Testo: Manuela Montanaro
Immagine: Pensar es un hecho revolucionario – Buenos Aires – Chiara Casetta
Davo i bambini al garzone del latte.
Era poco più di un ragazzino pure lui, me lo ricordo bene con quegli occhi di lago e i capelli troppo corti per gli inverni in Germania.
Lui infilava le cassette del latte impilate nel retro del piccolo furgone, poi montava accanto al guidatore e le bottiglie vuote e i bambini, nascosti, uscivano dal campo.
E finalmente non li vedevo più.
Conobbi il dottor Albrecht in un pomeriggio di sole. I gruccioni avevano preso a litigare spargendo vibrazioni turchesi tra gli alberi. Tutto intorno mi sembrava meraviglioso e stonato. La primavera se ne fregava delle grida del campo, dell’odore di bruciato dalla mattina alla sera e del grigio cenere posato su ogni cosa. Quella veniva e basta e urlava bellezza dai primi sussurri dei passeri fino ai grilli eterni della sera.
Joseph Albrecht era già nella sala incubatrici quando arrivai.
Era vecchio. Lo era diventato di colpo. Le rughe erano quelle che ti disegna un dolore mai raccontato, i capelli si erano marezzati troppo presto e gli occhi brillavano di una malinconia lieve.
– Sono Joseph Albrecht, signorina. Tedesco da undici generazioni, medico chirurgo, specialista in neonatologia, esperto in genetica.
Lo disse così, tutto d’un fiato, quasi a volersene liberare.
Poi i due generali alzarono il braccio e uscirono.
– Mi chiamo Gertrude Weber, felice di assisterla dottor Albrecht.
Passeggiò tra le incubatrici.
Tre sospiri per ciascuna. Per qualcuno di loro pure quattro.
– Immagino che tu non sia una madre, mi sembri molto giovane.
– Non lo sono, infatti.
– Bene, questo semplificherà le cose.
– Sono pronta a servire la medicina e lo Stato.
– Va bene. Dimmi quali pazienti sono più gravi.
– Questa bambina è nata di otto mesi, respirava male, è un po’ migliorata ma perde peso da due settimane, ormai. E poi il maschio itterico, non guarisce.
– Perfetti, questi andranno bene. Spostali davanti, qui.
– Sì.
– Gli altri sei come stanno?
– Stanno bene, il latte arriva ogni giorno e cerco di allattarli sempre allo stesso orario.
Continuò a farmi ancora domande sulle giornate in laboratorio, sull’attrezzatura disponibile, sui turni della mensa e poi mi chiese l’orario in cui veniva consegnato il latte.
Tornai nella mia stanza nel settore diciassette, quella sera, con la sensazione che qualcosa stava per cambiare per sempre.
Il mattino seguente lo trovai già in laboratorio poco dopo l’aurora. Il latte era stato consegnato, le bottiglie vuote restituite.
Albrecht controllava la pressione dei bambini sani.
– Dottor Albrecht buongiorno. Il colonnello Schmitt fece vibrare la mano destra verso l’alto.
– Colonnello Schmitt.
– Dottor Albrecht lo Stato si aspetta grandi cose dai suoi studi. Quando saranno pubblicati potremo dimostrare che tutti questi bastardelli sono scientificamente, come dire, diversi dai bambini tedeschi. Le evidenze genetiche rafforzeranno la politica sana e giusta del Führer e tutte le idiozie degli ultimi romantici che sostengono questo disgustoso mescolamento delle razze saranno solo un inutile ricordo.
– Ci vorrà del tempo. E ci vorranno molti campioni.
– Il tempo non è un problema. Quanto al campionamento, queste puttane ebree sono sempre calde. Le zingare poi… Arrivano già gravide. Stia tranquillo.
– Lo sono.
Quando il colonnello uscì, il dottor Albrecht si infilò i guanti, prese una lama di bisturi, la innestò su un portalama, mi chiese di prendergli delle garze e un filo da sutura.
