, l’ho comprato avendo come principale motivazione solo questo: l’ha scritto Giusi Palomba. Avevo captato, durante una presentazione a Torino in cui l’autrice dialogava con D. Hunter (autore di uno dei libri che mi ha colpito di più negli ultimi anni: Chav. Solidarietà coatta), che stava lavorando a qualcosa sulla giustizia trasformativa. Non mi succede mai di comprare un libro senza sapere esattamente che cosa ho in mano e quindi, trovandomi catapultata nell’esperienza comunitaria dell’autrice e nel racconto di come viene messa in atto la giustizia trasformativa per uno stupro, sono stata stupita rispetto al tipo di libro che avevo tra le mani. Condivido con Elena il senso di curiosità e di rispetto per ciò che l’autrice ha raccontato e per come ha poi, nella seconda parte, restituito la parte teorica.

Mercoledì 5 luglioappunti dall’incontro con Elena e Carlo ai giardini Luzzati
Carlo dice di aver provato paura, di aver fatto fatica ad andare avanti in certi punti della lettura. Perché tra i sentimenti miei e di Elena la paura non è elencata?

Vorrei tornare poi a una questione che hai sollevato tu, Carlo, nella prima mail, ma anche quando ci siamo incontrat* per scambiarci impressioni su questo libro: la tua paura. Anche io, come Elena, credo che questa derivi dal tuo essere socializzato come uomo. Lo hai scritto anche tu, è la paura “del potere che ti giustifica” e di te stesso in quanto pericolo per altr* e in particolare per le donne. Questo non possiamo condividerlo.
La paura, però, credo derivi anche dal fatto (correggimi pure se sbaglio) che questo libro non è un manuale- grazie al cielo- che ti spiega come agire o quali sono i punti di riferimento teorici sull’abolizionismo carcerario e la giustizia trasformativa. È un libro che decostruisce e fa disimparare, fa vacillare il poliziotto interiore che è dentro di noi, fa rimanere nel conflitto, scomod* tra nuove consapevolezze. E questa scomodità- questo spaesamento, volendo far parlare l’antropologa che è in me- è ciò che di più fruttuoso abbiamo.

La trama alternativa, G. Palomba, p. 207
«I processi di decostruzione sono estenuanti […]. Disimparare, dismettere i processi automatici, le connessioni, le reazioni, è un processo più doloroso, profondo e straniante dell’imparare. Disimparare lascia emergere le tracce di ciò che abbiamo fatto senza pensare e del dolore che abbiamo causato.»

Personalmente, quando leggo libri belli, ho paura. Anzi, forse, quando a lettura conclusa, sento qualcosa di simile alla paura della scomodità, quando una delle basi solide della nostra modalità predefinita di pensiero collassa, allora so di aver fatto una buona lettura. Perché negli ultimi tempi cerco questo: essere messa alla prova e non crogiolarmi nelle mie certezze inutili. Voglio consolidare quella disciplina che è la speranza, come ci ricorda Giusi Palomba attraverso le parole di Mariame Kaba. Disimparare che il carcere, l’esclusione, la punizione sono le uniche strade possibili. Inventare nuove mappe. Immaginare radicalmente, dalla radice, appunto. L’abolizionismo, come dice Ruth Wilson Gilmore, non è assenza ma presenza. Non crea un vuoto semplicemente perché immaginiamo un mondo senza carceri, crea un vuoto che è spazio generativo, che ci permette di re-immaginare e di chiederci, come nel racconto Quelli che si allontanano da Omelas di Ursula K. Le Guin riportato nel libro, cosa siamo dispost* a tollerare per far funzionare una società. E soprattutto cosa significa “far funzionare” una società. È lo spazio che permette la trasformazione che auspichiamo.
Lo hai scritto tu, Carlo, alla fine della tua prima mail: “mi fermo, così abbiamo spazio per immaginare degli spunti diversi”. È quello che bisogna fare: fermarsi, creare lo spazio vuoto generativo, smazzarci (ma collettivamente) l’horror vacui, stare (ma collettivamente) nel conflitto, seguire, come unica disciplina, la speranza.

Mi rendo conto di non aver risposto a quasi nessuna delle vostre domande, magari nella prossima mail riparliamo degli spazi “safer” e di come attuare le lezioni della giustizia trasformativa nelle relazioni tra partner o con bambin* (è da lì che tutt* impariamo che a uno sbaglio seguono punizione ed esclusione). Mi sono venute in mente molte altre cose, che butto qui alla rinfusa, per gettare l’amo rispetto ad altre questioni.
– Vorrei riflettere meglio su ciò che scriveva Elena sulla comunità. Mi ricordo che una delle prime cose che ho detto alla Collina, durante la presentazione, è stata: “Questo è un libro che ti spinge a chiederti ‘a quale comunità posso fare riferimento io, per non dover contare sulla polizia e sulle istituzioni?’. Ed è anche un libro che in qualche modo esorta alla creazione di comunità in cui questi temi sono sentiti e praticati.”
– “Il lavoro interiore è attivismo”, dice Giusi Palomba. Penso proprio sia così, ma mi piacerebbe scandagliare meglio la cosa insieme a voi. Come mettiamo al servizio della comunità il nostro lavoro interiore? Quanto è frutto del privilegio poter fare attivismo? La trama alternativa dà voce alla lotta di classe e non dimentica mai di palesare gli squilibri di potere.

Non pretendo di avere da voi, o da nessun altr*, delle risposte. Credo che siamo tutt* e tre d’accordo sul fatto che le domande sono più importanti.

Grazie e a presto,
Mara

Parte seconda

Carlo Martello, 07/09/2023

Buongiorno Mara, buongiorno Elena,

innanzitutto vi ringrazio per gli stimoli e la cura, l’attenzione, la serietà che state mettendo in questo scambio, pur nel disordine che abbiamo scelto come metodo condiviso. 
Prima di passare agli altri temi: sì, avete ragione, è evidente che non possiate condividere la mia paura, è un complesso di paure che trova la sua origine nell’essere uomo. Probabilmente, anche se in modo non del tutto consapevole, avevo bisogno semplicemente di definire questa cosa insieme a voi, di nominarla, di non iniziare questo piccolo percorso con voi facendo finta che non esistesse una distanza rispetto a questo. 
Rispetto a questo macro-tema, ovvero il ruolo e le pratiche dell’uomo all’interno di una società profondamente patriarcale, le domande principali, che emergono anche dalla lettura de La trama alternativa, mi sembrano essere queste: 
– quanto davvero siamo sempre in gradi di riconoscere i nostri comportamenti maschilisti, patriarcali? Con chi discuterne? Con noi stessi, certo, e poi? Giusi Palomba, nella seconda parte del libro, raccoglie una serie di testimonianze in merito e il lavoro maschile credo sia fondamentale, ma mi pare che siamo ancora molto indietro, soprattutto nella costruzione di un’identità propria, svincolata dal patriarcato ma autonoma rispetto al femminismo, che appartiene a tutt*, ma allo stesso tempo non è e non può diventare appannaggio dell’essere maschile o operiamo un capovolgimento di senso clamoroso. Mi sono dilungato, scusate. 
– come si rinuncia effettivamente ai privilegi? Perché dirlo è semplice, sentirlo un po’ meno, ma è possibile. Praticarlo è un processo lento, difficile, non vi nascondo anche molto frustrante. A volte mi pare di diventare un eremita, perché la società di massa va da un’altra parte. Non voglio fare la vittima, eh, per niente. Voglio dire piuttosto che è necessaria una rete, o meglio, visto che è una delle parole fondanti di tutto il lavoro di Giusi Palomba, una comunità. Diversamente, non voglio dire che è impossibile, ma è sicuramente molto più difficile. 
(lo so che come domande sono piuttosto affermative, ma in realtà è un discorso aperto, scrivo per conoscere cosa ne pensate voi, non c’è nulla di chiuso o di definitivo. Aggiungo, a scanso di equivoci, altrimenti rifaccio l’errore della prima mail di questo dialogo: è chiaro che non posso chiedere a voi di prendere i panni “dell’uomo”, non si tratta quindi di condividere, quanto piuttosto di riflettere in senso generale)
– rispetto alla rinuncia ai privilegi, una chiave può essere prendere l’esempio da come il femminismo intersezionale ha trattato e tratta le marginalità? A me pare che possa essere utile e vantaggioso per un uomo prendere esempio dai percorsi delle donne (anche in maniera autonoma nel senso che mi sembra ingiusto pretendere anche le insegnanti, ce la possiamo fare da soli) che hanno affrontato e affrontano le distanze con, faccio degli esempi, le donne afrodiscendenti, le donne neurodivergenti, le più diverse povertà, il carcere, eccetera. 

Vado oltre. Volevo scrivere due righe di premessa e ne è venuto fuori un brodo, vi chiedo scusa. Ripeto, temo che queste parole, questi temi, siano lì pronti a scattare in me, e probabilmente in molti altri uomini. Di nuovo, non c’è vittimismo in questo, c’è piuttosto rabbia, urgenza di dire e di fare, perché per qualsiasi uomo che si ponga in dubbio rispetto alla società è un mondo difficile e senza “comunità”, quest’ultima va costruita (in realtà, nel mio caso specifico, questa comunità esiste, ma non è esplicitata, anche questo è un tema ulteriore). 

Riporto un pezzo di quanto ha scritto Elena: 

Venerdì 12 maggio, Libera Collina di Castello, presentazione del libro “La trama alternativa”
“Io però vorrei fare un passo indietro e partire da prima: nel libro parli di un’esperienza personale, di un avvenimento che è accaduto e le cui cause, conseguenze e strascichi sono stati presi in carico dalla comunità, ma come si costruisce una comunità che abbia le conoscenze, le capacità, la volontà di mettere in moto queste pratiche?”

