Testo di Alfredo Zucchi
Copertina di Julio Armenante
Is this the story of the little
AUDREY
girl who lived down the lane?
Is it?
HORNE/ THE EVOLUTION OF
THE ARM
Sette volte è morta – sei volte secondo le ricostruzioni più rigorose. Nessuno dei perpetratori, al momento di eseguire l’omicidio della donna, era consapevole di compiere un gesto rituale, a parte
forse l’ultimo.
Una notte d’inizio agosto, M. sognò un anello – l’anello era la forma del sogno: in qualche modo, tra i sudori e le concitazioni della notte, le sue condizioni iniziali tornavano continuamente a verificarsi. I raggi del sole, già cocenti all’alba, interruppero il loop e la svegliarono. La bocca impastata, i muscoli stremati come dopo una corsa o una lotta, M. si affrettò al tavolo in cucina e annotò su un quaderno: “Se fisso un punto A su una circonferenza e comincio a percorrerla, ogni volta che torno allo stesso punto accade qualcosa di nuovo. È il pathos, la memoria del ritorno a generare differenza”.
–
M. conduceva una vita solitaria da quando, un mese prima, il suo compagno l’aveva lasciata dopo otto anni di vita in comune. In una lite memorabile, poco prima di andare via, R. le rimproverò la necrosi dell’appetito sessuale. Io voglio vivere, le disse. Fu indelicato – una serie aperta di omicidi di donne, in città, aveva gonfiato la tensione fino all’isteria – ma a suo modo aveva ragione: la figura del fallo eretto non aveva mai operato, nell’immaginario di M., come vettore erotico, pur conservando a lungo, nella sua manifestazione concreta, un carattere funzionale al piacere. M. non si era mai chiesta se valesse la pena ricercare vertigini a lei più consone, fin quando i canali del piacere, un anno prima, non le si otturarono del tutto – fu una progressione lenta e quasi impercettibile se osservata istante dopo istante. Una settimana dopo l’abbandono, R. già conviveva con una donna appena più giovane di M.
Una notte di luglio dell’anno precedente, l’addetto alle pulizie di un albergo del centro, mentre inseriva la spina dell’aspirapolvere nella presa elettrica, intravide una mano inerte ai piedi del letto. Non si scompose – controllò per prima cosa se il cadavere portasse gioielli di valore oltre al taglio profondo, verticale, tra lo sterno e l’ombelico. La moquette era coperta di sangue, i rivoli rossi avevano formato arcipelaghi e promontori per via della morfologia diseguale del pavimento. Il ragazzo avvisò il principale solo dopo aver sfilato orecchini, collana e scarpe alla defunta. Prima di archiviare il caso, il medico legale si produsse in una tautologia forse involontaria: “Omicidio, arma da taglio, lama lunga e spessa; delitto sessuale escluso; le impronte del perpetratore sul manico risultano identiche a quelle della vittima”.
Si racconta che un saggio, nell’antichità, avendo scoperto il modo di inscrivere il triangolo nel cerchio, pianse d’emozione, poi corse a sacrificare un bovino. Analogamente, la mattina successiva al sogno dell’anello, M. fece un doccia rapida, si sistemò i capelli, montò in bici e si presentò a casa di R.
«Non voglio litigare» fece M. mentre R., la porta aperta quel tanto che permetteva all’occhio di indagare l’esterno, la osservava con un misto di curiosità e paura. «Ho bisogno di vedere in faccia la tua nuova amante». Gli sussurrò inoltre: «Vorrei anche guardarvi scopare». R. esitò, M. spinse con forza e fu dentro.
Il divano a elle in salone mostrava segni di preliminari andati a buon fine – un calice riverso, i pantaloni neri di cotone di R. e un top azzurro arenati tra i cuscini. R. le fece cenno con l’indice di tacere – lei dormiva in camera e lui, in mutande, mostrava un’improvvisa, solo in parte meccanica erezione. M. lo squadrò e sorrise. R. si affrettò ai fornelli per preparare il caffè, M. lo raggiunse e da dietro infilò la destra nel boxer. Percorse lentamente la superficie liscia del pene – R. sussultò e si arrestò sul colpo, M. strinse il palmo intorno al cilindro imperfetto. La forma della memoria è la memoria stessa, pensò. Gli chiese, ora quasi come una supplica, di fare l’amore con l’altra, di permetterle di guardare.
