La fila

Testo e illustrazioni: Simone Perazzone

A un certo punto Erik non era più davanti a me.
Ho alzato lo sguardo e non c’era più.
Intendiamoci, mi era già capitato di procedere senza di lui.
So che non c’è niente di cui preoccuparsi se perdi l’Avanti; è sufficiente continuare a trasportare il tuo carico e seguire il flusso. Una volta, addirittura, non c’era neanche Wilkins e allora ho seguito una tipa magra con delle grosse orecchie. Si chiamava Ruth, mi pare.
Però, in tutti quei mesi, Erik non aveva mai lasciato il sentiero senza prima avvisarmi. Non era da lui.
Sentivo la tensione accumularsi nelle mandibole, esercitare pressione sui molari.
Non mi piacciono le novità.
A nessuno piacciono davvero le novità.
Ogni nuovo sentiero che viene scoperto facciamo tutti un gran baccano, un gran stridore di «aaah!» di «oooh!», ma nessuno vorrebbe percorrerlo. Qualcuno deve, qualcuno lo fa. E poi, come lacrime, gli altri. Ma nessuno lascia di proposito le strade segnate. Nessuno vorrebbe allontanarsi dalla Mappa.
Di Wilkins conoscevo bene i fianchi morbidi che sporgevano allegramente dalla fila, ma mi ero scordato della psoriasi. La sua nuca, grassa e traslucida come una cotenna, si esfogliava pigramente spandendo nell’aria un minuto pulviscolo.
Pareva un ciliegio nel vento di aprile. Un ciliegio sudato.
Sprofondai un dito nella massa flaccida della sua schiena: «Psst, Wilkins».
L’uomo si inclinò di qualche grado all’indietro e, continuando a fissare le orecchie a sventola della sua Avanti, grugnì: «Mh?»
«Hai visto dov’è andato Erik?», la domanda galleggiò per un attimo nell’aria prima di finire crivellata da una sventagliata di proiettili di tosse.
«Aa-cough! a-couughhh! coughhhhh!»
Forse voleva ridere, Wilkins, ma la trachea glielo impediva. Appena prima di esprimere la sua ilarità, un filo di metallo sottile gli aveva strozzato il gargarozzo, obbligandolo a espettorare violentemente.
«Tutto… tutto bene?»
«Mi fai morire Dietro-Dietro! Coughh! Davvero, mi fai morire!» Wilkins infilava appena un paio di parole, poi riprendeva a tossicchiare.
«Ho notato», risposi a mezza voce. Non ero felice di essere preso in giro, ma sapevo che il clima della fila si regge su equilibri sottili.
Non bisogna mai essere negativi. Neanche potenzialmente negativi. Rallenta la fila.
Non bisogna mai sollevare questioni. Non esistono questioni innocue. Tutte le questioni rallentano la fila.
Soprattutto non bisogna mai fermarsi se non è strettamente necessario. Non c’è nulla che rallenti la fila più di fermarsi.
Bisogna fare del proprio meglio perché la fila scorra senza intoppi. Se sei dubbioso, lento, spaventato, venire deriso sarà la cosa migliore che ti potrà capitare.
Wilkins si asciugò un rivolo di saliva con il dorso della mano e, finalmente senza pause, disse: «Se non lo sai tu che fine ha fatto il tuo Avanti, chi lo deve sapere? Lo devo sapere io?»
Alzai le spalle, «Boh, magari glielo avevi chiesto…»
«Porca merda, ragazzo: chi ce lo aveva davanti? Chi ce lo aveva dietro?» Guance rosse, labbra contratte: era indispettito. Brutta mossa. Mai indispettire un Avanti.
«Mi spiace, mi spiace moltissimo, io ero solo preoccupato che…», piagnucolai.
«Sì, sì, certo, certo. A posto così.», fortunatamente la sua mano grassoccia schiaffeggiò l’aria ponendo fine alla questione, «ricordati solo di fare lo scan tra una quindicina di minuti, se non torna da solo».
Lo scan. Deglutii serrando le labbra. Quindi dovevo attivare il protocollo.
Un quarto d’ora.
Un quarto d’ora era tantissimo tempo. Il tempo necessario perché tutto tornasse a posto da solo. Perché Erik tornasse a posto da solo.
I piedi si inseguivano. All’orizzonte, la linea delle pietraie tagliava il cielo quasi rosso, monotona come sempre. Il ritmo dei passi mi condusse in un angolo della testa dove potevo lasciar riposare i pensieri. Fuori, sentivo le parole degli Avanti come pioggia sui coppi.
«Ruth, hey Ruth!»
«Eh.»
«Oh, non perdermi di vista! Se gli sparisci davanti al naso quello nuovo non si accorge di niente! A-cough! Cough! Cough!»
«Difficile nel tuo caso, Wilkins.»
Wilkins chinò il capo in silenzio, cercando di strozzare la tosse.
«Simmons, sai cosa dice quel ciccione di Wilkins?»
«No.»
«Che se non facciamo attenzione scompare!»
«Beh, Ruth, se ti giri spesso a controllarlo almeno mi fai aria.»
La punta delle orecchie di Ruth si accese di rosso.
Ancora più lontano, le voci degli Avanti si perdevano in un incomprensibile frinio.