Sabato 8 luglio, quaderno
Ripensandoci, da antropologa, chiedere come si costruisce una comunità potrebbe causare il ritiro della laurea, o almeno la sospensione. O forse no. O forse per l’ennesima volta il mio bagaglio accademico, la memoria muscolare che mi guida sui medesimi percorsi nel mio cervello, mi portano ad avere una postura che comporta la presenza di diversi punti ciechi.
La mia idea di comunità proviene da un luogo sbagliato, che non è stato scardinato: non è ai margini.

E Mara poi aggiunge un’ulteriore riflessione che mi sembra preziosa.

“Mercoledì 5 luglioappunti dall’incontro con Elena e Carlo ai giardini Luzzati

Carlo dice di aver provato paura, di aver fatto fatica ad andare avanti in certi punti della lettura. Perché tra i sentimenti miei e di Elena la paura non è elencata?

Vorrei tornare poi a una questione che hai sollevato tu, Carlo, nella prima mail, ma anche quando ci siamo incontrat* per scambiarci impressioni su questo libro: la tua paura. Anche io, come Elena, credo che questa derivi dal tuo essere socializzato come uomo. Lo hai scritto anche tu, è la paura “del potere che ti giustifica” e di te stesso in quanto pericolo per altr* e in particolare per le donne. Questo non possiamo condividerlo.
La paura, però, credo derivi anche dal fatto (correggimi pure se sbaglio) che questo libro non è un manuale- grazie al cielo- che ti spiega come agire o quali sono i punti di riferimento teorici sull’abolizionismo carcerario e la giustizia trasformativa. È un libro che decostruisce e fa disimparare, fa vacillare il poliziotto interiore che è dentro di noi, fa rimanere nel conflitto, scomod* tra nuove consapevolezze. E questa scomodità- questo spaesamento, volendo far parlare l’antropologa che è in me- è ciò che di più fruttuoso abbiamo.”

Non sono sicuro che ricopiare interi paragrafi del discorso sia utile e soprattutto non sono sicuro che possa essere agevole per chi vorrà leggerci, ma ho l’impressione di perdere pezzi, perché è tutto collegato, da un tema si passa all’altro, come è giusto. Insomma, è un tentativo di tenere insieme il disordine che stiamo creando e che in fondo desideriamo riportare e un minimo di leggibilità.

L’accademia ha senz’altro i suoi limiti strutturali e forse in questo momento possiamo lasciarli lì dove sono, quantunque le università siano uno dei posti in questi ultimi decenni più fecondi di riflessioni. Al di là di questo, il punto però mi sembra centrale. Come si arriva a costruire una comunità in grado poi di affrontare un peso così grande come quello che coinvolge la comunità di Mar, Bernat, Giusi e altr*? Il libro non propone ricette, non le stiamo cercando, è vero. Però è altrettanto vero che qualche appiglio pure ci serve, altrimenti diventa ancora più faticoso. Tra le righe dell’opera di Giusi Palomba, specie nella prima parte, si avverte che delle “regole” esistono. Dico “regole” tra virgolette perché l’impressione è che siano in continua costruzione e che nascano dalle pratiche anche non strutturate, pur tuttavia esistono e permettono di attuare dei comportamenti senza vivere costantemente con più dubbi e fatiche del necessario, in una situazione che è già esplosa provocando immensi dolori. Cosa ne pensate? 

E sempre a proposito di antropologia, anche se in maniera laterale, mi fa piacere notare come il riferimento che Giusi Palomba opera nel campo narrativo abbia colpito tutt* noi, parlo del breve passo sul racconto di Ursula Le Guin (non è vero, rileggendo meglio solo Mara cita quel passaggio, Elena parla invece di Jack London. Questo dice qualcosa forse sulle percezioni : D ). 
Senza avventurarmi in una disamina critica, dico solo due parole a vantaggio di chi vorrà leggere questa corrispondenza: Ursula Le Guin, autrice di fantascienza e di fantasy tra le più importanti, premiate e rinomate, ha sempre nutrito una fortissima fascinazione per l’antropologia e i suoi lavori narrativi possono, forse devono, essere letti anche in chiave antropologica. Tanto per dare un’idea a chi non dovesse conoscere ancora la sua opera, tra i suoi libri ce n’è uno che è un vero e proprio trattato di antropologia che studia e descrive una popolazione inventata. 
Scusate se mi dilungo, ma Malgrado le mosche è una rivista che ha un pubblico generalista e Le Guin paga ancora, purtroppo, il suo essere considerata un’autrice di genere. Il rischio era di parlare di un’autrice “monstre” per noi tre e assolutamente sconosciuta per alcun* delle lettrici e dei lettori. 
Tornando a La trama alternativa e ai riferimenti a Le Guin, lì si parla di un mondo in cui il benessere di tutt* è sostanzialmente veicolato dalla sofferenza sempiterna di un bambino. Se il bambino viene salvato, il mondo collassa. La metafora è immediata. 
Da una brevissima ricerca ho trovato questo articolo uscito su Il tascabile, a firma di Matteo De Giuli – La creazione letteraria secondo Ursula K. Le Guin – Il Tascabile -. Ne copio un estratto, preso dalla primissima parte dell’articolo, che poi giustamente parla di narrativa.

“(Ursula Le Guin)aveva un’idea di letteratura diversa dallo stereotipo machista di quella fantascienza fatta solo di distopie, guerre e conflitti di civiltà. Allo stesso modo avversava l’approccio “futurologico” di una fantascienza costruita come dispositivo di predizione dell’avvenire; se il compito è quello di pronosticare il futuro, scriveva, è meglio affidarsi alle analisi degli scienziati. Che bisogno c’è di fornire in ogni romanzo una risposta finale al lettore? Meglio piuttosto credere nell’uso trasformativo dell’esplorazione, della fantasia, dell’esperimento di immaginazione.”

Sto insistendo su questo perché mi chiedo, da tantissimo tempo ormai, quanto la narrativa può essere trasformativa, non tanto relativamente a sé stessa (la risposta è sì, può esserlo, praticamente senza limiti), quanto relativamente al mondo cosiddetto reale. Ha senso immaginare mondi? Ha senso immaginare antropologie? Fuori dalla competizione, anche ideale, con le lotte nei vari territori, con le attività dei più diversi movimenti, l’operazione linguistico-narrativa porta qualche frutto? Ne La trama alternativa ci sono tantissimi riferimenti a serie tv (di cui purtroppo sono particolarmente ignorante) e Giusi Palomba suggerisce che diano una rappresentazione del reale talvolta particolarmente acuta. Io credo che anche questo sia un percorso da fare, che le storie, le immaginazioni servano. Che senza immaginare è più difficile operare delle trasformazioni. Di nuovo, non si tratta di stabilire primati, giammai!, piuttosto di provare a pensare che le lotte coesistono con i desideri, i desideri con le fantasie, spero di essere riuscito a farmi capire. 
Mi piacerebbe approfondire il discorso con voi, cercando di stare quanto più possibile dentro il libro di Giusi Palomba, cosa che a me è riuscita molto poco. 

Ho scritto molto, non voglio esagerare ulteriormente. Tuttavia, restano fuori alcuni temi fondamentali tra quelli che avete proposto e alcune vostre riflessioni meritano, secondo me, di essere riprese. Per quanto mi riguarda, mi propongo di farlo nella prossima mail e di non dimenticarle. Mi riferisco in particolare:
– a quanto diceva Elena a proposito del carcere in almeno due punti della sua mail (penso alle due donne morte “dentro” il carcere e alla successiva riflessione su Jack London).
– a quanto dicevate entrambe rispetto al concetto di comunità, credo che sia davvero fondamentale da approfondire. 
– al discorso che di nuovo facevate entrambe e che mi sembra particolarmente attuale e fecondo sulle genealogie. 
– al privilegio della lotta. Mara riprende il tema da un passo de La trama alternativa, ma è un tema su cui ci siamo interrogat* tutt*. 
E ce ne sarebbero ancora altr*. 

Ragazze, sono contento di questa conversazione, mi fa piacere dirvelo, e allo stesso tempo sono stanchissimo, è estenuante. Di nuovo, ci ho messo quattro giorni per buttare giù queste considerazioni, che oltretutto non sono particolarmente originali. Lo dico perché immagino che per voi sia la stessa cosa. La sensazione è di estrema fatica, ma è una fatica bella. 

Buon pomeriggio. 
A presto. 

Elena Garbarino, 11/09/2023

Continuo a trovare molto intrigante la forma del nostro discorso e altrettanto interessanti gli spunti e le riflessioni che ne stanno uscendo.
Questa ricostruzione del pensiero che è una via di mezzo tra uno scavo archeologico, una seduta di gruppo e un intenso monologo shakespeariano, colmo di dilemmi, è la forma con la quale mi sento più a mio agio a scrivere in questo momento, di questi temi. La difficoltà con la quale proviamo a dare un senso al caos senza necessariamente imbrigliarlo e la difficoltà che immagino chi legge avrà nel tenere insieme tutti i fili, penso siano lo specchio esatto in cui navighiamo nella vita, quando affrontiamo questi o altri argomenti. Inoltre, mostrare gran parte del lavoro di recupero, delle fonti, della memoria, dell’esperienza apre alla potenza di interpretazione: io mostro il mio percorso, ma chi legge può cogliere tra gli appunti e i frammenti di parole e concetti abbozzati l’apertura verso un altro sentiero, un’altra strada, un altro panorama in grado di portare a un’ulteriore trama alternativa.

Martedì 5 settembre, primi brevi appunti a margine della mail di Mara
Il dentro e il fuori. L’apertura e la chiusura. La condivisione e l’incomunicabilità. Il potere che giustifica e il poliziotto interiore (cit. “La trama alternativa”, p. 131: «Abolire la polizia perde significato se non siamo in grado di occuparci prima di tutto del nostro poliziotto interiore»): ma come si parla al poliziotto interiore altrui?

