Testo e foto di Amanda Rosso
Ho riscritto questo pezzo tre volte. Mi riservo il diritto di pensare che questa non sia quella definitiva.
Nella prima, ho usato l’ironia: l’ho intitolato “Londra fa schifo” e mi sono abbandonata all’indisciplinato dileggio di una metropoli snob, narcisista e inabbordabile, sguazzando nel senso di superiorità morale che è l’unica difesa di chi si misura quotidianamente con la distanza dal privilegio. C’erano un sacco di verbi al condizionale e un sacco di sicumera. Accorciavo la distanza dal privilegio con una studiata selezione di aneddoti sulla “gentrificazione selvaggia”, “professionisti rampanti” e scenari ipotetici dal potenziale metaforico, che avevano la responsabilità doppia di incapsulare l’essenza della chiassosa solitudine metropolitana e lucidare la corazza ammaccata del mio senso dell’umorismo. A essere onesta, c’era anche una battuta su Timothée Chalamet e una bicicletta a noleggio sul red carpet, che ho tagliato perché suonava un po’ troppo come un inside joke.
Di quella versione, voglio tenere solo una frase, appiccicata a questo testo come un post-it:
Il mio problema è che la fantomatica essenza di Londra, se qualcosa di simile è mai esistito, sta nella sclerotica compresenza di centinaia di corpi stipati nello spazio, e della distanza siderale che li separa. L’essenza di Londra è il delirante ipnotismo della sopravvivenza, l’autoinflitta panacea della routine che si imprime addosso e, come direbbe la mia saggia amica sciamana, nell’energia.
In questa versione, ho usato l’umorismo come autodifesa, per parlare di Londra e non di me, per usare il lamento idiosincratico della stand up comedy per infarcire il silenzio che ho imposto alla mia esperienza.

Il secondo tentativo era un gioco di specchi leggermente più acculturato. Chiamavo in causa Samuel Johnson, intellettuale del Settecento che ha coniato la frase “Chi è stanco di Londra è stanco della vita”. L’ho usato come testa d’ariete per parlare di classe. Ho dato erroneamente per scontato che il buon Johnson fosse un aristocratico pomposo che aveva vissuto una Londra di salotti e scones. Come spesso accade quando si fa ricerca, la mia hybris è stata castigata da un Samuel Johnson underdog di provincia in bancarotta, incapacitato a trovare lavoro come preside per via di una Tourette ante litteram. Un escluso, che aveva trovato a Londra una patria ideale: sporca, fumosa, maleodorante, ma soprattutto indifferente e abituata a ignorare i suoi tic. Ma anche un poeta che aveva modellato il suo primo poema, London, sulla terza satira di Giovenale, e il suo protagonista era un alter ego esausto della criminalità e il caos della metropoli, che finiva per trasferirsi in campagna. Ho intitolato quella versione, “Londra è bellissima, Londra fa schifo”, e l’unica frase che posso salvare di quella versione – che non aveva nemmeno l’impalcatura dell’ironia a intrattenere chi legge – era
Forse Johnson non ci voleva impedire di essere stanche di Londra; forse ci voleva concedere il lusso di essere stanche della vita. Forse Londra è uno di quei rari posti dove essere stanche della vita non è che un’altra declinazione di appartenenza
In questa versione l’autodifesa erano i fatti, possibilmente accurati abbastanza da non sfociare mai nell’intimità. La biografia come distanza siderale da sé nel tentativo di parlare di sé.

