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MY$$ TAKKEGGIO
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 12/12/2023 0 Comments 13 min read
M.C. - intervista all'autore Ferruccio Mazzanti Previous Scatola d'uova Next

di Luca Skuyatulek
Copertina di Martina Dirce Carcano

Per impezzarti, la prima volta, ti ho chiesto se avevi da accendere, anche se non fumavo. Non importava, dovevo conoscerti. Nell’aria densa, carica di fumo, fuori dal cinema dove avevamo fatto l’assemblea di istituto, mi sono fatta largo tra le creste verdi, le a cerchiate bianche sulla vinilpelle dei chiodi, per venirti a chiedere se avevi una paglia. Ce l’avevi.
Nonostante la mia timidezza, non potevo non conoscerti dopo quello che avevi detto in assemblea. Qualcuno, per raccattare dei voti alle prossime elezioni dei rappresentanti di istituto, aveva proposto che anche per noi sfigati dell’artistico si sarebbe potuta stipulare una specie di Galvani Card, una carta (che all’epoca avevano solo gli studenti del liceo classico più prestigioso della città, “quello di Pasolini”) per avere degli sconti nei baretti e magari nelle mesticherie. C’era stato molto entusiasmo per questa proposta, ma a un certo punto dalla folla seduta nei seggiolini ti eri alzata tu, capelli arancioni, i ricci delle ascelle che uscivano dallo smanicato, jeans corti e calze a rete e avevi detto: «scusate, cioè, se io ho bisogno di una cosa me la taccheggio.»
Erano volati fischi, applausi, ti avevano subito strappato via il microfono e tu ti eri rimessa a sedere come me se non fosse successo niente. Ma qualcosa era successo: avevi conquistato il mio piccolo cuoricino fragile.
La sigaretta (o, come avevo detto io cercando di essere più figa, “la paglia”) me l’avevi data subito, senza battere ciglio, con una generosità immediata e senza calcoli che, negli anni tabagisti che per me cominciavano in quell’istante, avrei incontrato raramente.
Non sono mai stata coraggiosa, e le poche cose coraggiose che ho fatto (o meglio, quelle che la gente, vedendomi da fuori, dice essere state coraggiose) le ho fatte sempre contro i miei istinti, contro di me, cercando di distruggere quella parte di me che è tanto carina, premurosa e incredibilmente fifona. Quella mattina non è stata solo la prima volta che ho fumato, ma anche la prima volta che ho fatto questo assalto a me stessa, che ho cercato di incrinare il ghiaccio dentro il quale sembravo essere intrappolata e l’ho fatto con queste stupidissime parole, buttate fuori senza pensarci un attimo di più, perché quell’attimo di più mi avrebbe fatto deglutire e scappare via: «ti stimo tantissimo per quello che hai detto.»
Devo averlo pronunciato tutto d’un fiato, devo essermi mangiata le parole, perché ti sei messa a ridere. Ma non in modo cattivo.

Ci siamo ritrovate a un’occupazione, tipo un mese dopo l’assemblea. Mi avevano messo a fare la guardia, che magari suona strano. Dovevo girare per tutti i piani dell’artistico e controllare che nessuno andasse in coma etilico. Sono scesa fino alla piscina e ho visto che te ne stavi con altre quattro ragazze appollaiata su un muretto del cortile interno accanto al corridoio che portava agli spogliatoi. Quando mi hai visto hai fatto un cenno alle persone che erano con te, come per farle stare zitte. Ho pensato subito che magari le stavi dicendo di mettere via l’erba e invece hai gridato verso di me: «Ce l’hai da accendere? Ti diamo un tiro».
Ci siamo riconosciute (credo; o forse hai fatto finta per non ferirmi) e, anche se mi hai presentato tutte le tue amiche, non mi ricordo neanche uno dei loro nomi. Dopo un po’ loro sono andate via e a mezzanotte siamo rimaste solo io e te. Non ti ho nemmeno chiesto se tu dovevi tornare a casa.
È stata una bella nottata. Con la scusa delle mie “ronde” abbiamo esplorato tutto l’artistico, siamo entrate in tutte le aule e verso le due di notte ti ho portato nell’aula di grafica al computer. Abbiamo acceso un mac e ci siamo messe a fare delle canzoni con garageband, completamente fumate. Ti era uscito un testo demenziale e bellissimo:

“cic-ciac-ciac, scatta l’accendino/devi stare attento, con l’accendino/a fare un movimento, con l’accendino/se vieni vicino, con l’accendino/ti brucio il visino, con l’accendino//fuoco alle ciglia, con l’accendino/ fuoco ai peli dello scroto, con l’accendino/piglia dove piglia, il mio accendino/assalto la Bastiglia, con l’accendino”

Non è che me lo ricordo, anche se un po’ me lo ricordo, ma è che quella sera l’abbiamo proprio registrato, poi l’abbiamo esportato e ce lo siamo autoinviate. Il titolo non poteva essere che “L’accendino” e come nomi da reppuse ci siamo battezzate a vicenda. Tu per me eri “Mi$$ Takkeggio” e io, per te “Mi$$ Polleggio”. «Che poi non ti conosco» avevi aggiunto, «magari sotto sotto sei una tigre cazzutissima».

