Un pensiero d’acqua

di Francesco Fumarola
copertina di Chiara Casetta


1667 entrò nella casa di Meggy Bob che era un prototipo tutto nudo e unto di plastilina. Aveva braccia e gambe che fischiavano a ogni tocco, mezza calotta di cranio lucida, un innesto profondo per genitali. Arrivò con tutto il set di accessori per un’antropomorfizzazione veloce: muschio di copertura, una coppia di genitali di cristallo da inserire nell’innesto durante la fase II di crescita, peli di lapin. Arrivò vivo.

Si alzava, si abbassava, parlava, nel messaggio di benvenuto disse che era pronto a simulare mioclonie notturne dalle 22 alle 03. Era pure un po’ agitato quando Meggy Bob gli estrasse il tallocino di garanzia dalla pancia: 1667 con kit antro I e pompa sommersa. Fallo piangere. L’ultima parte era scritta a mano. Meggy Bob aveva parlato con il capo del governatorato la sera prima e si ritrovò 1667 in casa, il mattino successivo, già spacchettato, senza addizionali umane montate sul corpo, che sedeva sul divano con un bastone di liquirizia nella feritoia della bocca. «Fai capire a questo coso quando piangere», le aveva detto il capo, «poi lo vestiremo noi. L’abbiamo addestrato a piangere come a fare tutto il resto, però questo qui piange solo se glielo chiedi. I nostri clienti vogliono emozioni, non lavascale. Meggy, ti prego, fallo piangere».

Meggy Bob si mise in ginocchio alla base del divano e toccò la caviglia sinistra di 1667. «Mi senti?», urlò dritto nella caviglia. 1667 sputò la barretta di liquirizia in un interstizio tra due cuscini e annuì. Meggy Bob si aspettava che si incazzasse. «Bene», gli disse. «Ora piangi», e 1667 pianse, nel senso che attivò la pompa sommersa e tante bollicine salirono al simulacro di congiuntiva e da lì giù, lungo l’artifizio della pelle di naso e bocca. Meggy Bob lasciò che una goccia le saltasse sul dito e ne apprezzò la consistenza, con lo sguardo prima e la punta della lingua poi, nel mentre l’acqua continuava a scorrere dalla sommità di 1667 fino al pavimento. «Ora smetti di piangere», disse Meggy Bob, e 1667 smise di piangere, nel senso che disattivò la pompa sommersa e la corsa alla congiuntiva si bloccò. Meggy Bob controllò il livello della tanica lacrimale, fece un refill, spostò tutti i threshold della temperatura emotiva quasi al limite perché 1667 producesse del pianto spontaneo anche con impulsi di poca rilevanza. Ma quando, con un braccio a cavallo tra le cime dei deltoidi di 1667, lo tarò a innamorato fresco e gli propose in tv una carrellata di amori divorati, suicidi assistiti, ombre di morti assassinati, 1667, la pompetta, non l’attivò. Girò solo la mezza calotta lucida verso Meggy Bob e, visto che lei piangeva in abbondanza, le chiese: «Piango?» Lei annui più per il proprio dolore che per risposta, e lui pianse. 1667 era ancora sostanza prototipale, e Meggy Bob pensò, come le era capitato con molte altre giovani macchine, che avrebbe appreso il libero arbitrio del lacrimare con il programma di crescita e gli addestramenti a venire.

Nei giorni successivi gli fece trascorrere ore e ore con altri addestratori umani – di cui si serviva quando riteneva l’addestramento in solitaria strada non percorribile – che popolarono la casa come cimici domestiche, lo ascoltarono e gli diedero rinforzi, e però 1667 piangeva a comando e a comando soltanto. Tuttavia, dovunque vi fosse necessità di lacrimare per simulare l’umano dolore o l’umana gioia – che gli addestratori gli avevano procurato con ogni espediente – lui non piangeva. «Perché non piangi?», chiese Meggy Bob. «Io piango», rispose 1667, «piango quando vuoi tu. Vuoi che piango ora?» La plastilina del viso si mosse male, la mimica facciale era ancora tutta da completare e ci fu una mezza smorfia spigolosa, con un po’ di orrore in mezzo ai movimenti. Aveva imparato a fare tante cose nuove, 1667, come i protocolli d’addestramento prevedevano, ma capire se piangere, questo no. E così, qualcuno degli addestratori comunicò a Meggy Bob che il caso era critico e la macchina, a suo dire – e a dire pure di tutti gli altri – presentava difetti di progettazione non colmabili con nessuna tecnica di addestramento di cui si conoscessero manipolazioni. Quando quelli svanirono e la casa fu vuota, la telefonata di Meggy Bob con il capo del governatorato, suo ex marito, ebbe toni secchi.