Il problema di questo posto è che la gente prende tutto dannatamente sul serio oppure se ne fotte completamente. Il segreto è fottersene il giusto.
Prendi Wilkins. Quel ciccione che sta dietro a Ruth. 
Wilkins vive male perché si aspetta troppo dagli altri. E gli altri non gli danno neanche mezzo dito, perché sanno come è fatto. E allora butta giù Pappa. E diventa sempre più ciccione. E gli altri gli danno ancora meno perché, è inutile mentire, a nessuno piace un ciccione sudato.
Oppure prendi Ruth, la mia Dietro.
È in gamba, nulla da dire. Tutti si chiedono come faccia ad essere così indietro nella fila. Dietro persino a un coglione come me. Il mio parere – che, beninteso, non vale una cicca – è che Ruth non fa nemmeno un decimo di quello che potrebbe. Se solo si fosse sbattuta a leccare il culo dei Cassieri, a stringere alleanze, a portare qualche carico ruffiano… beh, forse starebbe proprio lì davanti. Magari non la prima, ma di certo non aliterebbe sul mio collo da coglione.
Il fatto è che ogni mattina, ti piaccia o no, se sei un Camminante vai nella radura e cerchi qualcosa da portare alle Navate. E se fai decentemente il tuo lavoro, la Mente ti ricompensa con una bella tazza di Pappa schiumante.
Io, per quel che mi riguardava, quel giorno stavo portando un ramo secco di quattro metri.
C’era una qualche ragione per farlo? No.
Era faticoso forse? Certo che era faticoso, cazzo.
Mi avrebbero esposto come miglior carico della giornata? Figurarsi.
E allora perché lo facevo? Lo facevo perché la fatica è il metro di misura dei mediocri.
Se vuoi stare nel mezzo e non avere problemi, fai fatica. Non ammazzarti eh, che non te ne viene niente. Ma fai quel tanto di fatica che giustifichi il tuo stare lì. Nessuno può accusarti di non aver fatto niente se hai trasportato un ramo secco di quattro metri per tutto il giorno. E così alla fine ti sei guadagnato la Pappa.
Dove avevo trovato il ramo? Chissenefrega. Qualcosa ai Cassieri avrei raccontato. Qualcosa su quanto era stata avvincente e toccante la scoperta di questa frasca. Mica potevo dirgli: «Ero a bordo radura che pisciavo, l’ho visto, e ho pensato che era da un po’ che non mi trascinavo dietro un ramo; perciò sono andato a prenderlo». Non mi avrebbero dato nemmeno mezzo buono per la Pappa.
Ogni mattina, appena arrivo in radura, piscio. Mi piace guardarmi attorno mentre piscio. La gente non ti vede: hai sulle spalle una specie di mantello dell’invisibilità fatto di pudore. Così puoi guardare tutti liberamente, ma nessuno ti guarda.
Ad esempio, quella mattina c’era Meg che coglieva delle spighe. Meg fa sempre corone di spighe. Non è originale, ma le fa con una cura commovente. Se non fosse così indietro nelle postazioni, ci proverei.
Poi c’erano Olsen e l’altro coglione, quei due che viaggiano sempre in coppia. Si contendevano una vecchia divisa lacera. La radura che stavamo visitando doveva essere stata un campo di battaglia, un tempo. Un’area che i nostri soldati avevano strappato con la forza ai Lotti Mediani.
Non lo racconto spesso – per non spaventare nessuno – ma una volta, nei rovi, ho trovato un guscio secco di qualcosa. Aveva due paia di chele e delle setole dure come acciaio. Mi dava i brividi. Non ho avuto il coraggio di prenderlo. Forse una volta questa era casa loro.
Infine, mentre mi scrollavo, ho visto Erik. Era curvo, nascosto dietro un albero. Subito ho pensato stesse cagando. Ho messo via l’attrezzatura e mi sono sporto un po’ per vedere meglio. Era tutto piegato su se stesso e si stava togliendo con minuzia delle pellicine dalla base del funicolo.
Il funicolo si innesta direttamente dentro al cervello dal lato destro del cranio e ha la forma di un tubo sottile, abbastanza rigido ma facilmente sagomabile. Tutti quanti ne abbiamo uno: serve per i fantasmi.
Quando mi ha visto l’ha riposto dietro all’orecchio, come una ciocca di capelli, si è abbracciato le spalle e mi ha detto, sorridendo: «Oggi non ho voglia. Non vedo l’ora di tornare». Gli ho sorriso di rimando: «A chi lo dici, amico! A chi lo dici…»
Bravo ragazzo, Erik. Forse un po’ tonto, ma un bravo ragazzo. L’ho salutato e me ne sono andato, raccogliendo il ramo che avevo adocchiato.
Ero contento del mio carico: faceva il giusto effetto, era memorabile e, in fondo, ci si potevano legare tantissimi significati. Anche cose profonde, tipo sulla morte.
Cominciai a bisbigliare:

