Testo di Michele Ghiotti
Copertina di Claudio Parentela
How can one little street
swallow so many lives
The Offspring – The kids aren’t all right
Sono sul letto. A casa mia e di Eric. Sono passati ventidue anni. La Fontana non esiste più, ma io sento ancora i suoi sussurri liquidi. Eric mi dorme a fianco come un gatto. Continuo a pensare a quello che è successo. Ogni tanto mi ricapita. Penso a quanto sia feroce e inspiegabile. Mi sembra una specie di mistero religioso. Un sacrificio per gli dèi del sottosuolo. Un rito di fondazione sacro e maledetto.
Io e mia sorella facciamo avanti e indietro di fronte al pendio in fondo al quale sorgerà il parco. Due o tre anni prima che succeda quello che succederà. È estate. Ci sono anche i figli dei vicini, Alex, il più grande, e Laura, la più piccola. Corriamo in bici per la via, scriviamo coi gessetti sulla strada. Un pomeriggio, dopo un litigio con Laura – il confine che ci impedisce di venire alle mani è una siepe di oleandro – le do da mangiare una foglia staccata dal cespuglio. Per scherzo. «Sei matta?», mi dice mia madre. «È velenoso». Ho paura che Laura morirà. Non muore. Una sera il padre di Laura e Alex, gran fumatore e gran lettore, dopo aver saputo che ho letto Per Sematary, mi dice che può prestarmi It. I miei non sono molto per la quale, ma visto che è stato lui a propormelo non fanno storie. «Grazie», dico. «Mi piacerebbe molto». Lo prende dagli scaffali del garage. Nell’ombra c’è una moto da enduro, dal profilo di rettile, su cui campeggia una scritta che sembra uno schizzo di fango. Afferro il paperback che lui mi porge. È grosso, ma incredibilmente leggero. Ha la copertina patinata, con una scritta sanguinolenta in rilievo. Non ho mai letto un libro così alto. La mano artigliata che esce dal tombino sulla copertina mi turba e mi attrae come non mi è mai successo prima. La fisserò per giorni.
Io e mia sorella siamo al parco. Un anno dopo quello che è successo. Con i miei cugini e un paio di amici. È il 5 luglio. Tutto è azzurro, verde e giallo. Azzurro elettrico, verde cipresso, giallo pesca. La vasca rettangolare della Fontana, il prato nuovo di zecca, il selciato arroventato dal sole. Stiamo festeggiando il compleanno di mia sorella. Abbiamo appena finito una caccia al tesoro che ho insistito per organizzare, nascondendo bigliettini e indizi sotto le panchine, gli scivoli, i muretti. Ora stiamo giocando intorno alla Fontana, che sembra il sarcofago di un gigante. Ci siamo divisi, tre da un lato e tre dall’altro, e ci lanciamo la palla da basket più forte che possiamo. La palla si schianta sulle grate, proietta schizzi d’acqua, ci infradiciamo. A un certo punto, non ricordo chi stesse lanciando (potrebbe essere stato chiunque, anche una mano sbucata dal nulla), la palla sfreccia, colpisce un ugello, l’ugello si storce, l’acqua inizia a zampillare obliqua. Non è colpa di nessuno. Ridiamo. «Via, via!» dice qualcuno. Ci precipitiamo su per la scalinata, verso casa.
