di Serena Votano
Copertina di Francesco Pavignano
Stavo ragionando sul fatto che la foto scelta per il curriculum è già un po’ vecchia. Anzi, no. È troppo giovane.
Avevo da poco messo a punto il mio primo curriculum, avevo indossato una t-shirt e una giacca nera elegante, mi sentivo professionale ma sobria. Tre pose: una a braccia incrociate, una con un libro in mano e una con una mano appoggiata sul fianco. La terza è stata la prescelta.
È di due anni fa, in realtà, ma da quando ho scattato quella foto ho cambiato pettinatura tipo tre volte e allora forse è il caso di rifarla. Ma avevo già perso 5 chili, rispecchia il mio volto e tanto mi basta. E stavo pensando che nelle foto dei curriculum abbiamo lo stesso sorriso, la stessa espressione divinatoria dei necrologi. In effetti, non è un caso.
Piego a metà la mia copia cartacea del curriculum, ormai inutile, tra le pagine dell’agenda e suono il campanello.
Ho un po’ d’ansia. Sono sola, in sala d’attesa. Io e l’orologio che batte i minuti, i secondi.
Quando la dottoressa mi invita a entrare, appendo la borsa della sedia. Mi siedo sul bordo, un po’ tesa, pronta a scattar su. Superata la fase di accettazione, tutto dipende dal risultato del test.
«Ma hai mai donato prima?» chiede la dottoressa.
«No. C’ho provato una volta, a diciotto anni, ma non ho potuto. Avevo da poco fatto il secondo buco all’orecchio.» Accavallo le gambe.
«No, certo.»
Apre una cartellina, sul bordo riconosco il mio nome. Domande di rito: «Sei nata a… il… gruppo sanguigno…». Accenno tanti piccoli “Sì”. «Sei al limite con l’emoglobina, ma gli altri valori sono a posto. Avevi avuto il ciclo o ti è venuto poco dopo le analisi?» Mi osserva, mi studia.
«Sì, ho fatto le analisi una settimana dopo l’ultimo ciclo.»
E questo mese? Mi sono venute?
«Non posso farti donare…» Contrariata, studia ancora una volta quel risultato, un insieme scomposto delle mie speranze, i valori che determinano il mio ennesimo fallimento. «Non posso farti donare, alla seconda sacca rischi di svenire…»
Deglutisco. Alza gli occhi dal test e inizia a studiare me.
Gli occhiali che indossa hanno una lente spessa, sembra quasi che abbia gli occhi più grandi. Ne riconosco le sfumature grigie e l’iride nero.
Tiro su le maniche del maglioncino. «Ma io voglio donare…» riesco a dire. Solo questo.
La guardo negli occhi, sento il peso di un rifiuto che quasi mi spezza. Non era una questione di vitale importanza, ma uno stupido bisogno di sentirsi importante per qualcuno, sentire di fare del bene e sapere di stare al mondo per fare qualcosa di buono. Io e il mio stupido ego pronto a demolirmi al prossimo “No”.
Mi osserva i polsi, sguardo inquieto e giudice: «Ma quanto pesi?».
«53.»
«Anche questo è al limite. Ma tutto sommato potresti…»
Una minima speranza a cui aggrapparsi.
«Dai, sali sulla bilancia. Confermiamo il peso e ti faccio donare.»
E sì, un brivido di contentezza. Ci sono quasi.
Slaccio e la scarpe ma la dottoressa mi ferma: «Puoi salire così, tolgo un chilo tra scarpe e vestiti».
Quando sono entrata non l’avevo neanche notata, la bilancia. Una di quelle a colonna, con l’altimetro. L’equilibrio che vacilla, come il mio umore. Son felice, poi impaurita, sempre più confusa dai meccanici spostamenti. La dottoressa si sposta verso il 53 ma la tacca non si ferma, scende di poco. 51 e mezzo.
«Pesi 51 e mezzo con i vestiti.»
È un no. Fermo. Non ho altre possibilità. La mia piccola speranza, ormai in fiamme, viene riposta nella cartellina e consegnata nelle mie mani. Numeri che dicono: errore.
Ripenso all’ultima volta che mi sono pesata, forse due o tre mesi fa. Era prima di iniziare a lavorare. E il ciclo? Mese scorso l’ho avuto, credo. Ma non ricordo il giorno.
Forse ho un ritardo, al massimo una settimana.
«Sotto i 50 chili non va bene per la tua altezza, lo sai?»
Sotto la lente del giudizio, stringo al petto il risultato del test.
«E quindi mi hanno detto di tornare tra qualche mese, magari più in là ci sarà un posto libero.»
Forchetta in mano, recupero il coltello. Divido la pizza in due metà, e poi ancora.
«Seria?»
«Sì, scartata anche come barista.» Sposto i capelli dietro le spalle, aspetto che Valentina dia il primo morso alla sua Diavola.