Nei mesi seguenti, quando ci incontravamo a ricreazione, in corridoio, salendo o scendendo le scale, in fila alla macchinetta delle schiacciatelle, magari a scaldarci il culo contro il termosifone perché fuori l’autunno e l’inverno ci aggredivano le ossa con la loro umidità, sorridevo sempre pensando a quella canzone, il nostro segreto, quella stronzata fumata, creazione notturna, che ci legava (così mi piaceva pensare) indissolubilmente.

Pensavo te ne vergognassi, quando un giorno sei stata tu a tirarla fuori. Eri davanti a me in fila alle macchinette, quando all’improvviso ti sei girata e mi hai detto: «Comunque quel pezzo spacca; dovremmo fare un gruppo». L’avevi detto tutto d’un fiato, come se (ci ho pensato dopo), avessi il minimo timore che ti dicessi di no.

Garage band non ce l’avevamo. Ci vedevamo in una saletta a Casalecchio, vicino allo stadio. La saletta era terribile, ma tu abitavi lì ed eri troppo pigra per ascoltare altre proposte. I piatti della batteria erano scheggiati e non c’erano altri strumenti, ma tuo zio aveva una chitarra acustica che avevamo elettrificato con un microfonino che si attaccava vicino al buco. Io facevo gli accordi e tu gridavi, o tu facevi gli accordi e io parlottavo. «Io ho la voce più alla Moe Tucker», ti avevo detto. Tu non sapevi chi fosse praticamente nessuna delle persone che nominavo e così, dopo le prove, passavamo il tempo a bere birra sui gradini dello stadio Umberto Nobile e io ti raccontavo di tutte le storie punk che avevo imparato leggendo Lester Bangs, la biografia di Lou Reed di Victor Bockris e i diari di Kurt Cobain, la mia bibbia, tipo, a quel tempo. Ti raccontavo le cose dei vecchi punk, tipo sta leggenda che Richard Hell, da bambino, prima di diventare Richard Hell, quando si chiamava soltanto Richard Meyers, aveva dato fuoco a un campo di grano solo per vederlo bruciare. E tu che mi dicevi che ti sarebbe piaciuto dare fuoco al campo di calcio. Questa è l’immagine mentale più bella che ho di noi due: non all’occupazione, nemmeno mentre suonavamo, ma noi due che parliamo su quello sfondo di erba gialla e verde, spezzata dall’azzurro della cicoria selvatica, con le gradinate assediate dall’erba sotto di noi, le porte di calcio dalla rete bianca e floscia, e il colle di san Luca oltre il fiume dietro lo stadio.

Ci venne l’idea di candidarci come duo alla Gioart (se si scrive così, non l’ho mai capito). Era una specie di festa del liceo artistico, ma forse era aperta a tutti. Se non ne so molto è perché non me ne era mai fregato niente, non ci ero mai andata, però volevamo esibirci. Pensavamo di avere qualcosa da dire, un messaggio da lanciare, anche se il nostro messaggio forse non era ben decifrabile dai testi delle nostre canzoni con titoli come “Mi spacco di bigné”, “La sborra avvenire” e “Vulva bivalve”.
Ci presentammo all’audizione e non fummo prese. Per consolarci andammo subito a berci una birretta sulla gradinata dell’Umberto Nobile e ti dissi che sicuramente erano tutti corrotti, che andavano avanti solo gli amichetti e le fidanzatine.  Ti dissi anche che forse il pubblico non era pronto per il nostro folkpunk fuoridaicoppi. Ma per una volta non eri d’accordo con me: «No, è che siamo sceme noi»
«Come siamo sceme noi? No, scusa, amo’, sono scemi loro»
«No, amo’, siamo sceme noi. Tu pensavi che io ero quella buona a urlare solo perché mi vesto con la roba strappata e le calze a rete. E io ho pensato tu fossi buona a parlottare – sì, lo so, si può dire sprechgesang, ho imparato, amo’ – perché c’avevi sta faccia più rotonda. E forse perché ti trucchi meno.»
«Embé? Non è vero?»
«No. Adesso che ti sento tutta così incazzata perché non ci hanno preso, non c’hai una nota calante che sia una, c’hai pure la voce roca, però potente, capito… dovevi urlare te e lasciare a me il parlottio. Un errore tattico.»