«Secco ramo… ramo secco/
 di superbia io non pecco,/
ma il destino sì fatal/
ci sorprese… proprio mal!»

In quel momento mi passò vicino Wilkins. Mi guardò, guardò il mio ramo, e poi fece una faccia come se l’avessi usato per spennellargli della merda sul naso.
Ma chi si credeva di essere? Gliel’avrei spaccato in testa, il mio ramo…

«Sc-scusa Simmons?», una voce strozzata mi riportò al presente. Mi voltai: era quello nuovo. Stava alla mia sinistra e seguiva il mio passo. Lo squadrai da capo a piedi: «Cazzo fai qui?»
Dicevano che prima facesse il Soldato. Il fisico ce l’aveva. Ma se da Soldato finisci a fare il Camminante o sei un cretino o sei pericoloso, non c’è una terza possibilità. Lui cos’era?
«Scusa. È che devo andare a cercare Erik…»
Strabuzzai gli occhi: «Mh. Quindi?»
Lui abbassò lo sguardo, continuando a seguire il mio passo: «No, è che il protocollo dice che un Cercatore, prima di partire, deve chiedere ai contigui se sanno qualcosa del Disperso e…»
Alzai la mano libera davanti alla sua faccia: «Ferma. Ferma. Il protocollo?»
«Sì, il Delta 5
«Fammi capire: c’è il tuo Avanti che si è perso chissà dove e tu stai seguendo il protocollo?»
Si morse le labbra, impacciato. Godetti di quel piccolo potere.
«Senti, fammi un piacere: vai a cercare Erik e lasciami in pace. Non vedi che ho da fare?», dissi indicando il ramo.
«Certo, certo! Scusami, scusami davvero», rispose alzando le mani e rallentando l’andatura. Poi si girò e trottò verso il basso, seguendo il crinale. Lo guardai allontanarsi, inciampando, giù per il pendio. Sospirai.
Di sicuro non era pericoloso.

