Testo di Alfredo Zucchi e Carlo Martello
Copertina di Susan Orlok
In seguito alla ripubblicazione del racconto La memoria dell’uguale, con l’autore Alfredo Zucchi abbiamo provato ad approfondire alcuni dei temi del racconto, del metodo lynchiano e della nostra storia culturale, consapevole e inconsapevole.
Carlo Martello: Ciao Alfredo, innanzitutto grazie della disponibilità e di permetterci sia di ripubblicare il racconto che dà il titolo al tuo libro del 2020 uscito per Polidoro, che di provare ad approfondirne i legami con l’esperienza di visione di Lynch e con le suggestioni che questa visione comporta.
Come molte e molti ho visto Twin Peaks, seppure da adulto, e più volte i film di Lynch. Tuttavia, l’esergo del tuo racconto mi ha mandato inizialmente fuori strada: in un primo momento ho pensato che avessi ripreso tu la frase riportata dal personaggio di Audrey Horne “Is this the story of the little girl who lived down the lane? Is it?”, frase che fa riferimento a un film e al romanzo da cui è tratto, ovvero The Little Girl Who Lives Down the Lane. Informandomi meglio, ho scoperto che probabilmente è stato lo stesso Lynch a trarre ispirazione dal romanzo di Laird Koenig e dal successivo film di Nicolas Gessner.
Ti va di spiegarci meglio questi collegamenti e di approfondire il legame che c’è tra questo tipo di costruzione ambientale e il tuo racconto?
Alfredo Zucchi: L’aspetto più interessante riguarda proprio il modo in cui questa immagine circola all’interno dell’opera di Lynch, in particolare in Twin Peaks. Lynch senza dubbio trae ispirazione dal romanzo e dal film (una cosa simile accade con il personaggio di Dorothy del Mago di Oz, e con l’attrice che la interpreta nella versione del 1939, Judy Garland: le sue scarpe rosse, il nome stesso dell’attrice compaiono a più riprese, con funzioni diverse e a volte opposte, nella narrazione: ne diventano uno degli strati e dei simboli nascosti). Ma la questione non si limita a una citazione esterna. Nella terza stagione di Twin Peaks, quella andata in onda nel 2017, la frase “is this the story of the little girl who lived down the lane? Is it” si sdoppia, cioè è pronunciata da due soggetti diversi, e impossibili, entrambi dispersi nello spazio-tempo: Audrey Horne e un altro personaggio, il Braccio o L’evoluzione del braccio. Si tratta di una domanda importante, che interroga il cuore della storia: che cosa stiamo cercando di raccontare? Qual è il succo di questa storia? Si tratta soltanto della storia di una ragazza stuprata e uccisa in una cittadina del Nord-Ovest statunitense, o c’è dell’altro? Ho utilizzato la frase (la domanda) in esergo al racconto “La memoria dell’uguale” per richiamare questo slittamento: un racconto narra sempre anche qualcos’altro. La natura di questo qualcos’altro è sfuggente, sarebbe a dire che è in fuga: nel racconto ho provato a inseguirlo.
CM: Mi sembra di vedere, in sottofondo, tra i molti altri stimoli di questo testo, una concezione del sesso complessa e credo più realistica e inclusiva, uso volontariamente questo termine, dell’idea comune del sesso che si limita alla copula e all’aderenza di uno o più corpi. Qui mi sembra che il sesso si appropri di alcuni elementi che gli sono del resto connaturati in modo esplicito: la circolarità, ovvero la ripetizione del ciclo di vita e di morte che si perpetua nell’esperienza sessuale; la visione e la possibilità della visione mediata, ovvero l’esistenza di un’esperienza sessuale indipendente e oltre il proprio corpo, il che rimanda evidentemente all’esperienza della fruizione culturale; infine l’evidenza, si può dire empirica?, che il sesso inteso come pratica è diverso e spesso molto distante dal sesso inteso come organo corporeo. Cosa ne pensi? E perché è stato importante inserire delle esperienze sessuali ne La memoria dell’uguale? A tuo avviso è possibile parlare di potenza sovvertitrice dell’eros nel tuo lavoro e in quello di Lynch, che trabocca di erotismo in quasi ogni film e quasi sempre (dico quasi perché sto andando a memoria) usa la tensione erotica – tensione è la parola giusta – per scatenare l’imprevedibile più che l’imprevisto.