Venerdì 8 settembre 2023, primi brevi appunti a margine della mail di Carlo
Paura, fatica, stanchezza + spaesamento (cfr. anche e-mail di Mara) = genealogia dei sentimenti “negativi” e quindi mostrare quello che di solito non si mostra quando si propongono risposte prefabbricate.

Non lo so quanto le università “siano uno dei posti in questi ultimi decenni più fecondi di riflessioni”, Carlo, cioè, certamente, ma (solo) quelle di un certo punto di vista, accademico, gerarchico, non decostruito. In altre parole, il sapere universitario non è ai margini. 
Mentre leggevo le vostre e-mail e iniziavo a pensare a come rispondere, avevo sempre più chiara in testa una citazione dal romanzo “Amatissima” di Toni Morrison: «Liberarsi era una cosa, rivendicare la libertà di quell’io liberato un’altra». Mi ricordo chiaramente di aver letto questo libro perché consigliato dal professore del corso universitario che stavo seguendo in quel momento, antropologia del dolore e della violenza, il cui manuale da studiare per l’esame si intitolava “Archeologia della violenza. Un’antropologia del sottosuolo”. Avevo alzato le antenne rispetto a questo consiglio perché mi ha sempre affascinato affrontare temi sociali attraverso la fiction.
Insomma, per farla breve, ultimamente mi sento che l’approccio migliore alla mia conoscenza universitaria è ormai quella di una bandita, sia nel senso di “bandito” al femminile, sia nel senso di (auto)esiliata, allontanata: con un assalto fulmineo accedo ai concetti che ritengo possano essere utili e poi li restituisco alle mie condizioni.
Il termine “archeologia” l’ho usato per descrivere il processo di recupero e scrittura di tutto ciò che mi ha colpito leggendo “La trama alternativa”. L’“antropologia del sottosuolo”, invece, è un’immagine che mi fa venire in mente, a proposito di fantascienza e fantasy, uno scenario futuro distopico in cui tutt* l* antropolog* erano costrett* all’esilio dalla popolazione mondiale, perché mettevano in discussione ogni ordine precostituito e svelavano ogni sotterfugio utilizzato da chi detiene il potere per mantenere il proprio status quo, e finivano per andare a vivere nel sottosuolo.

Direi che per ora non corriamo il rischio.

Martedì 29 agosto, frammento di una conversazione su WhatsApp con Mara
“Comunicare non con le istituzioni per cambiare le istituzioni, quell’incomunicabilità la capisco e tutte le conseguenze che dici sulla legittimazione dell’oppressione le capisco perfettamente e non è quello che cerco. È la comunicazione con le persone che sono (inevitabilmente) istituzionalizzate”.

“Sempre per non ricadere in quell’errore di fondo di rimanerci a dire le cose tra noi, tutto qui, è quello che mi preoccupa”.

Paura, fatica, stanchezza, spaesamento, frustrazione, esaurimento, preoccupazione. Leggendo le vostre riflessioni mi è venuto da soffermarmi sui sentimenti che avete esternato e mi sono resa conto di essere confortata dalla vostra condivisione. Molto spesso, in passato, mi sono trovata a disagio nel provare disagio. Mi spiego: quando ho iniziato ad approcciare temi sociali complessi, mi sono affidata a varie fonti, più o meno qualunque cosa che mi potesse dare un appiglio, una spiegazione, una certezza. Ad un certo punto, però, dopo aver letto, ascoltato, essermi documentata al meglio delle mie possibilità, mi sono resa conto che non avevo smontato alcuna di quelle impalcature sovrastrutturali gentilmente offertemi da capitalismo, patriarcato, colonialismo, eccetera, ma avevo solo cambiato facciata del palazzo a cui stavo lavorando (non so se si è capito, ma mentre sto scrivendo degli operai stanno molto poco discretamente martellando e trapanando dell’edificio di fronte). E lassù, ho iniziato a soffrire di vertigini.

Il racconto dell’ancella, 2×02, “Nondonne”
“Questa è la libertà? Se è così fa venire le vertigini, come un ascensore con le porte aperte. Negli strati più alti dell’atmosfera ci si disgrega. Si diventa vapore. Non c’è pressione a tenerci uniti. Le barriere ci fanno sentire a nostro agio. Non ci vuole tanto ad abituarsi”

La trama alternativa”, G. Palomba, p. 81.
«Non si risolvono i conflitti cercando soltanto la verità dei fatti, ci dicono, ma anche rendendo palesi gli squilibri di potere. La facilitazione serve a sviluppare la capacità di ascoltare anche le voci più disturbanti, quelle che non vogliamo sentire. Perché nessuno può trasformarsi senza ricevere supporto dal suo ambiente circostante. Quando parliamo di comunità che si dedicano a lavorare per un cambiamento nella società, affrontare i conflitti diventa cruciale per proseguire il lavoro. Come possiamo cambiare il mondo se non sappiamo gestire nemmeno un conflitto interno?»

Venerdì 8 settembre 2023, quaderno
Per riprendere il concetto di “femminismo addomesticato” sottolineato da Mara all’interno del libro di Giusi Palomba, penso che l’effetto “forbici dalla punta arrotondata” che percepisco da tale approccio alle questioni di genere sia proprio dovuto al fatto che tralascia tutti gli aspetti difficili, complessi, brutti da discutere e da mostrare. Di conseguenza si cancellano i ragionamenti, i dubbi e gli interrogativi in favore di affermazioni auto-conclusive e tautologiche, fornendo solamente soluzioni prêt-à-poster.

Lunedì 8 maggio, quaderno, appunti e ipotesi di domande da fare a Giusi nel corso della presentazione
Il libro parte da un’esperienza personale, molto personale, in cui non solo racconti un avvenimento che è il fulcro della riflessione che avviene nella seconda parte del libro, ma analizzi un contesto di comunità in cui ti muovi su vari livelli, personale, di lavoro, di volontariato, chiudendo molto le distanze tra persona e comunità. Come si fa, se lo si vuole, a essere una persona nella comunità, ma soprattutto come si fa a trasferire una comunità nella persona. Come si fa a far risuonare la persona attraverso la comunità*? Ovviamente te lo chiedo in riferimento alla tua esperienza e non come “dicci come si fa”, “dacci delle regole”.

*√persona: dal lat. persona; voce prob. di origine etrusca, che propr. significava “maschera teatrale” e poi prese il valore di “individuo di sesso non specificato”, “corpo”, e fu usata come termine grammaticale e teologico (Treccani).

A teatro la maschera serviva a produrre un’eco della voce e a far risuonare più lontano possibile le parole.
La comunità può essere cassa di risonanza delle persone? O le persone devono essere cassa di risonanza per le necessità della comunità?
La maschera teatrale, il teatro, mi offrono un aggancio per tornare all’interrogativo sollevato da Carlo rispetto a “quanto la narrativa può essere trasformativa […] relativamente al mondo cosiddetto reale. Ha senso immaginare mondi?”.
Sì, sempre, secondo me ha senso immaginare sempre. 
L’immaginazione è la nostra via di fuga, è il nostro gioco wittgensteiniano in cui esploriamo le possibilità dell’essere, liber* dalle restrizioni e dalle prescrizioni del potere.

Venerdì 12 maggio, Libera Collina di Castello, presentazione del libro “La trama alternativa”
“Lei è partita dal titolo per farti la domanda, allora io parto dal sottotitolo ‘sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere’ e nello specifico dalla parte ‘sogni e pratiche’. Di solito, la locuzione è ‘teoria e pratica’ o ‘teorie e pratiche’. Una volta assodato che la dicotomia teoria e pratica è superata, ho appena capito, credo di avere capito – poi mi dirai tu se la mia interpretazione è giusta – del perché della scelta della parola ‘sogni’: sì, da una parte può essere il voler aspirare a qualcosa come a un mondo migliore attraverso queste pratiche, quindi raggiungere il sogno e farlo diventare realtà; ma penso anche il sogno come una sorta di chiave d’apertura, un dispositivo dell’irrazionale da usare per comprendere che esiste una trama alternativa, probabilmente, anzi sicuramente più di una, e non solo la storia che ci raccontano le istituzioni, razionale, sicuritaria, inamovibile.
È un’interpretazione accettabile?”.

Martedì 18 luglio, quaderno
L’im-perfetto è il tempo dei sogni e della fantasia, del “facciamo che io ero…”.
Non può essere un caso.

Domenica 20 agosto, leggendo al sole, preparando l’autunno
«Come afferma l’autore, l’abolizionismo è un’entità che vive nel ‘non finito’, in una dimensione in continuo divenire, per cui non bisogna limitarsi a obiettivi a breve termine, ma a aggiungere a essi continui sforzi coincidenti con l’affermazione di permanenti istanze di giustizia sociale» (Simone Santorso, “No prison” in Livio Ferrari, Massimo Pavarini, Basta dolore e odio, Apogeo editore, San Giuliano milanese, 2018 – in Oltre la fabbrica dell’esclusione – l’abolizionismo carcerario come utopia concreta, Cronache ribelli, Perugia, 2023).

Mia nota a margine: “non finito” = “imperfetto”.

Martedì 29 agosto, quaderno
L’imperfezione mi rasserena, mi dà margine, mi permette di dubitare, di ripensare, di decostruire, senza dover trovare una soluzione a tutti i costi. È prediligere la continuità di pensiero nell’immaginazione, l’aggiustamento delle posture, la preferenza dei puntini di sospensione alla cesura dei punti fermi.

Chiudo qui, o meglio, apro qui, perché sono stufa di sentire la mia voce e sono invece curiosa di ascoltare voi.