«Mi servono altri prototipi da compagnia. Questo non piange», disse Meggy Bob.

«Deve piangere».

«Chiediglielo e piange».

«Deve piangere per i cazzi suoi».

«Non piange».

«Meggy, fallo piangere».

«Non piange. Mandami altri prototipi da compagnia e vediamo».

«Quanti ne vuoi?»

«Tutti. Me li devi mandare tutti».

Dodici macchine da compagnia vissero per un mese nella casa di Meggy Bob. 1667 se li fece amici, parlavano tra loro, s’allenavano a fare specchio alle ironie umane, ballavano. Meggy Bob era convinta che l’addestramento macchina-macchina fosse più efficace di quello uomo-macchina per una sorta di paradigma che atteneva più all’intuito che alla scienza. Discorrevano tra loro e con Meggy Bob, sorgevano fili di libero arbitrio, giocavano a rugby in sala da pranzo con i copripalla d’elettronica ammortizzante per non rovinare il barocco dei candelabri. Eppure, quando si trattava di attivare la pompetta per lasciar salire acqua e sali su per la congiuntiva, ecco che il fluido non viaggiava in superficie senza che qualcuno vi avesse posto comando, che fosse comando di umano o comando di macchina. Queste macchine, di propria iniziativa, non piangevano mai. Alcuni modelli erano più moderni, quasi a fine addestramento, già vestiti e umanizzati molto più di 1667, avevano le gote rosse e i capelli. Eppure non piangevano.

Passò del tempo, e visto che le macchine di sputare liquido dietro stimolo emotivo non volevano saperne, Meggy Bob pensò di rimettere mani a un suo vecchio lavoro nel quale aveva provato a dare vita a uno sputo di drago di Komodo nell’intervallo tra l’uscita dalle fauci e il toccare terra. Lì, mentre volava, lo sputo diventava una falena albina mantenendo il colore della saliva con la rinuncia a un filo di trasparenza. Quell’esperimento gli riuscì a metà, nel senso che poi la falena albina crollava sempre al suolo e non volava più. Tuttavia, visto che di liquido si trattava, Meggy Bob ricordò le vecchie deduzioni di progetto e solo allora pensò di spostare il problema più in alto e mettere intelligenza alle acque. O meglio, nell’era delle specializzazioni vibranti, del tutto che si scompone in parti emancipate e autonome, se la macchina non piange, che si metta cervello all’acqua perché a piangere non sia la macchina, ma la lacrima stessa, morbida e liquida periferia del tutto. Estrasse la tanica lacrimale dalla pancia di 1667 e lo lasciò sopravvivere per casa con un foro rettangolare a ridosso dell’ombelico dove, nei momenti di svago, 1667 conservava il bastone di liquirizia infilandolo tra i due incastri di montaggio della tanica come fosse il palo di una finestra di gattabuia. Lo scompenso gli aveva provocato un’oscillazione durante la deambulazione che lo faceva un po’ zoppo. Avendo ora l’acqua quale materiale di lavoro, Meggy Bob pensò subito a come spicciarsi con la questione della lacrimogenesi: una volta messa intelligenza a una pozza d’acqua così che si attivi quando arriva il sentimento, questa deve eccitarsi e gestare i suoi figli, piccole forme d’incesto liquido con la medesima intelligenza dell’acqua che li ha generati. Ora, queste gocce, caricate a dolore, peccato, gioia, devono inerpicarsi e gonfiarsi lungo la via e prendere forme delle più magnifiche. Meggy Bob utilizzò le stesse pagine del vecchio progetto sullo sputo del drago di Komodo – mezzo taccuino era rimasto vuoto – e iniziò a disegnare un 1667 stilizzato sul quale piazzò varie vie per le gocce: alcune attraversavano la punta del naso e saltavano, altre arrivavano in bocca, altre erano talmente appassionate a scorrere sulle forme del corpo che arrivavano all’alluce volando su torace e pube. Popolò quindi queste vie con forme di gocce, vi disegnò allungamenti e stiramenti di modo da individuarne un quoziente estetico per dare colore alla progettualità. Poi progettò e infine addestrò l’acqua che, d’altronde, era il suo lavoro. Non fu facile rendere davvero autonoma la goccia. Il compito, tuttavia, si rivelò più semplice che far piangere 1667 nella sua interezza. Il sistema fu progettato perché ogni tanica d’acqua addestrata fosse piazzata all’incirca nell’alloggiamento che agli umani è riservato al cuore, poco sopra al ventre che la ospitava prima, riempito ora con soffice lana di roccia. Il motivo della posizione diversa aveva a che fare con i capricci oscuri della gravità. La tanica fu realizzata con tutti i crismi delle cose autonome e collegata alla macchina in modo da ricevere suoni e immagini dalla macchina stessa e restituire gocce attraverso un tubicino, di quelli da aerosol. Queste gocce, appena nate, avevano già una capoccia pensante e sapevano come assottigliarsi, gonfiarsi, affrettarsi, a seconda dell’umano bisogno che si trovavano a imitare. A parte il rattoppo sul ventre, 1667 era rimasto lo stesso: parlava, saltava, ciucciava liquirizia, guardava la tv legandosi a Meggy Bob in abbracci plurimi. Quando Meggy Bob gli parlò dello sventramento di una rana per scopi alimentari, tuttavia, quello finalmente pianse da solo, e pianse per ogni setting di temperatura emotiva che Meggy Bob cambiò. E difatti non era lui che piangeva, ma la stessa acqua della tanica che, addestrata com’era, s’eccitava e saltava in superficie a menar dolori. Ce l’aveva fatta, Meggy Bob. Chiamò il capo del governatorato.