AZ: Tensione erotica mi pare l’espressione più adeguata. A differenza di una marea di autrici e autori, nelle più svariate discipline artistiche, che la utilizzano per sfociare nel calderone del grottesco, Lynch la manipola in un altro modo: per spaccare in due le storie, per aprire porte che fino ad allora non solo sembravano chiuse, ma che parevano proprio non esserci – se non si vedono, vuol dire che non ci sono. Si tratta di uno strumento di accensione del desiderio, a partire dal quale si dà la possibilità, per la narrazione, di produrre effetti: sradicare, per un momento, gli oggetti da un giogo strano: quello del come-volevasi-dimostrare, del senso compiuto già scritto e detto, dell’illusione che ci sia, appunto, un orizzonte di senso già tracciato per ordine naturale. E invece: per un momento (lo ripeto perché la questione della durata nella fruizione e nello svolgimento di un oggetto artistico è fragile e importante) si spalanca un’altra porta. Il fatto è che, almeno per quanto mi riguarda, per spalancarla e mettervi piede bisogna credere intensamente che quella porta comparsa all’improvviso non sia un’allucinazione – ma sto anticipando la risposta alla domanda successiva.
CM: La memoria dell’uguale, il racconto, non il libro, è legatissimo a Mulholland Drive di Lynch, questo si può dire con sicurezza. Però mi chiedo, e ti chiedo: cosa significa all’atto pratico scrivere abbandonandosi agli eventi?
In una bella intervista che ti ha fatto Andrea Cafarella (che io pensavo si chiamasse davvero Bartolomeo perché ha proprio la faccia di Bartolomeo, infatti ha fatto benissimo a chiamarsi Bartolomeo) su Cattedrale, a un certo punto, sviando da Borges, Bolaño, Piglia, Cortázar, Onetti, dici: “Ricordo precisamente di aver desiderato concepire una narrazione che andasse ostinatamente – allegramente – per la sua strada, senza curarsi delle contraddizioni, nutrendosi di esse, come mi pareva avesse fatto solo David Lynch”.
Cosa succede a fare questo? Cosa succede a te? Mi sembra che una scrittura del genere modifichi qualcosa, più del solito, non solo a chi legge ma più ancora a chi scrive.
AZ: Per prima cosa: concordo – Bartolomeo è il suo nome perfetto.
Ho un ricordo molto vivido del periodo in cui ho scritto gran parte dei racconti del libro La memoria dell’uguale. Sono stati tre o quattro mesi di forte immersione – ricordo l’attesa vibrante che arrivassero infine le ore da poter dedicare ai racconti (di notte, principalmente, e di mattina presto, prima del lavoro). Un racconto fantastico ti richiede uno strano sforzo fideistico, un patto di fedeltà totale con la materia narrata. Perché certi sviluppi impossibili trovino sbocco c’è bisogno che il dubbio e l’autocensura collaborino: bisogna mobilitare e condurre (come un direttore d’orchestra e non come un feldmaresciallo) tutti gli strumenti a disposizione, tutte le connessioni, e disporsi in uno stato di apertura radicale nei confronti delle cose – a quel punto pare in effetti che le cose vogliano prendere parola per sé. Allora tu diventi un ascoltatore. Certamente il rapimento che ne consegue è delizioso e vorresti che non finisse mai. Invece finisce. Quindi tu capisci, a un certo punto, che la questione non è tanto o solo il tuo godimento mentre ascolti le cose che parlano per sé, ma il processo per cui questo rapimento diventa un racconto, cioè un oggetto d’arte capace di trasferire lo stesso effetto che ha sortito su di te anche su chi legge. Quindi devi mediare tra un’impressione di intensità assoluta e intraducibile, intransitiva, e certe leggi della lingua, del reale, della grammatica e dell’inconscio. Il rischio “che la montagna partorisca un topolino” (il rischio di riscoprire l’acqua calda) è sempre là a stuzzicare le vie inibitorie, però se tutto va bene, come ho scritto sopra, l’autocensura si dispone a collaborare, e invece di gridare stizzita che è ridicolo, ma dove stai andando, si mette a dare suggerimenti strategici (questo spostalo là sotto, quest’altra invece, guarda bene, sta dicendo la verità, falla parlare prima etc. etc.). Il compimento di questo dramma immaginario è il finale. Il finale di un racconto fantastico è il punto in cui si giudica la fedeltà con cui tu, ascoltatore delle cose che prendono parola per sé, hai agito. A mio avviso è molto difficile. Ci sono scrittrici e scrittori molto bravi, molto note, che arrivati al punto culminante sviano, tagliano (l’ellissi come una scusa, una giustificazione o una scorciatoia per le proprie mancanze in termini di militanza nel fantastico). Chiudono il racconto proprio davanti all’apparizione della porta comparsa all’improvviso, col salvacondotto in tasca che dice che quella porta forse è solo un’allucinazione. Che, in fondo, l’esistenza o meno di quella possibilità (la porta dell’ignoto) non è responsabilità loro. Lynch questo mai. Ecco, questo ti insegna l’autore di Inland Empire: che arrivati al punto culminante, sul bordo di un evento, non bisogna sviare né tagliare ma andare dritti, preferibilmente di testa, contro la porta comparsa all’improvviso, per vedere se infine si apre e dove conduce. Nel caso di Inland Empire conduce in uno scantinato in cui tutti i personaggi, tutte le cose che parlano per sé, spettri, specchi, visioni, ferite, i vivi e i morti, ballano insieme Sinnerman: un caso raro di apoteosi.