Mara Surace, 14/09/2023

Ciao a tutt*,

Le ultime righe della mail di Carlo mi sono rimaste appiccicate allo stomaco e al cervello per tutto il tempo in cui ho pensato a cosa rispondervi (come sempre un tempo enorme rispetto a quello che impiegherò a scrivere effettivamente). Mi riferisco soprattutto a quando hai scritto: “la sensazione è di estrema fatica, ma è una fatica bella”.
Prima di entrare nel vivo di queste risposte parziali e domande aperte, volevo accodarmi a ciò che scriveva Elena rispetto all’università e al sapere accademico. Non so se mi sento “bandita”, ma auspico un’antropologia bandita, esiliata, marginale. Quella che raramente vedo rappresentata. So che questo esula rispetto al libro (che sta diventando pretesto per riflessioni ampissime) e ricordo, Carlo, che hai scritto che “forse in questo momento” potevamo “lasciare lì” i limiti strutturali dell’accademia. Purtroppo (dico per l* nostr* lettor*, che devono subire continue deviazioni) difficilmente lascio correre e difficilmente perdo l’occasione per sottolineare tutte le criticità dell’accademia. Detta brutalmente, non penso affatto che l’università sia “uno dei posti più fecondi di riflessioni”. E mi fermo qui, perché non è questo il momento per un pamphlet anti-accademico. Se avrai voglia di approfondire- e qui mi permetto di parlare anche per Elena, perché da anni ci confrontiamo su questo- “ai nostri posti ci troverai”.

Venerdì 12 maggio, Libera Collina di Castello, presentazione del libro La trama alternativa
“Nell’introduzione al libro Abolizionismo. Femminismo. Adesso. Claudia Durastanti ha affermato che una teoria del cambiamento non è mai semplice…”

Prefazione di Claudia Durastanti in Abolizionismo. Femminismo. Adesso.
«Come gran parte del lavoro di Angela Davis, questo testo è una storia di campagne, di reti, di persone dotate di nomi e cognomi, di associazioni, di esperienze di vita. Non sta nel mondo delle idee, ma delle possibilità, e non è una lettura semplice. Una teoria del cambiamento non lo è mai.»

Venerdì 12 maggio, Libera Collina di Castello, presentazione del libro La trama alternativa
“…Nonostante la fatica che nasce dal disimparare e dal mettere in discussione lo stato di cose presenti e le nostre credenze sulla violenza e sul carcere, credo che questo libro ti porti per mano in questa fatica.

Quello che intendevo dire, in quell’occasione, è che nelle parole di Giusi Palomba ho trovato un enorme senso di cura: nel non dare facili ricette, come dicevamo, nel non giudizio del possibile stato di (in)consapevolezza di chi legge rispetto a certi temi, nel linguaggio semplice, nell’uso attento delle parole.

La trama alternativa, G. Palomba, pp. 53-54
Si scelgono le parole per nominare i processi e le persone, in relazione a ciò che è accaduto. Sopravvivente e non vittima. Persona che ha inferto il danno e non predatore o perpetratore. Mar decide insieme al suo gruppo che la sua identità non debba ridursi alla vittimizzazione, nel suo caso, o colludere che non preveda un cambiamento, nel caso di Bernat. Le parole lasciano aperto lo spazio della trasformazione.

In questo libro ho avvertito il rispetto dell’autrice per il senso di paura, disagio e di fatica che stiamo esternando in questo nostro scambio. Esternarlo, essere vulnerabili rispetto alle nostre stesse idee, è catartico ed è un primo passo per utilizzare attivamente il disagio personale. Per tutti questi motivi mi sento di poter definire La trama alternativa, un libro di lotta e di cura.

La trama alternativa, G. Palomba, p. 131
«La giustizia trasformativa è imperniata su questa volontà di tenere tutto insieme, sulle capacità di contemplare duo o più tensioni allo stesso momento, sullo stare in uno spazio – sicuramente scomodo e non sempre semplice e possibile da concepire –  necessario alla riparazione e alla trasformazione, e riempirlo con tutto ciò che serve a questi due processi.
Non è detto che io domani, in presenza di un abuso, possa riuscire a superarlo da sola senza ricorrere a sistemi punitivi. Non è una strada facile, non è scontato e nessuno dovrebbe pretenderlo da nessun altro.
»

Perché la lotta è faticosa e necessita di tutta la potenza della cura. Mi tornano in mente alcune righe del libro Insegnare a trasgredire di bell hooks, quelle in cui l’autrice riporta le impressioni di chi ha studiato con lei: “Seguiamo il suo corso. Impariamo a guardare il mondo da un punto di vista critico. E non riusciamo più a goderci la vita“.

Quindi ritorno anche sui miei passi e dico che sì, è vero, cerco dei libri che mi facciano paura, come dicevo nella prima mail, che mettano in discussione la mia modalità predefinita e che siano critici. Ma forse, se non c’è cura comunitaria, la paura rimane sterile e, semplicemente, “non riusciamo più a goderci la vita”. Gli strumenti critici forniti sono una cosa, il lavoro interiore e quello emotivo che mi permettono di utilizzarli, sono altri. Giusi Palomba è riuscita a rispettare profondamente il lavoro emotivo di ognuno di noi di fronte a teorie e pratiche critiche che potevano essere solo giudizi, lezioni, schiaffi in faccia e pugni nello stomaco.

Venerdì 12 maggio, Libera Collina di Castello, presentazione del libro La trama alternativa
Qualcun* dal pubblico dice che ha letto il libro e che è stato “uno schiaffo in piena faccia”; l’autrice, sorridendo, risponde: “Oh no, mi dispiace”.

Riprendendo il tempo imperfetto di cui parla Elena: penso che questo tempo della possibilità e dell’immaginazione sia da proteggere e il fatto che sia il tempo del gioco de* bambin* mi accende sempre una lampadina su come anche il sistema educativo dall’infanzia in poi vada messo in discussione, perché l’esclusione e la punizione sono ancora considerati “metodi educativi”. Ma su questo credo di non avere le competenze adatte per dilungarmi. Ricordo, però, che anche questo tema era emerso durante la presentazione in Collina.

Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, bell hooks, p. 182
«Cambiare le strutture esistenti è terribilmente difficile perché l’abitudine alla repressione è la norma. L’educazione come pratica alla libertà non riguarda solo la conoscenza libertaria, ma la pratica libertaria in aula.»

Tirando i fili sul femminismo addomesticato e sul privilegio maschile invece, come dicevi giustamente tu, Carlo, in qualche mail fa rispetto al lavoro con e degli uomini: ce la potete fare da soli. Senza fare affidamento sul lavoro emotivo di donne che imparano e riformulano per voi. E direi che possiamo essere d’accordo sul fatto che gli approcci che spiegano il femminismo agli uomini perché “serve anche a loro” sono problematici. Fosse anche solo per il fatto che, se una causa deve “servire” per essere sostenuta, siamo molto lontan* da ogni tipo di trasformazione e ci avviciniamo, al contrario, al femminismo della forbice arrotondata, per citare la scorsa mail tua, Elena.

Martedì 12 settembre, appunto/delirio a margine della mail di Elena
Le forbici dalla punta arrotondata servivano giusto per i lavoretti di Art Attack. Ci vogliono le cesoie, quelle dell’arma del delitto di Cluedo.
(Quasi sicuramente il delitto di addomesticamento è stato perpetrato da tutto ciò che rappresenta il bianco, maschio, etero, ricco: dal principe Azure, e posso presupporre sia accaduto nell’autorimessa).

È anche vero, però, che Giusi Palomba durante la presentazione ha messo in luce il fatto che gli uomini hanno da dirsi “cose pesanti” (questa cosa mi è rimasta impressa) e che non mi risulta ci siano molti gruppi di riflessione sulla mascolinità frequentati da uomini. Gruppi che invece gioverebbero per non continuare a smazzarsi le cose individualmente. E quindi ritorniamo alla comunità, ovvero a ciò che ha permesso, nel caso di violenza raccontato ne La trama alternativa, di seguire un percorso alternativo rispetto a quello canonico di denuncia alle autorità. Mar usa un’alternativa che esiste, non che si deve inventare. Si affida a una comunità che, per quanto sconvolta dall’avvenimento, ha degli strumenti teorici e degli appigli pratici a cui aggrapparsi per procedere in ottica trasformativa e non punitiva.

La trama alternativa, G. Palomba, p. 49
«In quella comunità esiste un piano pensato apposta per l’evenienza di un abuso sessuale. Mar ci ha pensato e ha deciso: vuole che si avvii un processo trasformativo, che Bernat capisca cosa le ha fatto e che tutta la comunità del quartiere venga coinvolta. Mar e Bernat fanno parte degli stessi giri e di quella stessa realtà di quartiere. [..] La comunità di Mar e Bernat è proprio uno di quei luoghi di Barcellona dove da tempo è iniziato un percorso per riflettere sulla mascolinità, come e perché diventa sopraffazione, quali oppressioni genera.»