«1667 piange», disse Meggy Bob.

«Piange per i cazzi suoi?»

«Piange come deve piangere».

«Dobbiamo addestrare anche gli altri, formami qualche collaboratore e poi per me puoi andare».

«Devi solo cambiargli l’acqua. E non mi dici tu dove andare».

«Che?»

«Ti mando un flacone. Versala in un silos del quadro A, che sia asciutto. Poi aggiungine 50 litri di nuova ogni 24 ore. Sempre così, fino alla fine del mondo. Sarà la tua coltura. In ogni caso ti invio le istruzioni, non allarmarti come sai fare solo tu. Imbottigliala in flaconi da 1000 millilitri e distribuiscila. Non voglio usare la mia fantasia, ampiamente sviluppata, per la tua etichetta. Inventati il brand, porco».

Dopo un anno, con questa cosa delle lacrime le macchine finalmente sembravano complete, umanizzate e “da compagnia”, come le pubblicizzò il capo del governatorato, ex marito di Meggy Bob, quando fondò il brand che aveva un nome orrendo e di cui non parlerò.  Il commercio dei flaconi d’acqua addestrata da 1000 millilitri, che eran giusti giusti per piangere una settimana, si fece sempre più florido allorché, con la produzione di massa, i prezzi s’atterrarono a valori da acquisto universale. Gli umani adoravano avere giocattoli da compagnia in casa, stringere loro le mani e parlar loro di vizi, insuccessi, lutti, e desideravano che i propri fluidi si guardassero allo specchio e si vedessero accompagnati da acque addestrate che non sapessero di plastica. Il processo di addestramento, con il tempo, era andato specializzandosi e, dopo l’acquisto di una macchina da compagnia, il cliente sceglieva i pianti da abbinarvi. Quando la tanica era vuota, poteva provarne di diversi per i refill. Nonostante ve ne fossero di “tagliate” a lutto, o “tagliate” a fisico dolore, le più vendute – e costose – restavano le universales, flaconi che s’adattavano a ogni impulso e, quanto meglio si adattavano, tanto più costavano. Quello di cui Meggy Bob non aveva fatto menzione, tuttavia, fu che, dopo l’addio a 1667 e a tutta la faccenda delle lacrime, iniziò a percepire, a intervalli non regolari, come dei rumori che sapevano di battito di labbra, degli schiocchi. E questi suoni andavano e venivano in mille anfratti della casa, in posti diversi, pur se esistevano come dei cluster a alta probabilità di suono dove i rumori si esprimevano più spesso e più forti. Insomma, quello di cui nessuno s’accorse fu che queste lacrime, una volta scappate dall’artifizio del condotto lacrimale della macchina, non perdevano né d’intelligenza né d’astuzia e continuavano, diciamo, a campare. All’inizio l’unica causa di morte era l’essiccamento, fin quando quelle, vista l’intelligenza che gli era stata messa in corpo, capirono, in caso di calura, come prendere acqua dall’atmosfera e di questa ubriacarsi. Una volta innestata nel troncone principale della goccia, l’acqua prelevata vi si univa, reintegrandola del perso. Si spostavano, le lacrime, strisciando alla maniera delle serpi e, vista la materia di cui erano fatte, nel caso di calpestii, urti, botti, tornavano subito come all’inizio, fresche unità umide piene di forza. Fu così che le lacrime, mancandogli la morte, iniziarono a popolare il mondo d’acqua viva espulsa dalle macchine. Questi schizzi, da principio avvezzi a una natura solitaria, si aggregarono presto in comunità. Le gocce di comunità non provenivano quasi mai dalla stessa macchina, si sparpagliavano da principio e si accoppiavano poi a gocce che ritenevano affini sulla base di qualche algoritmo di prossimità prodotto dall’intelligenza che gli avevano messo addosso.