Io e i miei amici siamo al parco. Tre o quattro anni dopo il fatto. È estate. Mangiamo gelati comprati al ristorante di fianco al parco. Siamo finiti a parlare di Vanessa, una delle nostre catechiste, che abita poco lontano. La Fontana ci ascolta, come sempre, nella sua impassibile allegria. «È sempre stata strana», dice Paolo. «Sì», dico. «Vi ricordate quella volta che mi ha consegnato quella lettera a Natale, dopo la messa di mezzanotte? Quella dove mi diceva che ero una ragazza superficiale e che venivo in parrocchia solo perché mi piaceva Davide.» «La verità è che Davide piaceva a lei», dice Claudia. Io lo so bene. Me l’ha detto Davide in persona. Mi ha raccontato che durante un campeggio lei gli si è infilata nel sacco a pelo e ha iniziato a toccarlo in mezzo alle gambe finché non gli è venuto duro. Lui era molto imbarazzato, ma lei ha continuato fino a farlo venire. Da quel giorno Davide non si è più visto in parrocchia. Lei gli manda ancora i messaggi di auguri per Natale. Mi ricordo anche di quando Vanessa, ogni mattina, mentre andava al lavoro sulla sua Lancia Y, si fermava di fianco a me e Davide, che scendevamo verso la fermata dell’autobus, e chiedeva a lui se voleva un passaggio. Lui rifiutava sempre. Io e miei amici finiamo spesso a parlare di Vanessa. Da quando l’hanno arrestata, tutti sanno che è una pedofila. Ha molestato un ragazzino della scuola media dove insegnava Religione durante un rientro pomeridiano. C’era qualcosa che non andava in lei, dicono. Anche suo padre era un viscido, dicono. Sono cose ereditarie, dicono. Ha fatto due anni di domiciliari. Mi ricordo quando il prete ha chiamato noi ragazzi in parrocchia e ci ha chiesto se lei aveva mai avuto atteggiamenti inadeguati con noi. «Con me no», ho detto. «A parte quella lettera». Qualcosa è venuto fuori. «Non dobbiamo scordarci il bene che ha fatto», ha detto alla fine il prete. Mi ricordo anche quando, qualche mese dopo, una macchina si è fermata sotto casa mia – la Fontana, centro metri sotto, l’aveva vista prima di me – e ne è uscito il vescovo con la sua berretta magenta e ha chiesto a me e mio padre dove abitasse Vanessa.
Io e mia sorella siamo sul pendio in fondo al quale sorgerà il parco. Tre o quattro anni prima che succeda quello che succederà. Ci sono anche Alex e Laura con noi. È autunno. Dove si ergerà l’avello azzurro della Fontana c’è un campo di terra nera seminato di sassi simili a grandi denti. Stiamo costruendo una capanna. Ancora non è finita. Non lo sarà mai. Uno dei pilastri è un albero scheletrico. Contro il cielo stinto, con tutti quei rami storti, sembra un gigantesco carattere cinese. Leghiamo assi e rami, usiamo corde, chiodi, scatoloni, forse fil di ferro. Litighiamo per come proseguire il lavoro. Io faccio di testa mia. Decido che ci faremo un club privato. Nel pomeriggio mi siedo al computer, un vecchio Windows 95, e scrivo un regolamento molto stringente che illustra i diritti e i doveri dei membri del club. Combinando vari clipart su Paint, faccio anche uno stemma araldico, in stile Harry Potter, con il nome del club, che ora non ricordo, vergato in un font sanguinolento (credo fosse Viner Hand). L’ennesimo tentativo di fondazione.
Io e la mia migliore amica, Daniela, siamo nel parcheggio in cima al parco. Due o tre anni dopo quello che è successo. Nel parcheggio ci sono una Lancia Y, una vecchia Panda 4×4 rossa, uno Zip truccato, la roulotte dei vicini impacchettata in un sudario di nylon. In lontananza il cicaleccio della Fontana, sguaiato, amorale. Dietro di noi il colossale cilum della NOVOCHEM erutta il suo fumo dolciastro e mortifero, che sa di fiori di cimitero. C’è qualcun altro con noi, forse qualche ragazzina della nostra età o poco più piccola. Parliamo di sesso, nello specifico di fantasie sessuali. Abbiamo visto un porno a casa di Paolo, durante la sua festa di compleanno. Daniela dice: «Io a Paolo glielo farei un pompino.» Fa il gesto, ridendo.