Il terzo e fino a ora ultimo approccio alla scrittura era un informe tentativo di dialogo con Natalia Ginzburg, vissuta a Londra per qualche tempo negli anni Sessanta assieme al marito che era direttore dell’Istituto Italiano di Cultura. È stato un tentativo felice, perché mi ha offerto una scusa per rifugiarmi nella scrittura di un’altra persona, lo spazio di accoccolarmi nella comodità della citazione, nel far riferimento alle parole di altre in cui mi riconoscevo, e di cui mi sono circondata in questi dieci anni da esule volontaria in questa città che rigetto perché ne anticipo il rifiuto. Riconosco il rischio di metafora sovraestesa nel far conflagrare la mia esperienza con quella di chi ne ha scritto prima, e allo stesso tempo ammetto la necessità di ricondurre la mia esperienza a una genealogia letteraria che mi possa accompagnare nel pellegrinaggio ostile verso i luoghi della vulnerabilità, quello della casa e quello della fuga, il complesso formarsi e definirsi delle radici e l’abitare uno spazio altro che ancora non ha trovato definizione.
In una lettera a Ginzburg del 1961, Italo Calvino commenta Le voci della sera, il romanzo che lei gli ha mandato per un parere. Calvino scrive che “[q]uesto Piemonte, ora che ne sei lontana, mentre prima sempre lo sfumavi e lo genericizzavi, ora ti esce fuori da tutti i pori.” Natalia Ginzburg ha scritto il suo romanzo più piemontese a Londra, una città che per Ginzburg era come Istanbul per James Baldwin, un luogo esule dalla responsabilità di performare il suo ruolo di scrittrice italiana antifascista nel Dopoguerra. Baldwin – estirpato da Harlem, trapiantato a Parigi e poi in Provenza, ma sempre scorniciato dal ritratto idilliaco di un’emancipata Europa postbellica – condivideva con Natalia Ginzburg una parentesi feconda in uno spazio altro, quello che sul The National la studiosa Suzy Hansen definisce elsewhere, l’altrove creativo, possibile, la distanza geo-emotiva che mette a fuoco le venature e i bitorzoli delle radici.
Allo stesso modo, in un’intervista per una tv canadese, Alba de Céspedes definiva Parigi come uno spazio scelto, uno spazio oltre le responsabilità letterarie ma soprattutto politiche che sentiva verso l’Italia e Cuba, terra della memoria ma anche dell’utopia socialista, delle gesta degli avi che sentiva di dover emulare. La Cuba di Castro e delle aspettative famigliari.
Di questa ultima versione, voglio conservare la possibilità dell’Altrove, ma anche il mio posizionamento in relazione al raccontare e abbracciare l’idea di emigrazione slegata dalla sopravvivenza e la necessità, e al privilegio che questo rappresenta.
Questo è un testo in divenire. Per stare dentro al testo bisogna anche saper incorporare che la sua gestazione non è mai neutrale. Non solo la posizione di chi scrive diventa linguaggio e anche contenuto, ma anche messaggio. Io sto dentro al testo che scrivo con lo stesso privilegio di Natalia Ginzburg? No, ma nemmeno devo misurarmi con la sua completa assenza, con il silenzio di chi, mentre io scrivo, sta lavorando, è in fila all’ambasciata, in posta, in tribunale, in un limbo burocratico, in un Detention Centre. Scrivere che Londra fa schifo o che Londra è bellissima, significa avere il tempo di dire.

In questa ultima, precaria, versione, ho deciso che devo ibridare Londra con il mio corpo, una lingua bernoccoluta, e la vergogna insita nell’esistenza precaria di chi non sa come trarre vantaggio dalla possibilità. Nel febbraio del 2014, quando mi sono trasferita, senza alcun piano strategico o prospettiva, Londra aveva già cominciato la sua inesorabile discesa verso gli oscuri anfratti della città vetrina. I punk di Camden erano solo un circo itinerante di marchettari in costume, Notting Hill una cartolina di pittoresco nulla di casette dipinte con colori pastello, e magioni di miliardari con la Porsche parcheggiata sul marciapiede (gli stessi che poi fanno le barricate per “proteggersi” dai bagordi del Carnevale di Notting Hill, che sta lì da molto prima che i loro padri e nonni facessero i soldi con la speculazione edilizia). Persino Brixton, da ghetto invalicabile e roccaforte del reggae era diventata centro sperimentale di gentrificazione selvaggia. Ho vissuto per più di un anno in un ostello popolato da personaggi da sit-com d’avanguardia multietnica degli anni ’90, mescolati come ingredienti in procinto di scadere in una pastasciutta dello studente. Personaggi dickensiani, plasmati allo stesso modo dalle aspettative gloriose di famigliari e amici back home, e la tragicomica rassegnazione di quella particolare cerchia di immigrati che si muove non più per cercare fortuna, ma per non stare ferma. Emigrazione per tentativi ed errori che non può contare su una letteratura precedente, riferimenti bibliografici, un patrimonio di esperienze a cui fare riferimento. Una generazione di emigranti che, se voleva leggere della propria, peculiare esperienza di frammentazione e transumanza, doveva scriversela da sola.