Un giorno di aprile, nel mentre lampi e luna si assecondavano con virtù taumaturgiche, Meggy Bob sognava con una specie di tremolio ai piedi su un futon a due piazze. Mezza testa era sul cuscino e l’altra mezza su quattro assi che tenevano il futon al riparo dalla parete fredda che prendeva le intemperanze del Nord. Il braccio fuoriusciva dai contorni del letto e poggiava sulla spalla di un Bender Bending Rodriguez a pupazzo. Era in castigo su dei ceci rossi con un guinzaglio tenuto ben stretto da un’addestratrice che lo fustigava sul culo. The training experience, la targhetta. Il pupazzo era un omaggio dell’associazione addestratori quando Meggy Bob ne divenne la prima presidente donna. Oggi, di guinzagli a macchine, non se ne vedono più.

Quella notte il cluster dei rumori era localizzato sul sorriso del pupazzo. Meggy Bob aveva un sonno abbastanza profondo da non avvertirlo, eppure si mosse, e con lei il braccio che portò l’indice tra il culo del Bender e la frusta. Una fila indiana di gocce le scese sulla mano e da lì salì muovendosi dietro e avanti nei pressi del gomito, dondolando nella concavità di quella giovane vallata. Questo friccichio svegliò Meggy Bob. Piegò poco la testa e vide un popolino di gocce camminarle lungo le vie del corpo. Non riuscì a contarle tutte: da una parte s’era appena svegliata e le facoltà del far di conto non erano del tutto attive, dall’altra le gocce non si presentavano con una corposità tanto netta da lasciarsi riconoscere da una vista insonne. Due sembravano amoreggiare, si univano e disunivano con la stessa frequenza rumoreggiando come stropiccio di carta; due pareva saltassero in groppa l’una all’altra; le restanti erano quiete, quasi un unico pezzo d’acqua. Camminarono ancora, fino al collo di Meggy Bob, e questa non fece in tempo a dire un “Ehi” moscio che si infilarono tutte in bocca. Il sapore salato, tuttavia, svanì subito perché sculettarono fuori dopo aver litigato con dei filamenti di saliva appena nata. Si raggrupparono nei dintorni del naso entrando e uscendo dalle due cavità. Poi presero la via dell’occhio e lì, dal trampolino delle ciglia, si tuffarono. Meggy Bob avvertì una pienezza morbida nell’occhio, ammiccò e si alzò mettendosi con il culo sul letto, facendo dietro e avanti con la zazzera rossa. Saltò allo specchio e aprì per bene le palpebre, tenne la testa in giù e la agitò forte forte. «Andatevene», pensò. Gli occhi si asciugarono come se vi avesse passato una pezza.

Nei giorni successivi Meggy Bob in più occasioni avrebbe dovuto piangere, ma non ci riuscì. Sentiva l’emotività insidiarle la coscienza, maturare nel centro del petto, salire. Eppure gli occhi erano sempre asciutti. Pensò che le gocce si fossero aggregate in una mezza comunità di protesta e adesso, di uscire dal corpo, non ne volevano sapere più. Le pensò dialoganti a mezza via, dirsi di restare sotto, convincere le sue a non cambiare passo. Qualche giorno sentiva gli occhi lucidi, però le lacrime erano il suo arto fantasma, ne percepiva presenza senza vederne traccia, e pure l’umidità immaginaria passava subito e riappariva di nuovo il secco, come se si fossero pentite d’esser risalite alla luce e fossero tornate al buio del corpo.

Meggy Bob non pianse più. Sentiva dolori e ansie, tremava. Percepiva le gocce come componenti di un reflusso gastrico, come una cosa che sale, dà di amaro, rientra. Pensava ai suoi vecchi pianti, li desiderava, guardava il Bender con la frusta in culo e si diceva che 1667, anche senza frustate, adesso avrebbe pianto e lei, come 1667, avrebbe voluto piangere di fronte allo sventramento di una rana per scopi alimentari.


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1 Comment

  1. È il prezzo che pagheremo il giorno in cui delegheremo alle macchine anche i sentimenti.
    Bel racconto.

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