CM: Rileggendo il tuo racconto, mi è venuto in mente un altro film, non c’entra niente con Lynch e non credo che si possa nemmeno associare a La memoria dell’uguale. Se te lo segnalo lo stesso e ne scrivo qui è perché ho l’impressione che viva nello stesso complesso di idee. Il film è Su su per la seconda volta vergine, di Kōji Wakamatsu. Non dico niente, così se tu e chi legge queste paginette vuole approfondire può farlo. Il film è stato trasmesso da Fuori Orario, quindi su internet si trova.
Come mai, secondo te, i riferimenti che hai fatto a Lynch ne La memoria dell’uguale, riferimenti espliciti, non sono emersi nelle tante recensioni che pure sono state fatte? Provando a confrontare le mie idee con quelle di chi aveva scritto sul tuo libro questa assenza mi ha stupito molto. L’unico a parlarne sembra che sia stato tu. È abbastanza incredibile, no?
Forse è una forzatura, molto probabilmente lo è, ma il pensiero che ho avuto è che l’influenza di Lynch sia inconscia nella sua portata collettiva e che questo purtroppo ne limiti in maniera decisiva le conseguenze. Mi sembra che senza esplicitarne il metodo, quantomeno con noi stess*, l’abbandono lynchiano non sia davvero tale. Lynch era un forte sostenitore della meditazione trascendentale e in certo senso si può dire che il metodo lynchiano è un tipo di abbandonarsi analogo, che richiede una consapevolezza iniziale per arrivare all’inconsapevolezza del pensiero. Mi sto complicando le cose da solo quindi mi fermo. Cosa ne pensi di questo?
AZ: Penso di aver forse riposto prima a questa domanda. Ti ringrazio per la segnalazione del film, che non conoscevo. Mi viene in mente che una delle cose più significative dell’abbandono lynchiano ha a che vedere con un modo di mettere a tema la finitezza. Ne scriveva anni fa Alberto Chimal nell’articolo La memoria e la catastrofe. Quando Lynch torna su Twin Peaks sono passati più di vent’anni, alcuni attori sono morti, altri sono in fin di vita; alcuni fili della storia sono irrimediabilmente corrotti (dalle logiche di produzione, dalle condizioni in cui la serie è andata avanti nelle prime due stagioni, in particolare la seconda all’inizio degli anni ’90). La storia andrebbe cancellata e riscritta, in un certo senso, o abiurata e abortita. Invece Lynch e Mark Frost scelgono di appropriarsi degli strati usurati e corrotti, di condurre fino alla fine la storia proprio a partire dagli errori e dalle impasse precedenti. È un modo di fare di necessità virtù, come si dice, che mi ha molto colpito e che mi ha aiutato a capire la forza dirompente della stratificazione – non solo sul piano dell’effetto narrativo. Quella storia usurata e corrotta, storpiata e irrecuperabile, è la nostra storia e la recupereremo. Per fare questo la negoziazione con l’emittente televisiva che ha mandato in onda la terza stagione è stata feroce ed estenuante. Per i due autori era fondamentale avere pieno possesso dei mezzi di produzione, ed era necessario ridurre al minimo i diktat esterni alle logiche della composizione. Tutto questo fa di Twin Peaks una rarità e un modello, non tanto estetico, un modello di prassi artistica.
CM: Grazie ancora, Alfredo. Un abbraccio. Spero di rivederti presto.
AZ: Grazie a te e a voi per l’occasione e per il dialogo. Spero anch’io di rivederci presto, non per forza in casa De Marco, ma comunque forse di preferenza proprio lì: grande anfitrione.
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