In tutti questi anni, non ho mai scritto di Londra. Come Ginzburg, sono tornata indietro, ai racconti degli avi e delle antenate, all’idealizzato ritmo semplice e casalingo del mio paese d’origine, alle mancanze e agli abbandoni, ai ritorni e la nostalgia. A Londra vivevo, ma esistevo in uno spazio di sradicamento, uno strappo dai contorni indefiniti di un italiano che stavo perdendo e di un inglese che rifiutava di schiudersi.
Non poteva quindi essere Mrs. Dalloway la mia maestra e ammaestratrice di quotidianità londinese, e nemmeno Zadie Smith, anche se avevo divorato il suo Denti Bianchi con una ferocia incontrastata. Dorian di Will Self, era una lettura troppo complessa e frustrante per il mio inglese ancora nell’incubatrice linguistica che sarebbe poi diventato un pastiche internazionale di accenti e intercalare. A un certo punto, nella primavera del 2015, Aleksandar Hemon è entrato quindi nella mia vita con la sua esperienza migratoria completamente differente dalla mia. I suoi personaggi, via via sempre più autobiografici, approdavano negli Stati Uniti mentre in Bosnia, la nazione d’origine di Hemon, impazzava quella guerra civile insensata che, prima di abituarsi allo stato di guerra continua, sarebbe stato il boogieman di almeno un paio di generazioni. La nostalgia di Hemon verso una casa e una terra che aveva perso i connotati della sua memoria mi ipnotizzava di continuo. La biografia incrociata dei suoi genitori con la propria, la presa di coscienza che la realtà è un concetto aleatorio, rivestito da molti strati della polvere di fata della letteratura, perfino, e forse più di ogni altra, da quella autobiografica. Ma anche Hemon, pur nella casualità raffazzonata dei suoi lavori saltuari e pittoreschi, delle partite di calcio internazionali che organizzava in un campetto di quartiere a Chicago, alla fine ha trovato un posto. Io ho solo cercato nei libri lo spazio eterotopico di cui parlava Foucault, che potrebbe essere utopia ma non è, eppure funziona come camera di decompressione dalle radici e dalla destinazione: la Istambul di James Baldwin, la Parigi di Alba de Céspedes, e la Londra di Ginzburg, appunto.

Per me Londra ha smesso da tempo i lustrini del primo incontro, ma non è mai diventata casa.
Londra è il posto dove ho prima perso la lettura, e poi la scrittura. È un altrove artefatto dove ho perso la parola, e dove il tentativo di riappropriarmene passa attraverso il fallimento.
Londra diventa inevitabilmente udito: è il lamento agghiacciante delle volpi la notte, uno stridio che sembra voler punire chi tace e ascolta, anziché riempire il silenzio con le distrazioni continue di una metropoli fagocitante. Ma sono anche le conversazioni frastagliate e disturbate dalla frequenza del caos che si captano per caso sull’autobus. Una madre e un bambino di pochi anni, forse sei; lui un perfetto accento posh, londinese, cantilenante come se ne trovano solo qui, uno zigzagare di note alte e basse, un ritmico alternarsi di una lingua imparata come una partitura musicale. Lei con il suo staccato rivelatore, la mancanza delle nasali, la musicalità tutta diversa, figlia di altre latitudini. Mi chiedo se al suo orecchio questo figlio così distante e impettito, squadrato come le sue t, non diventi estraneo, se chiude gli occhi, come un Piccolo Lord qualsiasi della BBC degli anni Ottanta. Mi chiedo se l’inglese come linguaggio dell’intimità abbia fatto diventare le sue passioni altrettanto opache e didattiche, o se parlare d’amore in una lingua non tua ti possa proteggere dal ridicolo della completa nudità.