Cercando di concludere, volevo farvi notare che in tutte le nostre ultime mail appare la parola “appigli”. Forse, allora, è vero che Giusi Palomba non dà regole e non fornisce un “how to” e questo- mi pare che siamo d’accordo- è un gran pregio del testo. L’appiglio principale di tutta la vicenda raccontata è, ancora una volta, una comunità che ha già riflettuto su questi temi e ha almeno una vaga idea di come potersi muovere in modo trasformativo davanti a una violenza sessuale. E questo ci riporta anche al fatto che riconoscere il proprio privilegio e farlo individualmente, come presa di consapevolezza, può essere un primo passo, ma può portare a una sterile frustrazione, se non è poi usato collettivamente.
In questi mesi ho pensato a quanto può essere un privilegio avere una comunità, ma forse l’iper-individualismo e la frammentazione sociale a cui il capitalismo ci ha obbligat* e abituat* mi sta illudendo. Come ricordava Giusi Palomba alla presentazione, le pratiche trasformative, abolizioniste, o di limitazione del danno sono quotidianamente messe in atto da molte comunità trans, nere, queer. Non si può certo dire che loro possiedono il “privilegio” di una comunità: la costruiscono, la alimentano e la difendono perché spesso la strada trasformativa non è l’alternativa, ma l’unico modo per non essere ancor di più spremut* e sfruttat* dal sistema.
È la sopravvivenza rivoluzionaria. Forse dovremmo iniziare a considerarla tale anche noi privilegiati (ognun* di noi per matrici di oppressione/privilegio differenti), se vogliamo iniziare a costruire un altro mondo possibile. Forse il sistema non ci ha spremuto abbastanza? O forse ancora pensiamo che la polizia, le prigioni e la repressione ci mettano al riparo da qualcosa, ci diano sicurezza? Io non lo penso più, ormai da tempo. Eppure. Eppure, non faccio parte di una comunità che sia pronta almeno la metà di quanto lo era quella a cui l’autrice fa riferimento. La realtà barcellonese ha sicuramente contribuito alla fertilità di certe pratiche e Mar ha avuto un’alternativa, non priva di dolore e fatica, che vorrei possedere anche io. Per questo ho detto e ripeto, che La trama alternativa spinge a chiedersi a quale comunità potremmo affidarci noi e, soprattutto, spinge a tentare di costruirle, queste comunità trasformative e di cura.

Ho scritto sin troppo, vi aspetto per le vostre considerazioni e vi ringrazio ancora per questo spazio di confronto.

Parte terza

Carlo Martello, 17/10/2023

Buongiorno a entrambe. Spero di trovarvi, dopo quasi due settimane che non ci sentiamo (scusate questa mia seconda assenza, ma il trasloco mi sta rubando le ore, i minuti e per ora, fortunatamente, non la salute, ma è meglio se la tengo d’occhio) (difatti le settimane sono diventate credo tre, perché l’ansia mi ha bloccato ogni cosa, ma questa è un’altra storia), in forma, pronte all’autunno.

Ho fatto cenno al trasloco, che resta poi una cosa bella, perché significa, di solito (e nel mio caso è così), operare un cambiamento positivo, o almeno augurarselo. E poi, più importante, perché di cambiamenti di altro tipo stiamo parlando qui, ho fatto cenno al trasloco perché sempre di più mi pare evidente che le volontà di azione politica, intese ad ampio raggio, si scontrino con una vita quotidiana fatta di milioni di cose, spesso non particolarmente significative. Sarebbe bello e soprattutto più pratico e funzionale per le persone poter traslocare senza l’infinita burocrazia che accompagna uno spostamento di una o poche persone e delle poche cose che posseggono. 

Va bene, scusate, fine degli affaracci miei. 

Vengo al tema accademia, o meglio a una proposta a riguardo: concludiamo questo dialogo con le modalità con cui ci siamo accordat* e proviamo, con le stesse o con altre modalità, ad approfondire il tema del lavoro universitario. Ho idea che sia intuito ma non conosciuto e non compreso da molt*. Se vi va, ovviamente. 

Elena, leggendo Mara, chiede e si chiede: “Il dentro e il fuori. L’apertura e la chiusura. La condivisione e l’incomunicabilità. Il potere che giustifica e il poliziotto interiore (cit. “La trama alternativa, p. 131: “Abolire la polizia perde significato se non siamo in grado di occuparci prima di tutto del nostro poliziotto interiore”): ma come si parla al poliziotto interiore altrui?” Eh, bella domanda. Proprio in questi giorni (il fatto che le cose si colleghino sempre tra loro secondo me è interessantissimo e in parte di sicuro dipende dall’attenzione che ciascun* mette in riferimento ad alcuni pensieri guida, ma in parte credo dipenda anche dallo spirito del tempo, dai flussi delle attività e delle circostanze umane) riflettevo sulla fatica (di nuovo!) e sulla sensazione di impotenza che spesso si prova nel confronto. A volte è addirittura più semplice trarre un miglioramento reciproco o collettivo, in termini di consapevolezza, dal confronto con persone “ingenue” (è il termine più neutro che mi viene in mente) che dal confronto con persone “strutturate”, le cui convinzioni sballate sono difficilissime da buttare giù e generano più frustrazione perché, anche inconsapevolmente, si crede che un terreno comune sia sempre dato. Invece non è così. Il poliziotto interiore, nostro e altrui, prende spazi mentali angusti e continua a crescere, talvolta senza che chi lo coltiva se ne accorga, finché non è troppo tardi. Sempre più spesso mi trovo a discutere posizioni che vengono meno a valori che abbiamo considerato di base, come l’accoglienza, il tentativo di avere una proposta e non solo una lamentazione, il concetto che tutto è politico. Ho l’impressione che il tempo sia sempre meno.

Oggi è il 17 ottobre 2023 e purtroppo l’attualità ha preso il comando. Noi parliamo di giustizia trasformativa ed è già complicatissimo applicare questo concetto, che poi prevede delle pratiche, a realtà comunitarie ristrette per quanto numerose in termini di persone coinvolte. Allo stesso tempo, e parlare con voi mi sta aiutando moltissimo in questo senso, più vado avanti nella riflessione, più mi sembra che i concetti chiave in realtà siano molto semplici, è la loro applicazione che è complicata ed è complicata in virtù della disponibilità all’apertura delle persone coinvolte, della disponibilità, soprattutto, a rinunciare a costosissimi e antichissimi privilegi; l’applicazione è complicata in virtù dell’onestà intellettuale messa sul piatto del confronto o del conflitto.In questo momento sono già morte, di nuovo, migliaia di persone e le prospettive non sono per niente favorevoli a un processo di pace; parlare di giustizia trasformativa in relazione al conflitto tra Palestina e Israele mi sembra allo stesso tempo assurdo e necessario. Mi riesce impossibile però non notare come anche in questo caso ci sia una parte forte, Israele, e una debole, il popolo palestinese; mi è impossibile non notare come le tecniche di manipolazione della realtà e del racconto della storia siano le stesse di quando ci troviamo di fronte alla violenza di genere, per cui le vittime si travestono da provocatrici, per esempio. Mi è impossibile non notare come i diritti vengano messi sullo stesso piano dei privilegi e come la verità sia una parola vuota, manipolabile, strumentalizzata.Non è questa la sede per parlare di Palestina e di Israele, temo. Tuttavia, per me il discorso è sempre generale oppure non è. Non credo che si possa battersi per la giustizia trasformativa nei conflitti dentro le nostre case e pensare che tra popoli siano necessarie le bombe, le morti di migliaia di persone, se non credo al concetto in assoluto non credo più a niente. Ovviamente, la mia opinione, come di sicuro anche la vostra, è più strutturata, non nasce oggi, così come purtroppo non nasce oggi il conflitto in quell’area. Chiudo questa lunga parentesi. 
Riguardo al tema del lavoro che devono fare gli uomini, vorrei provare a spostare il fuoco. Prima di questo però voglio dire esplicitamente che condivido quanto avete espresso sul tema, per cui non voglio ribattere quanto piuttosto stratificare. È senz’altro vero che il lavoro di rinuncia ai privilegi è faticoso, mentalmente, culturalmente, collettivamente e individualmente. Non dobbiamo però trascurare il fatto che si tratta di un lavoro che porta dei risultati, inizialmente piccoli, forse addirittura minimi, molto presto. E che è un lavoro faticoso ma gioioso, non uso la parola a caso. È davvero una gioia uscire fuori dalla gabbia patriarcale e la rinuncia, pur faticosa, ai privilegi, è più che bilanciata in un primo momento dalla sensazione e poi, andando avanti, dalla realizzazione che un mondo diverso è a portata di mano. Cambiare sé stessi – parlo al maschile in questo caso – non cambia il mondo, ma cambia la percezione che se ne ha. Non è tutto, ma non è poco. Non sono la persona giusta per parlare di cameratismo, detesto anche solo l’idea. Però perfino io riesco a capire che può essere molto gratificante trovarsi in un contesto di associazione nel quale le persone si confrontano senza giudizi troppo severi (non ci sono donne, non ci sono persone comprensibilmente inviperite, ora, vogliamo dire che è faticoso ed è sicuramente vero, ma insomma, non esageriamo) e con l’obiettivo comune di stare meglio. A dirla così è il cazzo di paradiso. E magari nel frattempo uno si fuma una sigaretta, beve una bibita. Relativizziamo la fatica e andiamo avanti con ottimismo, coraggio e pure una certa velocità, che di tempo ne è passato tanto.  
Salto di nuovo di palo in frasca e chiudo, aspettando i vostri prossimi contributi: quello che dice Elena alla fine della sua ultima mail, in questo momento in cui l’ansia mi tiene meno mobile del solito, mi fa riflettere e lo ricopio 

Martedì 29 agosto, mio quaderno

L’imperfezione mi rasserena, mi dà margine, mi permette di dubitare, di ripensare, di decostruire, senza dover trovare una soluzione a tutti i costi. È prediligere la continuità di pensiero nell’immaginazione, l’aggiustamento delle posture, la preferenza dei puntini di sospensione alla cesura dei punti fermi.