R. rimase impalato per un momento – il suo corpo aveva detto sì ben prima che gli agenti neurali, riunitisi in pompa magna nella corteccia cerebrale, cominciassero a discutere l’assunto.
M. sfilò la mano dal boxer e ringraziò in silenzio. L’uomo, un po’ in carne ma ancora tonico, per- corse i pochi metri che lo separavano dalla camera in punta di piedi, si premurò di lasciare la porta aperta mentre si infilava di nuovo tra le lenzuola. M. lo seguì con lo sguardo – i suoi deltoidi e tricipiti la attraevano più dei genitali. R. si forzò di non voltarsi verso M. mentre scopriva, poco a poco, prima le piante dei piedi, poi i polpacci, le cosce, i glutei – la schiena di M. fu percorsa da un brivido: si avvicinò all’uscio d’istinto – e le spalle dell’amante. A. non reagì subito. Mosse la testa la prima volta quando R., dopo aver percorso gli scalini delle vertebre, raggiunse il coccige e si infilò a cascata, con l’indice e il medio, nel bosco del perineo. Si girò verso R. e questi, in ginocchio, spinse il pube verso il naso e la bocca della donna.
M. pensò all’odore del sesso orale, un odore sempre mutevole – per la prima volta un pompino le sembrò desiderabile. Le piacquero le labbra sottili e rotonde di A. mentre si modellavano sul pene di R. Si avvicinò al letto senza spogliarsi, si piegò sul bordo – tesa in avanti, la sua lingua sfiorava appena i genitali di A. Fu un fremito ondoso che si trasmise dalla bocca di M. al sesso e alla bocca di A. e infine al sesso di R., che prima spinse in avanti la testa dell’amante con uno strappo improvviso, poi aprì gli occhi ed ebbe l’idea vaga di gridare, sputtanare M. e cacciarla per sempre dalla sua vita – la lingua di M., però, modulava i movimenti della bocca di A., i quali a loro volta intercedevano col glande di R. Era una catena difficile da sparigliare.
Al quarto omicidio, a febbraio, il medico legale scommise una somma ingente col custode della morgue e vinse. “Arma da fuoco; il proiettile ha perforato le tempie da parte a parte, uccidendo la donna sul colpo. Le impronte sulla pistola, rinvenuta sul televisore a circa tre metri dal cadavere, sono le stesse di quelle della defunta”. Anche stavolta la violenza sessuale fu esclusa.
Al quinto, ad aprile, i cittadini smisero di aspettarsi spiegazioni sensate dalle forze dell’ordine e si limitarono a esercitare paura e sospetto. Si instaurò un coprifuoco spontaneo. Dal sesto omicidio, a giugno, le donne trovate in strada dopo le 21 erano scortate in un centro d’accoglienza per migranti e tenute in consegna per tre giorni.
Irrequieto in seguito alla rottura con M., R. si unì alle squadre spontanee di sorveglianza. Intendeva compensare o distrarre il senso di colpa per l’abbandono della compagna; incontrò invece A., una notte di luglio, accucciata in un angolo di una stanza vuota del centro d’accoglienza. La sera dopo la accompagnò nel suo nuovo appartamento in centro. Impiegò qualche giorno prima di dichiarare le sue voglie: fu gentile nell’assalto e si limitò a penetrarla col pene nei fori che la natura e la consuetudine hanno riservato allo svuotamento erotico. Vivevano insieme da allora: gli spazi erano angusti ma entrambi sembravano appagati.
L’attesa del sonno, la notte dopo l’incontro con R. e con A., fu febbrile – M. si aspettava di ricevere segni come se le fossero dovuti, come se non bastasse aver scoperto che l’orizzonte del desiderio ora le mostrava, in lontananza e sempre più prossima, la forma di una grotta, non di una montagna. Una caverna: si sorprese a indugiarvi dentro nel dormiveglia estenuato. Si masturbò con ferocia e non chiuse occhio.