Londra è anche olfatto: un’alternanza di curry, piscio, profumi costosi, fritto, sudore, piedi, deodoranti per ambienti, ombrelli bagnati, disinfettante, fumo delle sigarette elettroniche. L’odore diverso che ha il cemento dopo la pioggia, l’erba bagnata e fangosa dei parchi, i supermercati, i pollini primaverili, la puzza muffosa dei basement, l’odore muschiato di birra rancida e legno umido dei pub. Il profumo intossicante delle catene di negozi di lusso, il marasma di corpi che si sfiorano sui marciapiedi, il retrogusto metallico delle scale mobili della metropolitana.
Londra è tatto: la moquette ovunque, pure sui sedili degli autobus, i pali di sostegno delle metro, la pelle e i capelli di altre persone, sempre tutti ordinatamente stipati in un’intimità imbarazzata.
Londra è gusto: quello che non hanno frutta e verdura, quello che abbiamo perso durante il Covid, quello che cerchiamo nelle botteghe etniche di quartiere, nel deli polacco, la pizzeria italiana, il formaggiaio francese, il macellaio halal. Il gusto, a Londra, è usare la sensibilità comune delle nostre papille gustative per ritrovare i lembi slabbrati di casa.
Londra è vista: un labirinto di specchi, dove sembra sempre che l’unico riflesso distorto, opaco e fallato sia il tuo. Forse in virtù della sua dimensione egocentrica e impermeabilizzata, ci si specchia nel rimosso di sé, come se chi la abita fosse il suo ritratto abbrutito, mentre Londra scintilla soddisfatta nel congestionato panorama urbano.
Nel suo esordio, che sto leggendo in questi giorni di fine gennaio, Tangerinn Emanuela Anechoum scrive che “ognuno esiste solo quando è visto,” e forse è tutta lì la falsa intimità di Londra – l’idea sfavillante di sterminata possibilità, la bugia che tutto sia sempre possibile, la presunta vicinanza con l’illimitato.
Eppure, al di là del corpo, della dimensione sensoriale che è cifra stilistica di ogni luogo, tutto quello che scrivo di Londra non è mai la mia storia, perché Londra può essere solo la storia di Londra. Chiunque ci abiti, anche da tutta la vita, è comunque preso in prestito. Londra fagocita gli spazi e gli interstizi del tempo, diventa protagonista rissosa e impaziente delle minuzie quotidiane, si staglia impassibile e formicolante sullo sfondo di ogni vicissitudine umana. Non è Londra che fa da sfondo alle memorie di un bacio imbarazzato dato a un ragazzo su una panchina di Central Park, perché mi aveva confessato di avere un occhio pigro e un alter ego di nome Nigel The Librarian, eravamo noi a interrompere quel one city show cheva avanti da molto prima di Johnson, di Woolf, di Ginzburg e Zadie Smith. Londra sarà sempre lì, ma tutti gli altri, come Thales nel poema di Samuel Johnson, verranno squalificati da questo gioco delle sedie psichedelico, dove al posto della musica, a finire, sono i soldi o i modi più o meno loschi di procurarseli.

Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso e mariel.
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Questo pezzo è geniale e vorrei averlo scritto io, su Berlino. Ma non serve perché sta già tutto qui. Ci ho ritrovato tutta l’ambivalenza del rapporto con la grande città straniera che ti seduce, ti schifa e ti uccide. Grazie!