Io e il mio cane siamo al parco, sul campetto da calcio. Dodici o tredici anni dopo quello che è successo. È inverno, la Fontana è spenta. Purtroppo non ghiaccia mai. Mi piacerebbe vederla ghiacciata. Il mio cane ha quindici anni. Si struscia con la pancia sull’erba bagnata. Respira veloce, ogni tanto si ode un rantolo. Si stanca facilmente, ma non vorrebbe mai rientrare a casa. Lo porto fuori un paio di volte a settimana. Poche. È quasi sempre chiuso nel recinto. Ogni tanto lo spazzolo, ma ha dei nodi molto spessi sul petto e sotto la pancia che bisognerebbe tagliare. Non lo faccio perché ho paura di fargli male. Di notte abbaia spesso. Penso che si senta solo. Lo sgridiamo perché sveglia i vicini. Ogni tanto lanciamo un bicchier d’acqua dalla finestra per farlo stare zitto. Morirà l’anno dopo, per un soffio al cuore. È per quello che respirava male. Non c’era niente da fare. Avremmo potuto dargli delle medicine, ma spendere tutti quei soldi per un animale non è giusto. Me lo ripeto, ma non ci credo. L’ho trovato io, quella mattina, dietro il recinto, ancora caldo, la lingua sul selciato, gli occhi spalancati. È morto soffocato, ho pensato. Da solo. Mi sono sentito in colpa. Ma gli animali muoiono da soli, penso. Forse anche io morirò da solo. Nessuno dovrebbe morire da solo, penso. L’abbiamo seppellito dietro casa, sotto un albero. Quando vado a trovare i miei e scendo le scale dell’ingresso, mi viene da girarmi per vedere se lui c’è, dietro il recinto. Non c’è più nemmeno il recinto.
Io e mia sorella siamo sulla strada che corre parallela al pendio in fondo al quale sorgerà il parco. Uno o due anni prima che succeda quello che succederà. È primavera. Siamo pronti a sfrecciare giù a tutta velocità sui nostri bolidi di legno e metallo. Io sono appena stato al bar con mio padre. Ci andiamo sempre il sabato dopo pranzo. Lui fa qualche partita a carte e io spendo le mie cinquemila lire in Kinder Cereali e partite a Metal Slug. Oggi però mi sono annoiata perché un ragazzo più grande ha occupato il videogioco quasi per mezz’ora. Ora, per fortuna, posso rifarmi. Io e mia sorella siamo in cima alla strada, pronti per la sfida. Alex urlerà «Via!» da un momento all’altro. La pendenza è piuttosto lieve, ma la discesa è abbastanza lunga. Passa davanti a una fila infinita di case, compresa quella della signora che ha appiccicato alla buchetta della posta l’adesivo In questa casa non sono graditi i testimoni di Geova e quella del vecchietto in pensione che la sera, durante le veglie di quartiere, racconta di improbabili avventure, ispirate a qualche film di spionaggio, di cui si vanta di essere stato protagonista in gioventù. Gli è morto il cane da poco. Un bel cocker grigio fumo, flemmatico. Gli ha anche fatto fare la chemio. Io e mia sorella siamo in cima alla strada, bellicose, all’erta. Saliamo sulle caratelle costruite da mio padre. Sono dei bassi carretti di legno con le ruote fatte da cuscinetti di metallo ben oliati e delle redini di corda per sterzare. Prendo la ricorsa e butto il peso in avanti. La caratella prende velocità. Gli alberi del vialetto si disfano di fianco a me come un dipinto di Pollock. La manica del giacchetto di jeans finisce sotto il cuscinetto destro. Cado, mi sbuccio un ginocchio, il giacchetto si strappa. Mia sorella arriva prima.