«E in quella profumeria?» In una mano la pizza, nell’altra il tovagliolo, mentre il rossetto di lei inizia a sparire. Mi ha proposto di incontrarci e io non avevo voglia di parlare dei miei problemi, ma sentivo il bisogno di una tregua da me.
27338 curriculum inviati, 0 risposte. Non importa, dovrò provarci ancora. Sono nata per resistere.
Le chiedo se vuole assaggiare un po’ della mia pizza, le do un pezzo e ritorno a mangiare. Levo la rucola da una fetta. In televisione passano il video dell’ultima canzone dei Maneskin, ma l’audio è spento. Poche persone, il vociare discontinuo lascia spazio al rumore delle posate che grattano i piatti.
Bruciano le gengive e continuo a masticare nervosamente. Vorace, affilata, sento che la fame sta prendendo il sopravvento e ho paura di non riuscire a fermarmi.
«Forse è arrivato il momento di ammettere che non ce l’ho fatta, non ho svoltato.»
L’ultimo lavoro, in una redazione giornalistica, era arrivato al capolinea. Dopo 9 mesi, nessun contratto, nessun aumento. Partita Iva, orari impossibili, lavori su lavori.
«Reb, tu non sei una codarda.» Sospira.
Ho mollato. Alla fine non ce l’ho fatta. Lavorare un giorno in più in quella redazione avrebbe significato schiacciare ancora di più il mio ego, affossare l’autoconsapevolezza – già debole – delle mie capacità.
«E, invece, sei andata a donare il sangue?»
Resto in silenzio. Chiusa nelle mie insicurezze, l’inerzia assopisce le mie speranze. Con la forchetta punzecchio la mozzarella tirandola via, lontana dal prosciutto.
Il rumore di una posata caduta a terra distrae i nostri sguardi. Il signore, seduto al tavolo accanto, si alza per raccogliere una forchetta. Accanto a lui, una bambina. Sei anni, o forse cinque. È sua figlia. Lei, imbronciata, stacca le patatine dalla sua pizza. Mangia solo quelle. Stanno in silenzio, mi chiedo perché non si parlino.
«Sì, la dottoressa mi ha detto di mangiare due pasticcini al giorno e di ritornare a settembre. Come no.» E dentro di me so che ho tutta la voglia di farlo. Mangiare e mangiare, sentirmi piena ma mai sazia. Non capisco cosa sia tutto questo vuoto che sento, questo bisogno di riempirmi e sperare di scoppiare ma non riuscirci, mai, mai.
E allora serve fermarsi un attimo prima, concedersi un gioco o una distrazione simile al gioco. Dicono sia normale sentirsi un po’ persi, nelle difficoltà. Non riuscire a inventarmi un futuro, da quando ho mollato il lavoro, mi sembra l’unico appiglio che mi mantiene in vita. Un impegno che ha annullato tutto il resto, la diretta conseguenza dell’egoista scelta di dovercela fare da sola. Ma con quali forze?
Così ho sentito di voler essere necessaria al mondo, che era arrivato il momento di fare la mia parte. Perché cercare il proprio posto vuol dire saper cogliere le occasioni al momento giusto; io, invece, credo che un sogno, se reale, vada inseguito fino in fondo.
Era questo personale “credo” che mi aveva spinto a non mollare il lavoro alle prime difficoltà. Mi ero detta che era normale avere dei giorni “no”, anche in ufficio. Mi ero detta che il prezzo da accettare per il mio futuro non era di certo la salute. Un pensiero banale ma allo stesso tempo essenziale.
Credo che quando non puoi salvarti la vita da sola, cerchi di salvarla agli altri, per poi scontrarti con la dura evidenza.
«Perché, quanto pesi?»
«Io? 52.»
Mentire. Mentire come una tossica, dipendente da quel vuoto nello stomaco. La osservo mentre spezza la pizza tra le mani, mangia con gusto fino al bordo che abbandona miseramente nel piatto. Mi disgusta.
Perché si sentono tutti autorizzati a farmi pesare il fatto che io non pesi? In che modo, questo, dovrebbe aiutarmi?
Al mattino il caffè sostituisce ogni sana colazione. Uno yogurt, al massimo. Senza lattosio, il più leggero possibile.
Pranzo o cena, qualsiasi pasto, sempre sotto i 50 grammi, per me che son già sotto i 50 chili. Mai uno spuntino, mai sgarrare. Tranne durante il premestruo. Il periodo in cui tutto mi è permesso. E tranne la sera, quando sono sola. Quando nessuno può vedermi. Mangio qualsiasi cosa, senza ordine. Dolce, salato, frutta. Prima il croccante, per sciogliere i nervi. Poi le creme, per consolarmi. Ignoro i segnali del mio corpo e mangio. Qualsiasi cosa di vagamente commestibile va bene, purché io possa sentirmi sazia e piena. E poi, eccolo. Il coro di voci pronto a mortificarmi, a spezzarmi.