Mi ricordo, durante la nostra prima conversazione, che si parlava del fatto di non ridurre tutto alle proprie esperienze personali. Se è vero che le nostre esperienze, i nostri corpi, pure esistono, trovo giusto uscire fuori dall’io e provare ad avere uno sguardo che sia il più possibile “noi”, il più possibile esteso. Non si tratta di dimenticare sé stess*, ma di andare avanti, per quanto possibile. 
Ricordo che proprio Elena aveva insistito su questo concetto, spero di averlo compreso. Se non è così ti chiedo scusa.  Qual è il punto, per me, in questo momento, alla luce anche della nostra conversazione che è infinita, non può finire, eppure finirà, per poi ricominciare da un’altra parte, magari senza di noi? Il punto è costruire margini, non solo starci dentro. Questa sensazione di serenità che Elena descrive mi sembra quella delle persone che sanno che la strada non è finita, che altri bivi si aprono dove sembrava esserci un vicolo cieco. In altri termini, è la sensazione, mi sembra, che siano ancora possibili delle libertà, dei cambiamenti, delle trasformazioni (ecco che il termine trasformazione ritorna). 

Vi ringrazio della pazienza e della comprensione che avete avuto in queste settimane. 
A vantaggio di chi ci leggerà, forse posso annunciare che il prossimo sarà l’ultimo scambio, non perché non ci siano molte altre cose da dire a proposito del libro di Giusi Palomba e a proposito dei temi che solleva, ma perché si tratta già di un testo molto lungo e il rischio è che diventi una cosa solo nostra, di nuovo, una cosa privata e non generale. Invece è giusto tenere presente che esistono altre persone e che non le possiamo “costringere”, ma nemmeno invitare, a leggere un testo così corposo. 

Buona serata a entrambe

Elena Garbarino, 20/10/2023

La trama alterativa

Ogni volta che devo iniziare a scrivere una risposta alle vostre riflessioni, Mara e Carlo, non solo leggo attentamente le ultime e-mail, prendendo appunti, sottolineando e ricopiando alcune parti, ma ho bisogno di ripercorrere nuova-mente la nostra conversazione dall’inizio. In quest’ultimo giro di rilettura, mi sono anche preoccupata di aggiustare un po’ le mie parole e apportare alcune correzioni: non vi preoccupate, è rimasto tutto com’era nei significati e negli intenti, tuttavia ho pensato che non fosse il caso di appesantire ulteriormente il fardello per chi legge con ripetizioni ed errori di battitura. Ad ogni modo, per come si è sviluppata tutta questa discussione non poteva che essere un banalissimo refuso a dare il là al flusso dei miei pensieri.

Infatti, è capitato che invece di scrivere il titolo del libro di Giusi Palomba in maniera corretta, l’ho ribattezzato “La trama alterativa”, perdendomi per strada una “n”.

  • ALTERATÌVO: agg. [dal lat. mediev. alterativus]. – Che serve ad alterare, che produce alterazioni (v. alterazione).
  • ALTERAZIÓNE: s. f. [dal lat. tardo alteratio onis]. – 1. Modificazione della sostanza o dell’aspetto di qualcosa, per lo più dovuta a falsificazione, contraffazione, adulterazione; 2. Parziale disturbo della funzionalità fisica o psichica.

“La trama alternativa” è alterativa: modifica e disturba, falsifica le certezze, agisce sui corpi e sulle menti. È una trasformazione, o un insieme di trasformazioni, proprio come scrivi tu, Carlo. Prova di ciò sono anche i numerosi interrogativi, dubbi e sentimenti contrastanti che abbiamo esternato nel corso della nostra conversazione.

Mi vorrei soffermare, ancora una volta e me ne scuso, proprio sulla forma di dialogo/epistolario elettronico che un po’ abbiamo deciso insieme come forma letteraria e in cui un po’ siamo incappat*, per evidenziare l’ennesima coincidenza che è venuta fuori nel corso di queste riflessioni.

Prima della presentazione del 12 maggio, ho lasciato in prestito la mia copia del libro in modo che le persone che avrebbero ospitato e partecipato all’evento potessero dare un’occhiata al testo, leggerlo, prepararsi al confronto con l’autrice. Mi ero, ovviamente, ricopiata e segnata tutti i passaggi rilevanti sul mio ormai celeberrimo quaderno, tuttavia la preparazione alla presentazione si è, per forza di cose, concentrata su una ricerca ai margini dei temi e delle problematiche affrontate. Mi sono imbattuta così nella trasposizione scritta di una conversazione (!) tra bell hooks e Maya Angelou, di cui ovviamente invito alla lettura integrale. In un passaggio, mentre le due donne discutono dell’importanza della letteratura nella formazione di una persona, in quanto attraverso la lettura si attiva l’immaginazione (!), Maya Angelou afferma che il suo pubblico di student*, dopo aver ascoltato e letto le parole delle autrici e degli autori proposti, «is a little bit changed», è un po’ cambiato: «I don’t know how long the change maintains, but if you have changed at all, you’ve changed all, at least for a little while» (“Non so quanto duri questo cambiamento, ma se un cambiamento c’è stato, allora tutto è cambiato, almeno per un po’ di tempo”; traduzione mia). Spero di non piegare parole altrui alla mia volontà, se interpreto il suddetto cambiamento come un’alterazione: una febbre dello spirito. E proprio come un’alterazione della temperatura corporea, affatica, disturba, infastidisce, irrita, impaurisce, stanca.

Così ritorno di nuovo alla nostra genealogia dei sentimenti, quelli brutti, per niente instagrammabili, da nascondere, ma soprattutto soggettivi. Abbiamo visto, ad esempio, come noi tre abbiamo declinato in maniera differente la paura: l’abbiamo messa in prospettiva, e mi auguro che questo, come dice Audre Lorde in Sister Outsider, abbia generato in noi un sentimento di resistenza («And I began to recognize a source of power within myself that comes from the knowledge that while it is most desirable not to be afraid, learning to put fear into a perspective gave me great strength»Audre Lorde, Sister Outsider, p. 41).

Ecco il motivo per cui “La trama alternativa” non è un manuale, un libretto delle istruzioni, proprio come scriveva Mara, perché prende anche le parti delle emozioni, quelle che per gran parte del percorso scolastico e accademico ci insegnano ad accantonare perché obnubilano la tanto agognata lucidità e oggettività accademica: «Ti incoraggiano a sfoderare la tua creatività, ti suggeriscono che puoi rovesciare le autorità, ma di fatto poi l’autentico insegnamento della struttura universitaria è di restare nei ranghi, rispettare le regole, sgomitare a destra e sinistra, senza mai mettere in discussione la verticalità e la gerarchia» (Filo Sottile, Senza titolo di viaggio. Storie e canzoni dal margine dei generi, Alegre, Roma, 2021, p. 340).

La trama alternativa/alterativa non innalza la sterilizzazione dei sentimenti a marchio di validazione delle proprie esperienze e del percorso che racconta, ma anzi rivendica lo spazio del lavoro interiore come forma di attivismo, la conoscenza di sé per l’altr* e attraverso l’altr*, il limite personale come occasione per appoggiarsi alla comunità, esattamente come dici tu Carlo, per avere “uno sguardo che sia il più possibile noi”. Bellissima frase, stupendo intento.

«Qual è il passo in più che garantisce che la comunità rivesta quel ruolo propositivo, necessario alla trasformazione, che a volte diamo per implicito nella sua definizione? Che sia quello necessario a disinnescare la violenza, ovvero la decisione di intervenire in uno strappo, di tramare – nella migliore accezione di co-spirare, «respirare insieme» – per ripararlo?» (Giusi Palomba, La trama alternativa, minimum fax, Isola del Liri (Frosinone), 2023, p. 226).

Devi sapere, Carlo, che Mara ed io abbiamo un po’ cospirato alle tue spalle, forse abbiamo fatto quello che tu chiami “cameratismo”: ci siamo confrontate anche al di fuori della nostra corrispondenza, ci siamo mandate le bozze dei nostri testi prima di lanciarli all’interno della conversazione che include anche te. A dirla tutta, e un po’ per pulirmi la coscienza, mi sono fatta lo scrupolo di tenerti escluso, e ovviamente di questo ne ho parlato con Mara (ops!). Le ho chiesto se secondo lei non fosse troppo evidente alla lettura il fatto che tante delle riflessioni fossero la prosecuzione di altrettante conversazioni, discussioni, confronti e domande che vanno avanti tra noi due da un po’ di tempo, senza soluzione di continuità, e che tu, Carlo, potessi risultare a volte il bersaglio di un fuoco amico incrociato, a volte un corpo estraneo rispetto a un lessico familiare costruito in molti anni. Come mi ha fatto notare Mara, probabilmente questa preoccupazione deriva solo da una sensazione mia, ma se anche ciò si rivelasse vero, non sarebbe un problema, perché mostrerebbe, ancora una volta, il processo creativo che interviene sugli strappi e intreccia insieme i fili della trama; che è un lavoro perpetuo, non dettato dalle contingenze o dalle occasioni, ma deve adattarsi ad esse, senza chiudersi e collassare sulle proprie certezze.

Non uso a caso la parola “lavoro”, perché di mezzo c’è la fatica, il travaglio, l’ingiustizia. Non credo nel “lavoro fatico ma gioioso”. Come facciamo a non esaurire le energie, a tralasciare noi stess*, la nostra salute e il nostro benessere mentre proviamo a trovare una soluzione? “Come mettiamo al servizio della comunità il nostro lavoro interiore?”, chiede Mara nella sua ultima e-mail. Perché se tutto dovesse ricadere all’interno dei ben noti meccanismi capitalisti di performance e produzione, allora avremmo fatto scattare la trappola, ci saremmo fatt* male. Inoltre, la domanda successiva di Mara apre ad ulteriori scenari rispetto a questo trabocchetto: “Quanto è frutto del privilegio poter fare attivismo?”, perché quello che per noi è attivismo, per altr* è sopravvivenza: noi lo stiamo prendendo come un privilegio, avere la possibilità di appoggiarsi a una comunità e attuare la giustizia trasformativa, ma per le cerchie di persone che l’hanno sempre praticate, la giustizia trasformativa è una pistola alla tempia necessaria per evitare la pistola della polizia, della società etero-normata ed etero-diretta, del capitalismo, del colonialismo, delle discriminazioni, eccetera.