Io e i miei amici (di cui ora fa parte anche mia sorella) siamo al parco. Ventuno anni dopo quello che è successo. La Fontana, ora, tace. L’hanno da poco interrata, foderando la fossa di nylon e riempiendola di terra nera. Ci hanno piantato dei fiori scarlatti, ma gli addetti al verde pubblico non passano più spesso come prima, quando gli alberi erano ben potati e le aiuole sempre perfette. Il barbecue pubblico, tutto annerito, è pieno di sporcizia, lattine, sigarette. Io non abito più sopra il parco. Ora vivo con Eric in centro. Mi manca quel posto. Ci torno spesso, quasi settimanalmente, oltre che per andare a trovare i miei, per passeggiare lungo il fiume. Quando torno, il tanfo della NOVOCHEM, a cui non sono più abituato, all’inizio mi nausea. Ma è una nausea che non mi dispiace, perché per me significa casa. Io e miei amici siamo al parco. È una sera di fine primavera. Una volta ogni tanto ci vediamo al campetto da pallavolo, che è di fianco a quello da calcio, e improvvisiamo una partita. Spesso siamo troppo pochi e dobbiamo giocare tre contro tre. Facciamo schifo. A parte Paolo, che se la cava bene, siamo delle schiappe. Non riusciamo a fare più di due palleggi consecutivi. Facciamo la maggioranza dei punti grazie agli errori dell’altra squadra. Ma è divertente. Ci prendiamo in giro. Mia sorella mi dice che devo smetterla di dire agli altri quello che devono fare. Ha ragione. Lei, però, non prende neanche una palla. Non ci prova proprio. Nella sua goffaggine esibita fa molto ridere. Rimette la palla con un calcio spastico. La palla supera l’alta recinzione e finisce fra le piante di pomodoro sul retro di una casa che è una volta era una trattoria. Costringiamo mia sorella ad andare a suonare. Lei, a trent’anni suonati, lo fa. Va a suonare al campanello per recuperare una palla finita nel giardino. Come se ne avesse dieci, di anni. Apre la badante. Abbiamo svegliato il proprietario di casa. La badante fa entrare mia sorella nell’orto e recuperiamo la palla fra gli sghignazzi.
Io e i miei amici (mia sorella ha iniziato da poco a uscire con noi) siamo seduti sul bordo della Fontana. Quattro o cinque anni dopo quello che è successo. È autunno. Gli alberi sono spogli, le foglie secche ci ridacchiano sotto i piedi. In fondo al prato, dietro la recinzione, la scuola dell’infanzia che molti di noi hanno frequentato giace ormai abbandonata, con i cancelli chiusi, i vetri rotti e la vasca dei pesci piena di foglie marce. Dovevano farci un circolo giovanile o qualcosa del genere, ma non se n’è fatto niente. «Guarda che Davide ti viene dietro», mi dice Claudia. Davide è quello che è stato molestato dalla nostra catechista. «Impossibile», dico io. «Da quando sei dimagrita, è cotto di te», mi dice Claudia. «Ma se l’anno scorso non faceva altro che prendermi per il culo», dico io. «L’anno scorso», dice Claudia. Davide è bellissimo, insieme raffinato e sbruffone. Suona il piano quattro ore al giorno. Ascolta Eminem, di cui sa a memoria tutti i testi più spinti. I miei amici insistono. Non sono molto convinta, ma ci provo. Lui ci sta subito. Pomiciamo, guardiamo qualche film sul divano di casa mia quando i miei non ci sono, gli faccio anche una sega, ma niente da fare: anche se è un gran figo, anche se vuole proprio me con tutte quelle che gli fanno il filo, io non ci riesco. Il suo sguardo lavico mi intimorisce. Mi piace, anche parecchio, ma in un modo tutto mentale, obliquo, remoto.