Tre giorni dopo, M. incontrò A. in un bar del centro, a duecento metri dal fiume. Erano sole. M. si forzò di distogliere lo sguardo dai capezzoli che si intravedevano dalla canottiera di cotone di A.. Forse per giustificarsi disse: «Non dovresti andare in giro così. Non sai quante donne, nell’ultimo anno, sono state uccise in città?». Nemmeno M. credeva alla versione ufficiale, che escludeva la matrice sessuale dagli omicidi.
A. rise e accavallò le gambe.
«Sei» fece M.
«Non gli ho detto che ti avrei vista».
Agire all’oscuro di R. rincuorava più che eccitare M. – l’idea di trovarselo ora tra i piedi, di dover rispondere, tra le altre cose, del ritorno fiammante del suo appetito sessuale e dell’incontro clandestino con la sua amante, senza contare la logistica della spartizione dei beni acquistati in comune, agiva come un inibitore implacabile. A. era minuta come una bimba, aveva i capelli rossi, gli arti e le ossa eleganti – M. pianse di nascosto, nel letto di R., mentre osservava la curva decisa della pianta dei piedi di A., uno stacco netto, uno scandalo se comparato col collo delicato, le dita rotonde ma esili. Risolsero di vedersi, in incognito, ogni mercoledì sera a ora di cena, dopo i corsi di M. all’Accademia delle Belle Arti. Avrebbero preso ogni volta in affitto una pensione diversa, almeno all’inizio. A. l’avrebbe informata dei dettagli.
«Non voglio insospettirlo» fece A., intercettando i dubbi che assalivano M., «d’altra parte è utile avere un uomo come R. al proprio fianco di questi tempi». Lo disse senza malizia – R. era un uomo gentile, arrembante quando a suo agio ma rispettoso dei limiti, comprensivo e delicato fin dove un uomo può essere delicato. Quando R. notò, nell’amplesso, delle piccole cicatrici sul corpo di A. – sulla rotula, la scapola e il polpaccio sinistri; sulla nuca, nascosta tra i capelli che R. adorava annusare, e dietro l’orecchio destro – non si trattenne dal chiedere spiegazioni all’amante. Quando A. gli rispose, sorpresa, che non ricordava, R. non fece più domande al riguardo.
La lezione di disegno tipografico fu particolarmente agitata – l’attesa divorava M. Osservava uomini e donne con occhi diversi: il suo disprezzo per il maschio, un tempo mitigato dalla timidezza e dalla convenzione, mutava in spirito di concorrenza. Due studenti etero, all’inizio del corso, presero a flirtare spudoratamente in seconda fila – fu tentata di portarli in ufficio con una scusa didattica e scoparseli entrambi. Cercò, senza successo, di concentrarsi sulla cappella ricurva della lettera a mentre mostrava a mano, alla lavagna, le differenze tra Garamond e Helvetica: vedeva invece il piedino di A. penzolarle davanti agli occhi, sfiorarle le guance e le labbra. Venne fuori dal sogno a occhi aperti gridando: mentre chiudeva la curva della lettera che aveva cominciato a disegnare col gesso, strisciò contro un chiodo scoperto nella cornice di legno della lavagna e si ferì il palmo destro.
Mancava mezz’ora alla fine della lezione quando mandò tutti a casa. La notte prima aveva sognato un punto: la sua presenza modellava lo spazio facendolo vibrare: quel punto era tutto ed era anche – così si disse, fradicia, al mattino – il clitoride di A.
Il coprifuoco era imminente. M. percorse di fretta la distanza tra la fermata dell’autobus e la pensione in zona porto. Entrò sudata, si registrò. La sua amica l’attende in camera, fece il portiere – non c’era malizia nel suo sguardo, ma sollievo che anche M. ce l’avesse fatta prima delle 21. M. si rifugiò nel bagno di fianco alla portineria, si sciacquò il viso e le ascelle, si pettinò e rinfrescò il trucco. Notò che il palmo della mano destra era ancora infiammato, lo sciacquò abbondantemente e indossò un guanto da ciclista per occultare la ferita. Si sentiva brutta – meno grassa, di certo, dall’abbandono di R., più tonica per via dello sport e della bici, ma non per questo più aggraziata. Allo specchio pensò che una come lei – un’amazzone, una femmina per caso: le spalle larghe, i tratti severi, spigolosi del volto – non avrebbe mai meritato una donna come A., puro corpo desiderante, felino assoluto. Ripensò a quel punto che era tutto, le sembrò di vederlo riflesso nel vetro dello specchio. Prese le scale ed entrò in camera.