Si avvicinò alla bambina prematura, premette la lama contro la coscia della piccola che gemette appena, disegnò un quadratino minuscolo e prelevò un frammento di cute. Tamponai il sangue, usciva lento ma usciva continuamente. Vidi passare il filo della seta nera tra la pelle floscia e i capillari violacei. E alla fine non vidi più neanche una goccia.
Mise il pezzettino di cute in una provetta.
Poi si tolse i guanti, si sedette e si passò le mani sugli occhi.
– Gertrude hai mai perso qualcosa, qualcuno a cui tenevi?
– Dottor Albrecht io…
– È una domanda inopportuna, perdonami.
Mi misi a lavare il portalame e le forbici.
E poi li feci bollire.
I sani avevano iniziato a piangere per la poppata mattutina.
Scaldai il latte e riempii quattro biberon.
Allattai i primi due, gemelli di quattro mesi. Il più magro mi rigurgitò un po’ sulla camicetta.
– Mi dispiace Dottor Albrecht, mi cambio subito.
– Non si preoccupi.
Mi cambiai la divisa e lo trovai che allattava una bambina di poche settimane, sembrava quasi che stesse sorridendo.
– Il mio fidanzato è disperso. Non ci voleva andare al fronte. Dovevamo sposarci un mese dopo lo scoppio della guerra. Non l’ho più visto dal giorno che si è infilato la divisa ed è partito senza dirmi niente. Non lo so se questo significa aver perso qualcuno ma in un modo o nell’altro questa guerra ha tolto molto a tutti.
Joseph Albrecht alzò la testa e guardò oltre il vetro della finestra, guardò oltre il filo spinato e oltre gli alberi, mi parve che il suo sguardo si spingesse fino alla città e poi oltre, fino al confine e poi ancora fino alla costa francese dove poteva vedere l’oceano che io avevo solo immaginato.
E mentre teneva lo sguardo dritto al mare mi raccontò di quella sera, stava bevendo al bancone con la sua compagna di specializzazione e suo fratello più piccolo. Ridevano e lei fumava toccandosi qualche volta i capelli e buttando la testa indietro, era bellissima, mi disse, ed era felice. Era una serata come tante, fatta di chiacchiere, canzoni e sigarette dopo un turno lungo in ospedale. Mi raccontò che si accorsero delle guardie tedesche solo quando gli furono alle spalle e gli chiesero i documenti. La sua compagna iniziò a tremare e il documento le cadde dalle mani. Cercò di raccoglierlo ma lo stivale del soldato lo schiacciò prima e le ruppe un dito.
Uno dei due la portò fuori e la caricò su un camion. Albrecht mostrò il suo documento di tedesco da undici generazioni e disse che il ragazzo lì accanto era suo fratello e aveva dimenticato il documento a casa. Così la bugia di Joseph Albrecht e i capelli color albume del ragazzo, così simili a quelli del giovane medico, salvarono la vita di Natan Grossmann.
Ma di Lili Grossmann non si sentì più parlare, né mai tornò al suo corso di pediatria né mai fu medico e madre.
– Gertrude questi bambini devono vivere.»
Alla fine del racconto li guardò tutti insieme.
– Sono solo bambini nati nel posto sbagliato, lo capisci anche tu vero?
Io non sapevo cosa dire. Certo che lo capivo che erano solo neonati, certo che capivo, ma ero solo un’infermiera al servizio del reich e quella era la guerra e io avevo paura.
– Dottor Albrecht sono ai suoi ordini, lei è il medico e il capo di questo laboratorio e io farò tutto quello che mi indicherà. È lei che decide.
– Gertrude i bambini devono uscire dal campo. Noi li faremo uscire dal campo, uno per volta, uno al giorno, magari non tutti i giorni.
So che hai paura ma possiamo farcela. Io ho bisogno del tuo aiuto per salvare questi neonati e tu me lo darai. So che puoi farlo. Sei una brava ragazza e hai amato pure tu ma voglio dirti un’altra cosa: se provi a tradirmi non ne uscirai viva. Dirò ai tedeschi che i bambini li facevi uscire tu, che mi drogavi con la morfina quando scopavamo e al mattino portavi via i neonati. Dirò che sei una donna in età da marito, col cuore tenero di una madre mancata. Crederanno a me, lo sai anche tu, perché sono un medico, perché sono tedesco e perché sono un uomo.