Il protocollo Delta 5 si trova nell’ottavo capitolo del Manuale di fila:

“Se il vostro Avanti si allontana dal corretto percorso di fila senza rilasciare informazioni verbali né a voi né ad altri contigui, dopo aver atteso quindici minuti in stato di sospensione è necessario effettuare uno scan sensoriale.
Se il vostro Avanti non ha lasciato tracce chimiche rilevabili con gli appositi recettori presenti nel funicolo, aspettare ulteriori quindici minuti in stato di sospensione dopodiché ripetere lo scan sensoriale.
Se l’esito del secondo scan è negativo, occorre lanciare tempestivamente un richiamo chimico in ambo le direzioni della fila, per accertarsi che, dopo essersi perso, il vostro Avanti non si sia aggregato alla fila in una posizione scorretta.
Laddove persino questa operazione dia esito negativo, l’individuo smarrito assumerà lo status di Disperso, mentre il suo Dietro sarà ritenuto responsabile dell’accaduto e verrà investito del ruolo di Cercatore.
Un Cercatore deve informare i contigui del suo nuovo status, se possibile abbandonare il carico al proprio Dietro e andare alla ricerca del Disperso”.

Non era mai capitato che mi staccassi dalla fila per più di qualche metro e per più di qualche minuto. Non mi piaceva stare lontano dalla fila.
Dal primo giorno che ci sono entrato, non ho fatto altro che seguire Erik.
Erik era sempre gentile con me, un Avanti modello. Davvero, non mi potevo lamentare.
In navata, la sera, si sentiva raccontare di tutto…
Storie di Avanti terribili, che non facevano altro che umiliare i loro Dietro con i calci, con le parole, con la chimica. Ogni mezzo veniva buono.
Una sera un ragazzo si tolse gli stivali e ci mostrò le dita dei piedi tumefatte; aveva delle scaglie infette al posto delle unghie.
Dovevo ammettere che, visto che tutti in navata buttavano lì qualche parola cattiva sui loro Avanti, anche io un paio di volte mi sono lasciato andare e ho detto che Erik mi aveva fatto questo, che Erik mi aveva fatto quello. A ripensarci in quel momento, mi sentivo mortificato.
Potevo ancora scorgere la fila sul crinale alle mie spalle. Da lontano era una visione imponente: un lunghissimo millepiedi nero, apparentemente senza fine e senza inizio, scarabocchiato contro il cielo tinto di rosso.
Dovevo trovarlo prima che fosse completamente buio.
Scostai un altro arbusto di felci cercando di non inciampare nel terreno ghiaioso, poi mi fermai per azionare il funicolo.
Nella milizia mi hanno spiegato che il funicolo, internamente, è rivestito da un complesso tessuto neurale. Perlopiù si tratta di recettori chimici in grado di leggere i fantasmi che i nostri compagni si lasciano alle spalle. Un fantasma è come una fotografia olfattiva, un calco fedele delle condizioni psicofisiche di chi lo ha lasciato. Eravamo addestrati a lasciarne uno ogni dieci minuti.
I Camminanti invece erano un po’ più lassi sulle tempistiche. Forse perché i sentieri della Mappa, già così, straripavano di fantasmi: si può dire che ogni millimetro avesse il suo. Ai novellini come me capitava spesso di trovarsi in sovraccarico informativo e di doversi imporre uno stato di sospensione.
Nel complesso, si trattava di una pratica funzionale: creava unità. Col tempo imparavi a riconoscere le tracce biometriche di tutti gli individui che componevano la fila. E gli altri imparavano a riconoscere la tua. Non eri più estraneo a nessuno, e nessuno più ti era estraneo. Anche se magari era gente che non avresti mai visto in faccia.
Ma lì, fuori dalla Mappa – o come dicono quelli che si vantano di conoscerli bene: nei Lotti Mediani – , le tracce erano più rare e più sparse. Alcune, così vecchie da essere quasi completamente decadute, sembravano targhe ossidate sulle lapidi di un cimitero.
I Lotti Mediani erano degli appezzamenti di terreno parzialmente ignoto; i loro confini venivano delimitati dai sentieri, perciò addentrarcisi significava sostanzialmente lasciare la fila e scendere lungo un crinale secco e ghiaioso.
A tutti poteva succedere di assentarsi cinque minuti e abbandonare il sentiero per mere esigenze fisiologiche o, se era una giornata molto dura, per posare il carico qualche istante e sedersi sotto un cespuglio, al riparo dal sole.
Ma era sempre questione di pochi istanti; un breve intervallo che si concludeva fatalamente con il ritorno, marciando di buona lena, al buco della fila che si era lasciato vuoto.
Così, costeggiando il sentiero, non era difficile spiare i fantasmi, anche molto recenti, di persone colte in momenti intimi; oppure quelli degli Operai che si occupavano della manutenzione dei percorsi.
Sentivo un certo disagio a intercettare quei fantasmi. Soprattutto quando incappavo in quelli dei morti.
Magari per settimane avevi percepito i valori sballati di un tipo, chissà chi. Ogni giorno stava peggio; poi all’improvviso più niente. Ecco, facile che te lo ritrovavi lì sotto, sano e vigoroso ancorché sbiadito, intento in una pisciata di qualche mese prima.
Beh, faceva pensare.
La situazione era ben diversa man mano che si scendeva verso valle. Lo si notava già dal paesaggio.
La vegetazione, inizialmente sporadica e composta principalmente da erbacce e bassi arbusti, mano a mano che ci si avvicinava verso le zone più interne inghiottiva tutto, anche il cielo.
Lì dentro – dicevano -, nelle foreste dei Lotti Mediani, se trovavi dei fantasmi non eri tu a spiare loro.
Mi massaggiai le tempie per scacciare quelle idiozie, poi respirai profondamente e attivai il funicolo.
Niente.
Non serviva a nulla scendere così in basso, se non avevo una direzione.
Scossi la testa, sputai per terra, poi mi girai per guardare ancora una volta la fila.
Scorreva senza intralci, ignara o indifferente, come un torrente di corpi.