Una pistola, un coltello, un bastone, un paio di forbici, un elettrodomestico (il terzo omicidio fu il più truculento). Il secondo omicidio – il corpo di una donna sulla trentina fu ritrovato all’alba, un giorno di ottobre, arenato nel delta del fiume – fu l’unico per cui non si fecero ipotesi tautologiche riguardo alle impronte. Il medico legale non trovò tracce di contusioni – questo particolare lo spinse a pensare che la donna fosse semplicemente caduta in acqua. Di fatto solo dopo il terzo, due giorni prima di Capodanno, si cominciò a parlare di omicidi in serie. A quel punto, anche l’annegata fu agglutinata nel computo totale.
Quel mercoledì sera d’inizio agosto R. si finse in- disposto e rifiutò la chiamata delle squadre spontanee di sorveglianza. Non lo disse ad A.: uscì intorno alle 19 e attese in un bar a due passi dal suo appartamento. Quando la vide chiudere il portone – distinse, nella busta di plastica che A. si sforzava di mantenere in equilibrio sulla mano destra, un vassoio di cartone – e dirigersi in zona porto, prese a seguirla. Appena riconobbe, al riparo di un’edicola, la sagoma di M. avvicinarsi di corsa alla pensione in cui era entrata da poco anche A., sentì prima sollievo e poi qualcos’altro, un miscuglio instabile di sconcerto, gelosia (di entrambe), eccitazione, vergogna e paura. Come ogni altro uomo in città, era sulle tracce dell’assassino: durante una riunione delle squadre spontanee di sorveglianza, due settimane prima, aveva avanzato l’idea che il perpetratore usasse dei guanti speciali, in grado di riprodurre fedelmente le impronte della vittima sulle armi di cui si serviva ogni volta. Nonostante il discreto tasso di verosimiglianza dell’ipotesi, e la sua crescente popolarità tra i volontari, R. non poté vietarsi di pensare più in profondità il transfert che si era verificato nella serie di omicidi. La figura stessa del guanto – la sua natura ambigua, dentro-fuori, di guaina – lo spinse a esercitarsi in una dimostrazione per assurdo: quando arrivò a pensare, per un attimo, alla possibilità che la morta diventasse la viva, ovvero che solo una donna – per forza di cose non sempre la stessa – avesse potuto compiere gli omicidi, l’insieme delle connessioni che lo avevano spinto fino a lì crollò di colpo. Rise delle sue speculazioni e tornò a figurarsi il guanto come un oggetto preciso – se l’avesse trovato, al suo interno avrebbe rinvenuto le impronte del colpevole. Ripensò all’assopimento improvviso del desiderio di M., calcolò che era coinciso, all’incirca, col primo degli omicidi.
Il sogno non appartiene al sognatore; il sognatore è una sua funzione secondaria, ma non irrilevante. L’equivoco di M. nel decifrare i segni ricevuti di notte, in sogno – l’idea che essi presagissero la sua trasformazione erotica, la sua emancipazione –, era legato al desiderio stesso di interpretarli.
