Il giorno in cui nacque Tacos

di Francesco Segoni
copertina di Marta Di Giovanni


Seduto sulla panca, avvolto nella vestaglia da ring rossa bordata di oro, Tacos ruota lentamente la testa per sciogliere i muscoli del collo, le mani già fasciate appoggiate sulle cosce. Lo zigomo sinistro gli prude, si gratta. Senza alzarsi dalla panca si sporge in avanti a cercare il proprio volto nel piccolo specchio appeso alla parete sulla sinistra: lo zigomo è perfetto, ben disegnato e di un caffellatte chiarissimo, non ancora segnato dal livido che apparirà poco più tardi e non andrà più via. Si sfiora la mandibola, continuando a fissare lo specchio si rimanda una dopo l’altra le espressioni a cui ha lavorato per anni: prima quella nera e minacciosa, poi quella vitrea e raggelante, infine il sorriso sadico che mostra all’avversario un istante prima che l’arbitro li mandi agli angoli per l’inizio del primo round.

Gonfia i pettorali e contrae deltoidi e bicipiti, anche questo è un trucco a cui ha lavorato: aumenta il proprio volume per sembrare più grosso. Naturalmente il giorno prima dell’incontro i pugili passano alla bilancia e il suo peso lo conoscono tutti, ma l’impatto visivo ha la sua importanza: glielo ha inculcato Santiago, uno fra i tanti suoi insegnamenti sull’importanza della psicologia nella lotta.

«L’effetto che fai a guardarti in mezzo al ring è il primo colpo che metti a segno: è come il primo jab sulla bocca, quello che spacca il labbro al tuo avversario e gli fa sentire il sapore del sangue.»

Quella sera Tacos boxerà dentro un ring tirato su in mezzo a un campo di basket fra due gradinate di cemento. L’incontro meritava un palco migliore (lo trasmetteranno perfino alla televisione locale), invece gli tocca combattere in una scuola – del resto la palestra dove ha l’abitudine di allenarsi è ancora più piccola: era fuori discussione che il match si potesse tenere lì, si sono venduti quasi trecento biglietti. Ma è l’ultima volta, questo è certo. Anzi è una promessa che Tacos fa a se stesso: il prossimo incontro, da campione dello Stato di Campeche se Dio vuole, si terrà a Tijuana o a Città del Messico, magari all’Arena Coliseo di fronte a seimila persone, o all’Arena México, e quello dopo ancora sarà al Ceasars’ Palace o magari all’Hilton di Las Vegas, come Julio César Chávez a cui dicono tutti che Tacos somigli fisicamente.

Ah, e sarà un match con una borsa milionaria.

Tacos chiude gli occhi, pensa a Las Vegas. Quando li apre vede la locandina appesa di fronte a sé, fondo blu scuro e caratteri gialli. La stampa è di cattiva qualità e le lettere sono leggermente sfocate: Tacos si promette anche che sarà l’ultima locandina così scarsa, l’ultima che non porta nemmeno la sua foto.

  Álvaro «La Verdad» Anaya (Campione in carica)      contro  Hipólito «Tacos» Correa (sfidante)
  CAMPIONATO DELLO STATO DI CAMPECHEPESI PIUMA 
Venerdì 12 novembre, ore 20:30 Centro Polisportivo “Joaquín Capilla Pérez” Campeche, Camp., México  

Chiude di nuovo gli occhi. Stavolta non è Las Vegas che vede. È quel giorno, aveva dodici anni: il giorno in cui ha marinato la scuola per la prima volta. Erano i soliti cinque: Luis, che oltre a essere l’unico ripetente della classe era anche più alto degli altri e soprattutto obeso, e a quell’età l’obesità era sinonimo di forza, cosa che ne faceva il leader del gruppo: si faceva chiamare El Perro. E poi Pan y Agua (perché era di famiglia povera), El Cholo (perché aveva gli occhi a mandorla della madre indigena di Ocosingo, Chiapas) e Tito Mierda (perché un giorno si era cagato addosso durante la lezione di geografia).