Io, Daniela e Paolo siamo al parco. È una sera inoltrata di ottobre. Cinque o sei anni dopo quello che è successo. La NOVOCHEM eiacula nuvole fungiformi dietro di noi. Di notte il fumo che esce dai camini raddoppia. Qualche settimana fa i proprietari hanno appeso un cartello fuori dallo stabilimento: Si prega i cittadini maleducati di non lanciare escrementi di cani al di là del cancello. Bene che fanno, invece, ho pensato. Meriterebbero una medaglia al valore civile. La Fontana davanti a noi sbiascica rosari liquidi. Beviamo birra e fumiamo Marlboro al mentolo. Chiacchieriamo del più e del meno. Il discorso finisce sulla compagnia del bar. «Sai cos’hanno fatto?», mi dice Daniela. «No», dico. «Sono andati al ponte, a vedere le messe nere». «Le messe nere?», chiedo io. «Sì, le messe nere», fa Daniela. «Ma sta’ zitta», interviene Paolo. Daniela di solito racconta un sacco di balle per prenderci in giro. «Vi giuro, ragazzi. Sono partiti dal bar in tre, quattro, chi col cinquantino chi con l’Ape, e hanno risalito il fiume fino al ponte sulla cascata.» «E poi?», chiede Paolo. «E poi li hanno visti, lì sotto. Gente incappucciata con delle torce». «E cosa facevano?», chiedo. «Non lo so», dice Daniela. «Comunque si sono accorti di loro. Sono dovuti scappare. A quello con l’Ape non entrava la retro, ma alla fine sono riusciti a tornare al bar». «Ci prendi per il culo», dice Paolo. «No, vi giuro», dice Daniela. «La mattina dopo hanno trovato i resti di un falò. E del sangue sui sassi. E anche delle penne di pollo.» «Forse hanno fatto un sacrificio» dico io.
Io, Daniela e il mio ex siamo nel parcheggio in cima al parco, davanti al garage di casa mia. Dieci o undici anni dopo quello che è successo. È inverno. Sotto di noi la Fontana canticchia il suo Lied di periferia fatto di sciabordii e soffi, simili a quelli che producono i saxofonisti quando succhiano l’ancia o quando fanno il vibrato. È l’ultimo dell’anno. Abbiamo preparato il garage per una festa. Mio padre ha preso il tavolo da esterno dal cortiletto sul retro e ci ha unito un tavolone con dei cavalletti. È leggermente più alto dell’altro. Ho cercato invano di nascondere con la tovaglia di carta lo scalino. Mentre Daniela accendeva la stufa a legna, io e il mio ex abbiamo apparecchiato con le solite stoviglie di plastica, abbiamo appeso dei festoni e abbiamo decorato le biciclette agganciate al muro con delle luci di Natale che mio padre non usa più. Ho anche preparato una lunga playlist di mp3 su Media Player. Indie rock, punk, metal, ma anche roba più commerciale che possa piacere un po’ a tutti. La musica, però, la terremo bassa. Perché il giorno prima la mia vicina di casa si è sparata. Nella cucina di cui vedo la luce accesa dalla finestra di camera mia. L’ha trovata la figlia. Ha lasciato un biglietto in cui diceva che non ce la faceva più. È morta da sola come un cane, dicono. Ha smesso di prendere i farmaci, ha fatto tutto da sola, dicono. Anche sua madre si era ammazzata, dicono. Sono cose ereditarie, dicono.
Io, Claudia, Paolo e mia sorella siamo al parco. Dodici anni dopo quello che è successo. C’è anche Eric. È luglio. Sfruttiamo il barbecue pubblico per fare una grigliata. Il crepitio del fuoco fa da controcanto a quello della Fontana. Io sono nella mia fase vegetariana. Ho fatto degli spiedini di melanzane, zucchine e pomodori, ma ho tagliato le verdure troppo spesse e non si cuociono mai. Nessuno è davvero bravo a fare la brace. Sudiamo davanti al fuoco. Ora i tizzoni si spengono ora il fuoco manda vampe troppo alte. Bruciamo le salsicce. Alla fine mangio le salsicce anch’io. Abbiamo portato troppa roba. Patatine, bibite, dolci. Beviamo, soprattutto vino e birra. Dopo cena vado a prendere la chitarra nel garage. Io e mia sorella ce la litighiamo e finiamo a strimpellare pezzi che gli altri non conoscono. Il cocomero è caldo. Anche la birra è calda, ormai. Siamo tutti un po’ brilli. Paolo dobbiamo accompagnarlo in macchina perché ha bisogno di dormire. Io ed Eric ci infiliamo dietro un cespuglio vicino alla scuola abbandonata. Ci conosciamo dalla gita in quarta superiore a Dublino. Ci piacciamo da sempre, ma io ho avuto altre relazioni, anche con ragazze. Io ed Eric ci baciamo. Un bacio umido, che sa di vino e sigarette.