A. attendeva M. seduta. Aveva preparato due primi e stappato un bianco secco. M. ebbe voglia di piangere quando la vide, ma si trattenne. Disse: la prossima volta tocca a me cucinare. A. sorrise fissandola negli occhi. Brindarono. Mentre M. portava la prima forchettata alla bocca si udì un’esplosione. In lontananza, attraverso la finestra che dava sulla strada, videro alzarsi una fiamma compatta, verticale – una nebbia improvvisa ispessì l’aria, illudendo le due donne che la pira bruciasse di fianco alla cattedrale, in pieno centro. A. si gettò tra le braccia di M. senza ritegno. M. lasciò cadere la forchetta, posò il bicchiere e strinse A. al petto. Lentamente abbandonarono il tavolo, intrecciate. Mentre le sfilava la camicia, M. le sussurrò all’orecchio,: «Non lascerò mai che qualcuno ti faccia del male». Sfiorò con le labbra una delle cicatrici di A., ma non se ne accorse. A. la baciò sul collo – solo allora notò il guanto sulla destra di M. Lo sfilò e le baciò la ferita. Disse: «Mi sembra di stare con te da sempre, o forse…». M. affondò le labbra nei seni minuti di A., con le mani sincrone le sfilò la gonna, con due dita liberò l’ingresso della vagina dallo slip. Un odore intenso eppure fresco – forse frutta tropicale, forse muschio – le stordì prima le narici, poi il resto degli emissari dei sensi. Si lanciò con la bocca e le mani tra i genitali della donna. Mentre M. inquadrava il glande del clitoride di A. – mentre pensava di fissare il proprio destino –, le sembrò che A. dicesse: «Non è un punto, ma un evento». Si sorprese a pensare: sembra ogni volta lo stesso, ma è diverso.
R. aveva già perlustrato, nell’ultimo mese, i paraggi delle scene dei sei crimini senza trovarvi niente di rilevante. Quella sera d’agosto, in bilico sul cornicione della finestra che dava sulla corte interna, R. vide il corpo seminudo di M. – lo conosceva, lo disprezzava a memoria. Quando distinse la mano destra della donna accarezzare il corpo di A., ricoperta da una guaina di tessuto sintetico nero, si allungò in alto e in avanti, sulle punte. Quando vide, poco dopo, le mani di M. circuire il collo di A. e strangolarla con una risolutezza e un contegno che lo terrorizzarono – M. piangeva, il doppio vetro della finestra attutiva i rumori –, R. ebbe un sussulto e cadde. Non fece in tempo a dubitare dell’esattezza della sua ipotesi – se A. aveva sfilato il guanto a M. prima che M. la attaccasse, come poteva il transfert delle impronte realizzarsi? Nella caduta dedicò un pensiero a M.: la dichiarò colpevole, si sentì infine libero, leggero, fiero della scoperta e dell’abbandono; io voglio vivere, pensò. Morì pieno di certezze.
Dopo l’assalto con cui M. uccise A., fu il corpo di M. a essere ritrovato disteso ai piedi del letto l’indomani, nudo, gli occhi spalancati, il collo contratto e contuso – il medico legale, al settimo omicidio, non se la sentì di escludere la violenza sessuale. Nessuno degli agenti coinvolti nella vicenda, a parte R. in un’illuminazione che si affrettò ad abiurare, riuscì a ricostruirla come la logica avrebbe richiesto.
La mattina seguente A. camminava confusa per il centro quando s’imbatté in un corteo funebre, organizzato dalle squadre spontanee di sorveglianza – correva voce che R. fosse stato sul punto di salvare la settima vittima prima di cadere e morire, che avesse identificato il perpetratore e i suoi metodi, e c’era chi chiedeva giustizia, chi si accodava per pura umanità, chi intendeva manipolare l’accaduto per convincere la giunta comunale a istituzionalizzare e retribuire il gruppo. A. vide le foto di R. campeggiare sui cartelloni e sentì un debole richiamo. Con un gesto che non riuscì a spiegarsi aprì le mani e notò la traccia ancora fresca di una ferita al palmo destro. Si commosse senza motivo, chiese a un passante: «Che è successo a quest’uomo?».
Il passante le volse prima uno sguardo complice – il dolore aggrega, la sua ostentazione cementa e ritualizza. Poi la squadrò – la camicia scollata senza reggiseno, la gonna trasparente adagiata sulle cosce toniche – e i suoi occhi si fecero ostili: «È morto per voi, per quelle come voi, e voi nemmeno lo riconoscete».
Questo racconto è contenuto in La memoria dell’uguale, di Alfredo Zucchi per Polidoro Edizioni.
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