Ormai era calato il buio e noi due eravamo all’ennesima birra. I riflettori si erano accesi automaticamente sul rettangolo verde, ma non c’era nessun allenamento serale. Eravamo libere di sbronzarci sull’erba umida sulla collinetta delle gradinate senza che nessuno ci desse fastidio. Io continuavo ad essere incazzata per quella cosa della Joeart (o come cristo si scrive). Tu invece eri proprio cotta, avevo l’impressione che potessi addormentarti da un momento all’altro.
«Non ti addormentare, cristo. Voglio fare after e poi voglio fare fuga. E voglio fare queste cose con te, sveglia.»
«Sei proprio diventata una dura, ‘amo. Voglio, voglio, voglio…»
«No, è che sono incazzata. Ma come si permettono di rifiutarci? Noi, l’unica avanguardia vera in questa città di vigliacchi e vigliacche»
«L’avanguardia è molto duura e per questo fa pauuura»
«Dico sul serio»
«Tu gli dai la stessa storia, tanto lui non c’ha memoria»
«Dai, amo’, dico sul serio…»
«Vado contro corrente perché sono demente… euhngh»
«Vabé.»
«No, scusa, hai ragione, amo’. Ma che ci possiamo fare? Ormai è andata. Cosa possiamo fare?»
Ti eri rimessa più o meno seduta e mi hai chiesto una sigaretta. Non hai detto paglia, hai detto siga, se ricordo bene. Ora potevi starmi ad ascoltare.
«Senti. Noi non abbiamo sbagliato niente. Io sono Miss Polleggio e tu Miss Takkeggio. Io quella calma, tu quella che strippa. Io sprechgesang, tu urlo belluino all’inizio di TV Eye. Gli scemi sono loro»
«Vabé, può anche essere che gli scemi siano loro. In effetti ora ti vedo più calma, sei tornata Miss Polleggio»
«Vedi?»
«Sì, sì. Mi sa che c’avevi ragione te, amo’.»
«E poi che cazzo. Chi c’era nella giuria?»
«Frollo, Sbollo e Sburlo»
«Che cos’hanno in comune?»
«Tre nomi di merda. E sono la chitarra, il basso e la batteria di un gruppo che suona sempre alla Gioart»
«E sono maschi, stellamia!»
«È vero.»
«Senti, qui tocca colpirli dove fa più male.»
Mi alzai e andai tra i pini per sbrattare. Mi uscì solo una bavetta lunga lunga, che non si spezzava e non voleva separarsi da me nemmeno quando stava per toccare terra. Una cosa fastidiosa che mi è capitata per anni, ed è per questo che oggi non bevo più birra. Tornai sulla collinetta erbosa in cima alle gradinate. Ti eri di nuovo assopita; ti feci il solletico ai piedi e ti risvegliasti.
«Che fai, amo’?»
«Dicevo» ho proseguito con una lucidità che ancora oggi mi impressiona «Dicevo che dobbiamo colpirli dove più gli fa male, a ‘sti stronzi.»
«Nelle palle?»
Non ti degnai di una risposta e scesi le gradinate. In qualche modo riuscii a scavalcare la rete di ferro e caddi in campo. Cominciai a versare la birra tracciando dei segni che da fuori dovevano sembrare completamente a caso, ma con i quali volevo scrivere una cosa come “Gioart mafia” o “Frollo corrotto” o “Sbollo scemo”.
«Lanciami l’accendino», ti ho detto.
«Aspetta, anch’io voglio scavalcare.»
Non voglio ricordarti la scena penosa con la quale sei riuscita a passare di qua dalla rete. Ma l’importante è che tu ce l’abbia fatta. Abbiamo strisciato insieme fino al bordo del campo, con la scia di birra che veniva fino a noi.
«Ma, amo’, lo vuoi fare davvero?»
«Certo che lo voglio fare. Ma chi cazzo se ne frega di questo campo di merda.»
«Come Richard Hell, cazzo.»
«Fanculo Richard Hell. Come Patti Smith.»
Feci scattare l’accendino vicino al manto erboso, ma non successe niente. Riprovai. Niente.
«Prova un po’ te, amo’.»
«Riprova un po’ te, amo’.»

La mattina ci sorprese l’acqua degli irrigatori automatici. Ci stava svegliando anche il custode, che ci sgridò e ci disse che dovevamo vergognarci.
«Ma te ti devi vergognare, a usare gli irrigatori che ha appena piovuto l’altroieri.» gli urlai dietro quando fui lontana, perché prima, spaventata, appena alzata, tutta fradicia, mi erano mancate le parole.
«Ti devi vergognare te e tutta la tua società!» avevi rincarato tu. Mi avevi accompagnato alla fermata dell’autobus e te ne eri andata a dormire.

Quella notte non abbiamo fatto after (ci siamo addormentate al bordo del campo da calcio, con l’accendino spento in mano e un paio di lattine di birra ai nostri piedi), non abbiamo bruciato niente e il giorno dopo non abbiamo fatto fuga, perché volevamo solo dormire. Eravamo giovani e debolucce. Ci sta. Forse certi ricordi sono più belli perché impastati di rimpianti, di tutte le cose che avremmo potuto fare e che non abbiamo fatto, dell’aroma di tutti i mondi paralleli abortiti. Questa lunga lettera, però, non te la scrivo per farci venire le lacrimucce agli occhi: sto tornando da Londra, ho fatto esperienza, non sono più così giovane e non sono più così fragile e, soprattutto, questa volta porto la benzina.

Ci vediamo quando vuoi, tu ricordati l’accendino
la tua
Miss Polleggio


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