E lui, Tacos: ma a quei tempi lo chiamavano ancora Hipólito.

Erano gli amici con cui fumava di nascosto nei bagni, quelli che sapevano come procurarsi le riviste porno e toccavano il culo alle ragazze durante l’ora di ginnastica. Erano quelli che gli avevano insegnato a giocare a biliardo e a misurarsi il pene con il righello che usavano nelle lezioni di geometria, non solo per vedere chi ce l’aveva più lungo, ma anche per tenere conto dei progressi.

Quel giorno si erano trovati all’angolo della strada quasi per caso, di fronte alla bottega del libanese. L’aria del mattino al Tropico era già pesante, il cielo era ancora limpido ma la stagione delle piogge era iniziata da qualche settimana: Hipólito sapeva che verso metà pomeriggio si sarebbe alzato il vento a scuotere le foglie e sollevare le cartacce per strada, poi sarebbero arrivate le nubi, gonfie e grigie, e avrebbero inondato le strade fino alla notte.

A lui piaceva quella stagione. Dopo gli acquazzoni passava le ore a studiare l’immondizia alla deriva lungo i vicoli, a ridere delle auto che sparivano improvvisamente dentro le voragini nascoste sotto il pelo dell’acqua nera, o a spingere un manico di scopa dentro le fogne intasate per sbloccarle e ammirare i piccoli gorghi che si creavano.

Quella mattina anziché proseguire per la scuola si erano messi a chiacchierare, c’era aria di scazzo. El Perro aveva deciso per tutti di saltare le lezioni.

«Qualcuno non se la sente?»

Li aveva guardati uno per uno, gli occhi torvi sotto l’unico sopracciglio nero e folto, il solito ghigno che aveva imparato dai cattivi delle telenovelas. Nessuno aveva osato dire di no, neanche Tito Mierda che si sarebbe fatto prendere a legnate, se il padre l’avesse scoperto. Tirarsi indietro voleva dire essere una mammoletta senza palle. Così, invece di proseguire verso la scuola avevano preso la direzione opposta, fino alla baracca di Jacinta la Grassa, che faceva le migliori colazioni in città – e secondo i camionisti, che giravano il mondo (o quanto meno il Messico meridionale, che era lo stesso), le migliori colazioni fra Mérida e Veracruz. Il locale era un tugurio: un ex garage dai muri a malapena intonacati e dal pavimento in cemento grezzo su cui ogni tanto si vedeva saettare un grosso scarafaggio; l’aria puzzava di fumo e di grasso bruciato. Ma all’ora di pranzo c’era da fare la fila per un piatto di chilaquiles in salsa verde o di cochinita pibíl. Quando erano arrivati però il posto era tranquillo: gli studenti erano a scuola e gli adulti al lavoro. Jacinta la Grassa ascoltava merengue alla radio limandosi le unghie. Canticchiava con la bocca chiusa, una rivista sotto gli occhi, i piedi nudi e gonfi incrociati sotto il tavolo.

Hipólito e gli altri avevano lasciato cadere le cartelle in un angolo, si erano seduti intorno a un tavolo di plastica macchiata di succo rappreso: erano i capi dei cartelli a una riunione di narcotrafficanti. Jacinta la Grassa si era alzata con un grugnito, continuando a guardare la rivista aperta mentre coi piedi cercava sotto il tavolino un paio d’infradito di plastica consumate e scolorite; le aveva infilate ed si era trascinata verso i ragazzi ciabattando sul cemento grigio.

Avevano ordinato tacos di maiale in umido e una caraffa di orzata: li avevano divorati in fretta, con l’appetito violento di chi comincia a sentire le scosse dell’adolescenza; poi si erano stesi sullo schienale e avevano ruttato con soddisfazione. Hipólito aveva ancora fame: aveva fatto i conti di quanto aveva in tasca (suo padre gli dava qualche pesos per lavare il taxi nel fine settimana) e aveva ordinato altri due tacos. E poi altri due. Mangiava con foga, non avresti saputo dire dove poteva metterla tutta quella roba, lui, magro come un filo per stendere la biancheria, così gracile che avevi paura di spezzargli le braccia stringendogli la mano. Aveva ordinato ancora due tacos, stavolta di manzo e formaggio. I suoi compagni ci avevano preso gusto: prima lo avevano deriso, poi si erano messi a scommettere su quanti tacos avrebbe buttato giù Hipólito. Quando aveva finito i soldi, El Perro lo aveva guardato alla sua maniera. «Non ti fermerai mica adesso, eh? Forza ragazzi, svuotate le tasche, offriamo noi il prossimo giro di tacos a Hipólito che ha ancora fame.»