«Si è sprecato, Wilkins…»
Il Cassiere prese il petalo dalle mie mani schiuse a coppa e lo ripose, senza neanche esaminarlo, in un boccione di plastica trasparente. Lo vidi depositarsi sul fondo insieme a sassolini, ramoscelli, frutti, un passero morto.
«Cos… in che senso? Cioè n-non mi vuole neanche ascoltare?»
Sentii il buco del culo serrarsi e subito dopo una vampata salire lungo le guance fino all’attaccatura dei capelli. Tossii.
Il Cassiere si chiamava Herman e ti guardava dritto negli occhi solo durante l’esposizione del carico.
Non mi piacevano i suoi occhi. Erano troppo chiari e le pupille sembravano troppo piccole: due grani di pepe nella neve.
Non mi piacevano neanche le sue mani, così grandi e glabre. Non mi piaceva come si muovevano intelligenti sulla scrivania, non mi piaceva come padroneggiavano l’ambiente, sempre calme e professionali. Non mi piaceva il loro modo pulito, asettico, di prendere in consegna e classificare i nostri carichi.
Non mi piaceva. Non mi piaceva. Non mi piaceva.
Cosa ne sapeva Herman del mio carico? Cosa ne sapeva del mio lavoro, del lavoro di tutti, qui?
Certo, c’erano anche quelli come Simmons, che appena mettevano piede nella radura raccoglievano da terra il primo ramo secco che capitava e poi se ne stavano tutto il giorno sdraiati sotto a un albero. Bravo, Simmons, bel lavoro di merda!
Ci fosse almeno qualche incentivo, si cercasse di premiare la qualità… invece per Herman è lo stesso. Neanche se ne accorge della differenza. Arrivi tu col tuo ramo secco di merda e poi io con un petalo che è un dono del destino e lui, il bieco catalogatore, non si degna nemmeno di…
«Non ho detto questo».
Strizzai gli occhi e mi sporsi in avanti: «C-come?»
Herman aveva finito di firmare le pratiche e mi stava fissando da dietro le mani enormi, congiunte in mezzo agli occhi.
«Sveglia, Wilkins!», disse battendo debolmente un palmo sulla scrivania, «certo che la ascolto, non ho mai detto il contrario», e mi fece un piccolo sorriso di incoraggiamento.
Cercai di rispondere increspando timidamente le labbra, poi deglutii, chiusi gli occhi e mi concentrai per richiamare le impressioni che avevo avuto nell’istante in cui vidi il petalo. Dovevo ricreare un fantasma che fosse il calco perfetto di quel momento.
Era la parte più importante della presentazione. Ciò che dava al carico il suo peso, la sua importanza. E io, modestamente, ero un maestro in quello.
Stavo camminando dietro a Ruth, naturalmente, e avevo la testa altrove. Come sempre nell’ultimo periodo.
Ero preoccupato e molto stanco. Era solo mattina e non eravamo ancora arrivati alla radura. Certo, c’era davanti tutta la giornata, ma ero già in affanno perché negli ultimi giorni le cose non mi giravano. No, non mi giravano affatto bene. Non so se si trattasse di quella nuova radura che avevamo iniziato da poco, o se fosse una questione di stress accumulato. Non so, non capivo. Fatto sta che ricordavo perfettamente quel senso di pesantezza.