Perché non sento mai di aver fame, sento di essere nervosa, arrabbiata, piena di odio nei confronti della versione impotente di me. Debole.
Poso la forchetta e bevo un bicchiere d’acqua. Valentina ha scelto una birra rossa, da quanto tempo non ne bevo una?
Qualcuno, lì in pizzeria, sta fragorosamente ridendo. Del mondo, del lavoro. “Ride di me” penso.
«Posso prendere il piatto?» chiede il cameriere. Non l’ho sentito arrivare ma è alle mie spalle.
«No, no, la finisco.» Abbozzo un sorriso di cortesia.
«Non le piace?» continua, distratto. Si guarda intorno e controlla il tavolo accanto.
“Sì che mi piace. Da pazzi. Non posso, non posso continuare a mangiare. Non devo.”
Il cameriere passa oltre, Valentina sbircia le ultime notifiche dei messaggi su Whatsapp.
«Sono le nove di sera e ancora ricevo mail di lavoro, ti sembra giusto?»
Quei bordi abbandonati, nel piatto di Valentina, sembrano richiamarmi. Attirarmi.
“Sei gonfia, sei pesante. Ma quanto pesi? Hai preso un chilo e hai ancora fame. Ma se vuoi puoi mangiare ancora. Solo una cosa, scegli. Lo sappiamo che vorresti mangiare tutto, ma proprio tutto.”
Ho voglia di mangiarli.
“Se va al bagno, prima che il cameriere ci porti via i piatti, posso prenderne un po’, solo un bordo. Non se ne accorgerà mai. Quale pazza sclerata può rendersi conto che manca un bordo, solo uno, dal suo piatto?”
E punto al più piccolo, innocuo, pezzo di pizza abbandonato. Ma sento gli occhi di tutti gli altri clienti, in pizzeria, su di me. Inizio a sentirmi accaldata.
La bambina del tavolo accanto mi osserva, mi scruta. Giudica la mia pelle, i rotoli sulla pancia che le maglie larghe non nascondono, la circonferenza del mio braccio che non riesco a rinchiudere tra pollice e indice. Appoggia i gomiti sul tavolo, il movimento fa cadere la forchetta. L’uomo, il padre della bambina, volta lo sguardo verso di me.
Valentina mi aiuta, prende la forchetta e la posa tra il mio e il suo piatto.
La bambina ha smesso di mangiare, le patatine sono finite.
È la colpa, sono i chili in più. È la bilancia che domani riderà di me. Dei miei continui tentativi di scoprirmi più magra. Ogni mattina, lì. Mi giuro che non mangerò, adesso basta.
“Se ti fermi, se non ricominci, poi è più facile smettere magari per sempre. Un chilo, devi perdere soltanto un altro chilo.”
Sentire la fame e bere un caffè per annebbiare la sensazione, sostituire il desiderio del cibo con le sigarette, le caramelle senza zucchero, le gomme da masticare. L’acqua, il tè o le tisane, mai altro. Qualsiasi cosa pur di diventare più sottile, fino a sparire. Andare a dormire e saltare la cena. Un pasto al giorno è più che sufficiente.
Accarezzo la fronte, asciugo lacrime di sudore. Quei bordi nel piatto di Valentina si fanno grandi, sempre più grandi. Son pezzi di pizza che lievitano, s’ingrossano come le fette di pizza nel mio piatto che sembrano moltiplicarsi, farsi sempre più grosse. Un cuscino di grassi, carboidrati che a stento riesco a contare, che non riuscirò mai a smaltire.
E mi chiedo perché non sono rimasta a casa, perché non sono uscita dopo cena. Perché non sono già andata a dormire. Che se andassi in bagno adesso non riuscirei mai a vomitare. Mi si è chiusa la gola. Non posso parlare di tutto questo a Valentina.
La osservo mentre afferra l’ultimo pezzettino di pizza. Sente il mio sguardo su di lei e cerca i miei occhi.
“Hai mangiato?” ha sostituito anche il più misero dei “Come stai?”. Soprattutto adesso che sono senza lavoro. Ma non gliene faccio una colpa. Perché sì, ho mangiato. E poi ho cercato di vomitare. Ho digiunato. Mi sono ingozzata. Ma va tutto bene, lo so. È tutto sotto controllo. Domani manderò altri curriculum. Domani andrà meglio. Piccoli bocconi, cinque volte al giorno.
«E quindi non ti hanno fatto donare?» Ritorna a me, alla fatale domanda.
«Non ho potuto.» Mi guarda interrogativa. «Per il peso.»
Nei suoi occhi, una maldestra pietà.
«Non ha tutti i torti, non credi?»
Gratto via l’umida etichetta della bottiglia.
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