«Così, usare il romanzo come si usa una rivoltella per difendere la pace, cambiandone il segno. Prendere dalla letteratura ciò che è ponte vivo [da essere umano a essere umano], e che il trattato o il saggio soltanto permettono fra specialisti. Una narrativa che non sia pretesto alla trasmissione di un “messaggio” (non esistono messaggi, esistono messaggeri e questo è il messaggio, così come l’amore è colui che ama); una narrativa che agisca come coagulante di esperienze vissute, come catalizzatore di nozioni confuse e malamente intese, e che incida innanzitutto su colui che la scrive, perciò è necessario scriverla come antiromanzo perché qualsivoglia ordine chiuso lascerà sistematicamente fuori quei segni che possono farci diventare messaggeri, avvicinarci ai nostri propri limiti dai quali siamo così lontani faccia a faccia» (Julio Cortàzar, Rayuela. Il gioco del mondo, Einaudi, Torino, 2015, 1^ ed. 1966).

Quello che possiamo fare noi, quindi, è acquisire consapevolezza – la capacità di sapere insieme – e da lì riconoscere le responsabilità che ci competono nel momento in cui occupiamo uno spazio, ovvero sempre. «Per questo anche le parole devono essere reinventate, immaginate a seconda dei contesti […]. Una delle parole chiave arrivate dagli Stati Uniti è accountability. È una parola che porta con sé tanti altri significati rispetto a responsabilizzazione […]. Accountability, per come è intesa nelle pratiche comunitarie, è comprendere che un dato comportamento ha avuto un effetto su altri esseri umani, è il riconoscimento di una responsabilità per quell’effetto ed è allo stesso tempo la capacità di prendere l’iniziativa, di fare parte del cambiamento necessario a evitare che questo comportamento si ripeta in futuro» (Giusi Palomba, op. cit., pp. 199-200).

Nella primissima e-mail Carlo si domandava: “Ha senso pensare a pratiche di giustizia trasformativa anche per questioni più comuni, per le relazioni con partner, figl*, padri, madri, collegh*, eccetera? Direi che farlo è parte integrante del processo, poiché non possono esistere gerarchie nelle relazioni tra persone, non può esserci relazione troppo “piccola” tale da poter essere tralasciata nella decostruzione dei meccanismi di potere. Solo dopo aver veramente compreso e applicato quest’ultimo concetto, secondo me, ha senso esprimersi sui macro-conflitti. È proprio qui che entra in gioco il lavoro interiore, poiché la consapevolezza non è una materia che può essere insegnata, inculcata, ma è l’impronta digitale del nostro modo di relazionarci con chi ci circonda, deve essere quindi un momento di creatività, liberato dalle catene del potere.

To be continued…

Carlo Martello, 24/10/2023

Buonasera a entrambe, sarò brevissimo in questa postilla. 

Innanzitutto voglio ringraziare Elena per il lavoro di riordino, grazie di cuore. Seguirò poi per il resto dello scambio le stesse regole, così da rendere uniforme il testo. Grazie davvero, sei stata preziosa. 

Vorrei poi porvi una domanda che mi è venuta alla mente: nel libro di Giusi Palomba si parla spesso di contenuti culturali che raccontano di pratiche di giustizia trasformativa; al di là del libro da cui partiamo, nel quale il discorso è molto compiuto ma riferito a prodotti per persone adulte, andrebbe fatto uno studio analogo rispetto ai contenuti culturali per bambin* e ragazz* ecco che ci accorgiamo che sono pieni di narrazioni di giustizia trasformativa. Pensiamo a come risolvono i conflitti i personaggi e le personagge Disney, pure non esattamente riconosciut* per progressismo, anzi, storicamente piuttosto reazionari*; pensiamo ai romanzi d’avventura o a quelli cosiddetti romantici (tutti i romanzi sono anche di avventura e sono anche romantici, ma vabe’, è un altro discorso), a come, in definitiva, ci hanno insegnato e a come noi stess* come cultura insegniamo alle bambine e ai bambini e alle ragazze e ai ragazzi, a risolvere i conflitti al di fuori delle istituzioni. Parimenti, bisogna considerare che invece, specie nei prodotti culturali adulti e specie nei prodotti cosiddetti di informazione, la spinta è invece opposta e va verso il legalismo. Tuttavia, trovo interessante che nell’età più creativa e ricettiva siamo immers* dentro storie, certo molto pacifiche, di risoluzione dei conflitti creative, spesso di vera e propria giustizia trasformativa e spesso di giustizia trasformativa comunitaria. 

Cosa ne pensate? 

Buona serata 🙂 

Elena Garbarino, 28/10/2023

Ciao Carlo,

mi sono presa un po’ di tempo per riflettere rispetto alla questione che hai posto, ma sono arrivata a un’unica conclusione, che ha ben poco di risolutivo: non saprei proprio da dove partire. Non ho un occhio attento né particolarmente allenato nei confronti dei prodotti culturali per bambin* e ragazz*, e difficilmente mi pongo il problema della loro educazione, dato che a malapena riesco ad educarmi io.

Ho provato a ricordare le trame dei film Disney (limito la mia riflessione a questa casa di produzione e quindi già parto da un campo estremamente ristretto e ben connotato dal punto di vista etnico, economico e politico) e a pensare in che modo esse proponessero rappresentazioni alternative, soluzioni creative e pratiche di giustizia trasformativa.

Un personaggio abbastanza sovversivo che mi è venuto in mente è Robin Hood, la volpe fuorilegge di Nottingham. All’inizio della storia, Robin Hood è già un bandito, vive nella foresta di Sherwood, quindi un luogo “anarchico” se confrontato al villaggio, fuori dalle mura e dal controllo dello sceriffo di Nottingham. Questa condizione di reietto e delinquente non è mai sanzionata nel corso della narrazione, né raccontata come infelice, anzi: “Robin Hood e Little John van per la foresta ed ognun con l’altro ride e scherza come vuol. Son felici del successo e delle loro gesta, urca urca tirulero, oggi splende il sol”.

Le gesta cantate di cui i due amici vanno fieri sono i furti nei confronti del patrimonio di Re Giovanni, non peraltro “ruba ai ricchi per dare ai poveri”. Un messaggio tutto sommato abbastanza eversivo, soprattutto nella cultura giudaico-cristiana in cui siamo immers*, c’è pur sempre la presenza di Fra Tuck a ricordarcelo. Tuttavia, non penso tutto ciò porti ad un’azione di giustizia trasformativa: Re Giovanni non rappresenta il potere canonico, bensì ha sfruttato la lontananza del legittimo re Riccardo per insediarsi; il primo atto di insubordinazione nei confronti di un sistema precostituito è il suo. Di conseguenza, al suo modo avido e despota di governare, Robin Hood diventa l’eroe fuorilegge. Infine, però, fa ritorno il legittimo proprietario del trono, re Riccardo, e tutto torna alla normalità. Così, anche Robin Hood sposa lady Marian, come era preventivato prima che tutto accadesse, e dunque ritorna a far parte del sistema.

Si richiude il Cerchio della Vita, per richiamare e introdurre un altro classicissimo Disney, Il Re Leone. Anche in questo titolo si nota un principio in cui c’è un ordine precostituito, quello del regno degli animali delle “Terre del Branco”, un despota (Scar) che rompe il cerchio e che comporta una rottura delle regole (Simba, cucciolo ma pur sempre predatore, fa amicizia con Timon e Pumba, prede), fino ad arrivare alla risoluzione del conflitto per tornare a ristabilire l’ordine iniziale.

Ora, non so se tu intendessi questi come possibili esempi di giustizia trasformativa.

Ci può stare che per quanto riguarda le rappresentazioni rivolte alle persone più giovani si tenda a voler mostrare e dimostrare che, se si incorre in un’ingiustizia, anche grande quanto un sistema, è possibile trovare una soluzione alternativa, però mi sembra che questa possibilità si apra quando lo status quo è minacciato, non per sovvertirlo.

So anche che gli stessi prodotti Disney sono cambiati, si sono evoluti anche riguardo alle tematiche sociali, le rappresentazioni, le diversità. Io ho portato due esempi datati, esattamente risalenti al 1973 e al 1994 (mio anno di nascita, per inutile cronaca). Però, insomma, queste sono le mie impressioni.

Hakuna Matata

Mara Surace, 29/10/2023

Una specie di grosso patchwork folle

Ciao a entrambe,

vi anticipo che questa mail risentirà molto della mia ultima lettura I sogni si spiegano da soli, una raccolta di saggi, conferenze e articoli di Ursula K. Le Guin, curata da Veronica Raimo. Abbiamo già accennato a Le Guin, poiché il suo racconto, “Quelli che si allontanano da Omelas”, è citato ne La trama alternativa.

Non penso che questa irruzione nel nostro già intricato epistolario archeologico sarà un problema. In questo “patchwork folle” a spezzare le catene della linearità sono state citazioni di altri saggi, oltre a quello di Giusi Palomba, romanzi, serie tv, pagine di quaderno, traslochi, attualità: le nostre vite scomposte.

Metto subito le mani avanti e ti dico, Carlo, che non mi è venuto in mente molto da dire rispetto al mondo Disney e quindi mi accodo semplicemente a ciò che ha scritto Elena. Abbiamo scritto di narrazioni e rappresentazioni televisive altrove e l’unica cosa che mi viene da ribadire è che difficilmente questo tipo di racconti ha una carica davvero sovversiva o trasformativa. Forse è anche ingenuo sperarlo, se consideriamo il sistema capitalistico in cui sono immerse le case di produzione e le piattaforme streaming. Il discorso sarebbe ampio, ma penso che Elena abbia risposto in modo esaustivo e sicuramente meglio di quanto sto facendo io.