Incalzato dal Perro, Hipólito aveva continuato a mangiare, gli altri ridevano. A un certo punto Jacinta la Grassa gli si era piantata davanti, sul lato opposto del tavolino di plastica: «Non sono affari miei se non andate a scuola, ma non mi devi schiattare qui dentro. Basta tacos, ora bevi questa.»

Gli aveva messo davanti una lattina di Coca Cola per digerire.

In tutto, quella mattina Hipólito aveva spazzato via quarantasei tacos, trentadue di maiale e quattordici di manzo, più cinque quesadillas, due semplici e tre con prosciutto. Quando il gruppo si era alzato per andare a giocare a biliardo, Hipólito avrebbe voluto morire, ma sfidato dallo sguardo beffardo di Luis ancora una volta, si era fatto forza. Un’ora dopo, nel bar dello Storpio Jiménez, chinato sul tavolo verde con l’asta in mano, concentrandosi per mandare in buca la quattordici, Hipólito aveva sentito il diavolo afferrargli lo stomaco, si era accasciato sotto il tavolo e aveva vomitato quarantasei tacos (trentadue di maiale e quattordici di manzo), cinque quesadillas (due semplici e tre con prosciutto), una Coca Cola e una quantità imprecisata di orzata.

I ragazzi avevano riso fino alle lacrime, lo avevano insultato spronati dal Perro come un direttore d’orchestra, e quando lo Storpio Jiménez era arrivato bestemmiando e si era messo a tirare calci in culo all’aria, perché con la sua gamba storta era troppo lento per acchiapparli, avevano riso ancora più forte. Alla fine El Perro, che legittimava il suo potere anche attraverso l’indulgenza quando era il caso, aveva preso Hipólito di peso e lo aveva trascinato fuori dal locale dicendogli «Bravo, non ti sei tirato indietro neanche a costo di vomitarti quella zoccola di tua madre, così fa un uomo.» E gli aveva dato due pacche sulla spalla, un segnale per gli altri che era finito il momento di ridere.

Purtroppo per Hipólito, l’indulgenza di Luis non aveva impedito che la storia facesse il giro della scuola e del quartiere. Da quel giorno nessuno lo aveva più chiamato Hipólito.

Per tutti, era diventato Tacos.

Riaprendo gli occhi negli spogliatoi della palestra, molti anni dopo la giornata memorabile che gli aveva fruttato il suo nuovo nome, Tacos osserva i guantoni, butta fuori l’aria dalla bocca con un verso gutturale, poi ripulisce il viso da ogni espressione nel sentire l’avvicinarsi dei passi di Santiago; che un istante dopo varca la soglia dello spogliatoio; va dritto a lui e gli prende il viso fra le mani.

«Ci siamo, Tacos.»

Tacos annuisce deciso, stringe le labbra, respira rumorosamente attraverso le narici dilatate. Il suo allenatore gli dà una scrollata alla testa.

«Abbiamo lavorato anni per questo cazzo di momento. Eri un ragazzino e ora sei un uomo. Sei un puto hombre Tacos.»

Era un ragazzino quando suo padre è scomparso, è diventato un uomo con Santiago, vincerà per suo padre e per Santiago.

«Sono un puto hombre.»

Santiago gli dà un paio di schiaffi, gli stringe i polsi.

«Sei pronto. Sei il campione. Sei pronto. Sei il campione. Ripetilo.»

«Sono pronto. Sono il campione.»

«Di nuovo!»

«Sono pronto. Sono il campione.»