Sono sul letto. A casa mia e di Eric. Ventidue anni dopo il fatto. Lui dorme già da un po’. Io non riesco a prendere sonno perché continuo a pensare a quello che è successo. È diventata un’ossessione. Non conosco bene i dettagli. So solo che all’epoca costruivano il Parco Kennedy, che per noi sarebbe stato sempre solo la Fontana. Stavano scavando le fondamenta o qualcosa del genere. Improvvisamente un operaio, di cui non so il nome né ho mai visto il volto, mette il piede in fallo e precipita in una buca profonda una decina di metri. La terra gli frana sopra. Gli altri sono in pausa pranzo. Tutti, a parte il manovale, un ragazzo di neanche diciott’anni. Non esita un istante. Ha visto il suo collega rovinare oltre l’argine. Pensa che stia soffocando sotto terra. Sale sullo scavatore, lo accende. Anche se non ha né l’età né la patente, ogni tanto glielo fanno guidare, un po’ per gioco un po’ per necessità, perché è un tipo sveglio. Fa qualche manovra, tira le leve. La benna si abbassa, simile a un palmo aperto. Basta un movimento. In un’istante gli apre la testa. L’operaio muore sul colpo. Ora, steso sul letto, ripenso a quando mi stendevo sul bordo della Fontana e per un attimo mi sembra di sentire il suo mormorio. Mi chiedo che cosa ha sentito quell’uomo quando è rovinato oltre l’argine, quando la terra l’ha stretto nelle sue spire. Se ha capito che qualcuno lo stava per salvare. Se per un attimo ha pensato «Grazie al cielo non morirò oggi.» Mi chiedo se ha sentito qualcosa quando la ruspa l’ha morso sulla testa. Ha capito cosa stava succedendo? Lo vedo che piega il capo di lato, che annaffia il guanciale di terra. Vedo il sangue rosso che zampilla sulle zolle nere. È lui la Fontana. Mi chiedo anche cos’ha provato in cima all’escavatore il ragazzo quando ha accostato piano piano la benna alla nuca del collega, come un padre che si china sul figlio addormentato sul divano per portarlo a peso in camera, quando l’ha sfiorato con quella gigantesca protesi di metallo e ha visto la sua testa aprirsi come un acino d’uva, quando ha visto il suo corpo arrendersi come un millepiedi che si spezza. Mi chiedo cosa fa ora, quanti anni ha, quanto spesso ci ripensa. Penso al ragazzo, penso all’operaio, penso ai bambini che oggi giocano a calcetto dieci metri sopra l’epicentro del suo grido e storcono per gioco gli ugelli che sbucano dalle vasche interrate. Percepiscono qualcosa di strano nell’aria? Sentono l’eco di quello che è successo? A volte penso che eventi del genere lascino una specie di vibrazione fantasma nell’aria, che non svanirà mai del tutto. Mi chiedo se i cani che orinano sugli alberi e alzano il muso fra le aiuole sentono qualcosa. Forse anche il mio cane lo sentiva. Forse è per quello che respirava male, non per il soffio al cuore. Ripenso all’operaio, di cui vorrei poter conoscere e pronunciare il nome, in trappola in fondo alla buca, come un bambino sulla spiaggia tumulato nella sabbia fino al collo. Penso che è lui la Fontana. Che il parco sorge sulla sua tomba vuota come un nostro Vaticano. Penso all’orrore di ogni azzurra fondazione.
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