Iniziammo a far uscire i bambini il giorno dopo.
Al neonato prescelto mettevamo un po’ di Veronal sbriciolato sotto la lingua e poi facevamo una piccola dose di morfina per farlo dormire per tutto il tragitto. Poi lo infilavamo nella prima cassetta di latte, quella che stava sotto, e lo coprivamo con un piccolo lenzuolo e cinque bottiglie vuote. Sopra inserivamo un altra cassetta di bottiglie di latte vuote e alle sei e trenta in punto consegnavamo il carico.
Il garzone del latte era Natan Grossmann.
Una volta un bambino, a qualche passo dal furgone, si mise a piangere e Natan dovette inventarsi una tosse parossistica per evitare di essere scoperto e ammazzato per la seconda volta.
– Gertrude tu hai esperienza di tecniche di imbalsamazione?
Un giorno me lo chiese così, senza che io potessi capirci nulla.
Il giorno dopo, in effetti, la bambina prematura morì. Non potevamo perderla. Altrimenti avremmo dovuto trovare altri bambini vetrina per i tedeschi. Bambini destinati a morire che venivano sacrificati per poter far uscire gli altri.
Bambini malati che quando morivano dovevano continuare a sembrare vivi.
Li imbalsamavamo. A volte con iniezioni di arsenico, quando potevamo con la formaldeide. Alla fine, li lavavo e li risistemavo esattamente nella stessa posizione in cui erano prima di morire.
Accoglievamo nel laboratorio dai cinque ai dieci bambini al mese. Li controllavamo, li schedavamo e poi gli cambiavamo d’abito, li dichiaravamo morti e intanto li mettevamo sul furgone del latte. Joseph Albrecht faceva dei giochi di prestigio pazzeschi per confondere i Tedeschi e inventava migliaia di dati su cromosomi atipici e variazioni geniche. Di notte chiedeva il Pervitin al soldato di turno e compilava lunghissime relazioni sull’inferiorità genica degli Ebrei. Non ricordo di averlo mai visto dormire.
Tre volte a settimana guardavo negli occhi il garzone del latte, lui ricambiava lo sguardo e un bambino usciva da Flossenbürg per sempre.
Per molti mesi me ne stetti zitta. Poi una sera, mentre fumavamo tra le lucciole e il fresco dei faggi chiesi che fine facessero i nostri bambini. Joseph Albrecht mi raccontò che venivano affidati a famiglie contadine della zona. Donne tedesche, di poche parole, che vivevano in sperdute fattorie tra le montagne, che non facevano domande e allevavano i bambini come vitelli da custodire per la fine della guerra.
Una volta al comandante Karl Künstler venne il capriccio di seguire un esperimento, perciò dovemmo praticarlo davvero su un bambino sano perché i tre o quattro imbalsamati che tenevamo da esporre in caso di controllo, non avrebbero sanguinato e un bambino vivo deve sanguinare.
Mi venne voglia di urlare quella volta ma continuai a stare zitta per molti mesi ancora.
Nel febbraio del 1945 Joseph Albrecht morì.
Mi piacerebbe dirvi che morì mentre dormiva, dolcemente, come accade agli uomini giusti.
E no, non fu nemmeno giustiziato perché né io, né mai nessun altro lo tradì.
A metà mattinata di un giorno qualunque uscì dal laboratorio, scivolò su una lastra di ghiaccio che aveva ricoperto i due scalini che portavano al vialetto di uscita, produsse un tonfo potentissimo con la sua nuca a contatto col suolo gelido e in pochi secondi chiuse gli occhi e morì.
Io ero due passi dietro di lui.
I suoi studi furono pubblicati e qualche settimana dopo la sua morte, sebbene il Reich vacillasse, gli fu concessa una somma onorificenza e una medaglia per l’impegno profuso in ambito medico a favore della causa del popolo tedesco.