«Vai e ammazzalo quel frocio. Sei il campione.»

Santiago pianta i suoi occhi azzurro chiaro in quelli neri di Tacos. Si guardano in silenzio per alcuni secondi, poi Santiago gli affibbia un altro schiaffo.

«Andiamo.»

L’allenatore s’infila in un corridoio stretto e buio passandosi una mano nei capelli radi e bianchi, pettinati all’indietro con attenzione maniacale. Anche Santiago ha la tendenza a parlare più grosso di quello che è, pensa Tacos vedendolo incurvato nella sua camicia azzurra con le maniche corte come un vecchio qualsiasi: come ha sempre visto suo padre, più vecchio di quello che era, rovinato dalle notti in taxi una dietro l’altra, fumando per tenersi sveglio, bevendo mezcal per addormentarsi alla fine del turno.

In fondo al corridoio li aspettano una luce giallognola e un brusio, anzi un vociare che si fa più distinto con ogni passo. Un istante prima di uscire dal corridoio, Tacos s’immagina per l’ultima volta il ring dell’Hilton, le tribune piene di attori e vecchi cantanti e starlet nemmeno ventenni e vecchi uomini d’affari che possiedono grattacieli che portano il loro stesso nome, e migliaia di flash, e una campanella che suona impazzita, le telecamere dappertutto e un uomo in smoking al centro del ring che dice «Ladiiies and gentlemeeennn…». E il boato: improvviso, assordante, pieno, a premere contro ogni angolo dell’immensa sala.

Poi Tacos apre gli occhi e la prima cosa che vede è il viso di Santiago vicino al suo.

«Eccoti qui, campione. Forza, stringi questa mano, stringi forte, fammi sentire come la stringi.»

Tacos si sente confuso, non dovrebbero stare ancora qui, faranno tardi, bisogna andare sul ring, l’incontro sta per cominciare, se arriva tardi lo squalificano, non si può mica perdere così l’occasione della vita, campione dello Stato perdio, fanno quattro mesi che si allena solo per questo match.

«Dobbiamo andare… bisogna…»

«Dai campione, stringi questa mano, ce la fai?»

Campione? Ma come, la locandina parla chiaro: Hipólito “Tacos” Correa, sfidante… è diventato campione? allora ha già combattuto e ha vinto! Tacos è travolto da un’ondata di gioia, stringe forte la mano di Santiago, gliela stringe così forte da fargli male, così forte da temere di stritolargli le dita, di sbriciolare le ossa del povero vecchio, il povero Santiago che l’ha seguito con pazienza per tutti questi anni. Tacos stringe e pensa: campione, sono campione, vado a Città del Messico…

«Okay, stai tranquillo, non ti preoccupare» dice il vecchio. «Se non riesci a stringere è meglio non forzare, forse c’è qualcosa di rotto lì dentro. Ora ti sistemiamo, intanto fatti vedere questo zigomo.»

Santiago si tira indietro per fare spazio a un giovane che con le mani avvolte in guanti di lattice gli sfiora lo zigomo, lo tampona delicatamente con un batuffolo di cotone. In quell’istante Tacos sente una fitta di dolore schizzare fino al cervello: crede di svenire, ed è come se si svegliasse veramente. Il neon lo acceca all’improvviso, la sua mano (che un istante prima stritolava quella di Santiago) pulsa forte, va a fuoco. E i suoni, all’improvviso gli arrivano i suoni: risate, grida, festa; ma sono suoni distanti, ovattati. Devono arrivare dall’altro lato del muro. L’altro spogliatoio. Un peso insopportabile lo schiaccia in mezzo al petto.

«Santiago…»

Prova a tirarsi su, alza un poco la testa: nello spogliatoio ci sono solo Santiago e un medico; e sua madre, con le guance lucide, là in un angolo.

«Sta’ calmo, Tacos. Lascia che ti dia un’occhiata il medico…»

All’improvviso Tacos ha gli occhi pieni di lacrime.

«Santiago…»

«Stai buono, campione» dice Santiago, e sorride, ma ha gli occhi lucidi anche lui.


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