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, p. 151

«Ho pensato: “Se devo riscriverlo un’altra volta, muoio.” […] Ho di nuovo il saggio per intero- non armonioso ed elegante, ma una specie di grosso patchwork folle.» 

Mentre ci rispondiamo, la forma di ciò che stiamo scrivendo (sempre se di forma si può parlare) sta cambiando: all’inizio mettevamo la data e il nome, come un diario; c’erano delle forme di saluto, che ora stanno svanendo e l’ultima mail di Elena sembra un piccolo saggio intitolato “La trama alterativa”. Abbiamo messo tutto insieme, spesso non riuscendo a rispondere alle domande che abbiamo posto e abbiamo deciso, forse con una certa inconsapevolezza, che avremmo contribuito alla continua riscrittura de La trama alternativa, facendo dialogare questa “trama” con tantissime altre. Sono sicura che le nostre idee hanno decantato a lungo, prima di essere scritte in questo scambio e penso anche che sia giunto il momento di imbottigliarle per non farle diventare aceto e di giungere, fuor di metafora, a qualcosa che assomigli vagamente a una conclusione.

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, pp. 133-137

«Qualunque sia stata l’idea dietro al racconto, ha continuato a fermentare nella vasta oscurità delle mie cantine mentali e ora è piuttosto inebriante, con un sentore deciso e un retrogusto complesso, come un buon Zinfandel del ’69. […]

È arrivato il momento di mettere il vino in bottiglia: se lo lasciate troppo nella botte diventa aceto e si perde. Io non voglio che si rovini. Voglio solo perdere il mito dell’eroe per ritrovare cosa sia degno di ammirazione.»

Penso a ciò che ha scritto Elena quando afferma che il libro di Giusi Palomba considera le emozioni, “quelle che per gran parte del percorso scolastico e accademico ci insegnano ad accantonare perché obnubilano la tanto agognata lucidità e oggettività accademica” e ancora mi viene in mente ciò che ha scritto Carlo: “Se è vero che le nostre esperienze, i nostri corpi, pure esistono, trovo giusto uscire fuori dall’io e provare ad avere uno sguardo che sia il più possibile “noi”, il più possibile esteso. Non si tratta di dimenticare sé stess*, ma di andare avanti, per quanto possibile”. 

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, pp. 111-117

«Mi sono ritrovata a pensare a quello che impariamo al college, e a quello che disimpariamo al college, e a come poi impariamo a disimparare quello che abbiamo imparato al college e a reimparare quello che abbiamo disimparato al college, eccetera. […]

La gente smania per l’oggettività perché essere soggettivi significa essere incarnati, farsi corpo, vulnerabili, violabili.»

Abbiamo avuto uno scambio incarnato, che porta nella scrittura un carico emotivo e anche corporeo, di fatica, di frustrazione, di paura. Le nostre riflessioni- spero che anche chi ci legge percepisca questa cosa- sono state soggettive, ma mai individualiste. Siamo partit* da noi stess*, abbiamo preso consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre fatiche, per poi “avere uno sguardo che sia il più possibile ‘noi”, come dicevi tu, Carlo. E quindi, ancora, sono andata a ripescare un passaggio da Le Guin che cita la formula di apertura di un racconto di origine nativo americana.

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, p 81

«La formula di apertura di un racconto cree è “un invito ad ascoltare, seguito dalla frase: ‘Cammino all’indietro e guardo avanti, come fa il porcospino’”.

Per poter ragionare tranquillamente su un futuro inospitale, forse faremmo bene a trovarci una fessura tra le rocce e ritirarci. Per trovare le nostre radici, forse dovremmo andarle a cercare dove di solito si trovano le radici.»

Credo che con questo scambio abbiamo fatto molto spazio nella nostra fessura tra le rocce, che è diventata un luogo collettivo. Una fessura per resistere e per immaginare un contrattacco: abbiamo costruito un margine, come dice Carlo. Lo costruiamo e reiteriamo lo sforzo di mantenerlo vivo ogni volta che possiamo; grazie a chi ci ha indicato la via, grazie alle nostre “dis-insegnanti” come, per me, è stata Giusi Palomba, grazie ai luoghi di cura e resistenza, come è per me la Libera Collina di Castello, grazie a tutti i corpi, alle idee e alle soggettività che lo attraversano e lo alimentano.

Non è più solo la trincea della mia scrivania e del mio computer. E quindi in questa fessura, che sta ospitando sempre più voci, persone e luoghi veri e immaginari, si sta creando una buona convivialità. C’è della musica. Si balla.

“La canzone dei lupi”, Coma Cose

“Tu dimentica ogni cosa in cui credi davvero, se cammini nel bosco non seguire il sentiero.

[…]

Dipende da quanto tu sia disposto a capire che col tempo tutto si addomestica, tranne i lupi, e noi.”

Elena nella sua prima mail ha scritto: “Il potere ricostruisce per annullare; la genealogia ricostruisce per creare”. Abbiamo cercato di agire nella communitas e non nella struttura. Il nostro scambio ha tentato di restituire una forma comune, senza struttura, senza centro. Nella tanta confusione e fatica, abbiamo “azzardato contorte vie laterali” guidati dalle “domande impertinenti” di Giusi Palomba (Le Guin, p. 87).

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, p. 88

«La struttura fornisce un modello, la communitas un potenziale; la struttura classifica, la communitas riclassifica […]. La communitas irrompe negli interstizi della struttura, nella liminalità; ai confini della struttura, nella marginalità; dal fondo della struttura, nell’inferiorità.»

L’archeologia che abbiamo svolto a partire da questa fessura tra le rocce non ha seguito un sentiero tracciato, ha avuto come guida il testo di Giusi Palomba, ma poi ha divagato e, più che farci perdere noi stessi, è stato una delle mine che hanno fatto vacillare il mondo come lo conosciamo, disinnescando dei meccanismi consolidati, sia interni (il poliziotto interiore di cui parlavamo), che esterni (il ricorso alle “forze dell’ordine” per risolvere problemi comunitari). Ora che ci penso, non ha molto senso distinguere interno ed esterno, perché, come più volte abbiamo detto, il lavoro interiore è già attivismo.

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, p. 73

«Per trovare un nuovo mondo forse bisogna averne perduto uno. E forse bisogna essersi perduti. La danza del rinnovamento, la danza che ha creato il mondo, è sempre stata ballata qui al margine delle cose, sull’orlo del mondo, sul litorale nebbioso.»

Ci vediamo là. Sul litorale nebbioso. Consapevoli delle nostre radici, capaci di prenderci cura del nostro margine e di noi stess* e capaci di immaginare alternative, o, per lo meno, sempre pront* a ricordarci che dobbiamo riuscire a immaginare.

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, p 101

«Eppure è quella la società che voglio riuscire a immaginare, che devo riuscire a immaginare, perché non si può andare avanti senza la speranza.»

I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, Ursula K. Le Guin, p 110

«E quando fallirete, e vi sentirete sconfitte, nella sofferenza e nell’oscurità, allora spero vi ricordiate che l’oscurità è il vostro paese, dove vivete, dove non ci sono guerre da combattere né guerre da vincere, ma dove esiste il futuro. Le nostre radici affondano nell’oscurità, è la terra il nostro paese.»

λαβών γάρ ἐλάτης οὐράνιον ἄκρον κλάδον,

κατῆγεν, ἦγεν, ἦγεν ἐς  μέλαν  πέδον

[infatti, afferrata la cima di un ramo di abete che toccava il cielo,

lo tirava giù, giù, giù, fino alla terra nera]

(Euripide, Baccanti, vv. 1064-1065)

Carlo Martello, 15/11/2023

Buongiorno a entrambe 🙂 

Non che la cosa debba entusiasmare anche voi, ma ieri ho finalmente traslocato. Restano da fare decine di cose, è una casa praticamente inagibile al momento, ma ci siamo, ora è tutta discesa. Spero di potervi invitare presto ufficialmente per prendere un tè, una bibita. 
È stato il trasloco più assurdamente pazzesco della mia vita e ne ho fatti tanti. Vi dico solo che sono venuto al lavoro a riposarmi 😀 

Vengo al nostro dialogo su La trama alternativa. 

Come vi ho scritto via chat, vi sono grato di questa collaborazione. Senza il vostro contributo non sarebbe accaduto nulla, perché l’idea si è incastrata con una serie di altre cose e il mio apporto è stato deficitario, come sapete. Insomma, in altri termini, credo che il risultato finale sia interessante, strano nel senso positivo della parola, generoso, debordante e potenzialmente dà il via a tantissime riflessioni, spunti, discussioni incrociate. Tutto questo è soprattutto merito vostro. Siete state formidabili, ma non avevo dubbi. Grazie davvero. 

Spero che chi vorrà leggere tutto lo scambio o alcune sue parti potrà trovare delle strade alternative, come abbiamo provato a fare noi. Spero anche, e non è per niente un dettaglio, che Giusi Palomba possa ritrovare un po’ dello spirito che anima il libro straordinario che ha scritto. 

Infine, il lavoro non è concluso, lo sappiamo, e mi riferisco sia a questo scambio di mail che avrebbe potuto essere condotto per settimane, mesi, sia al lavoro politico individuale e collettivo che ciascun* di noi, compresa l’autrice del libro e compres* chi vorrà leggere, compie ogni giorno, secondo le proprie rispettive possibilità. Non è detto che non si possa riprendere in futuro questo scambio lì dove abbiamo deciso di interromperlo per permetterne la lettura. 

Grazie ancora. Vi abbraccio virtualmente con moltissima stima e gratitudine. 


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