No, non c’entrava con il fatto che sono grasso. Lo so di essere grasso. Lo so ogni minuto della mia vita.
Me lo diceva lo specchio. Me lo diceva Simmons. Me lo dicevano le pentole di Pappa rubate, di notte, in cucina. Me lo diceva Ruth.
Mi facevano ridere sinceramente, forse, le battute di Ruth? Sorpresa: no.
Eppure, i grassi, possono sentire un senso di pesantezza, a volte.
E io sentivo questa pesantezza nella gola, come una palla di granito fissata a un uncino. E mi grattavo la nuca. Mi grattavo e mi grattavo fino a sentire la pelle nuova gridare sotto le squame secche della psoriasi.
Non avevo mai avuto la psoriasi prima. Sapevo che aveva a che fare con lo stress, ma non sapevo che cosa farci. Mi grattavo, letteralmente.
Poi, come un errore della retina, ho visto qualcosa fluttuare davanti a me. Era una cosa bianca e minuscola. Una cosa leggera.
Subito avevo pensato a una piuma. Galleggiava nell’aria con naturalezza, come se fosse stata pensata apposta per quello.
Danzava seguendo una percorso preciso, una sua volontà. Una volontà che, seppur imponderabile, non era possibile negare.
Non so perché lo feci, ma aprii una mano e il ballerino ci volò sopra.
Istintivamente chiusi il pugno e me lo portai davanti agli occhi. Ne chiusi uno e con l’altro guardai dentro. Era un petalo. Un minuscolo petalo bianco e vellutato.
Da dove era arrivato?
Come trainato da una forza più grande, mi staccai dalla fila e istintivamente guardai giù dal versante di sinistra, quello più a picco.
C’era un melo.
C’era un melo in fiore che cresceva sbilenco da una breccia nella nuda roccia.
I miei occhi vagarono in cerca di una risposta. Una ventina di metri sotto alla pianta, alla fine dello strapiombo, un meleto spontaneo.
La palla di granito divenne acqua tiepida e dovetti stringere le labbra per non scoppiare a piangere. Strinsi le narici e le palpebre. Strinsi il petalo nella mano. E sentii le parole sgorgare fuori dalla mia bocca, ora come in quel momento:

Melo d’altura/
rinunciasti a tutti/
per vedere.

«Notevole, Wilkins».
Schiusi gli occhi nel momento in cui le palme del Cassiere s’incontrarono a metà, «davvero notevole».
Lo schiocco divenne un breve, lento applauso. Non c’era ironia dietro alle lenti da vista, nelle rughe intorno alla bocca: era tutto vero, lo avevo colpito!
Svitò il tappo del boccione di plastica e ci inserì le dita per recuperare il mio petalo; lo guardò con attenzione sorridendo e disse: «Oggi stesso lo faremo esporre sull’arco d’ingresso della navata».
Sentii le gambe sciogliersi e una risata nervosa attraversarmi la trachea. Il mio petalo. Le mie parole. Sull’arco.
Le guance, infischiandosene del pudore, tiravano verso l’alto scoprendo una fila di denti martoriati.
«Grazie signore, grazie mille! Sono…», trangugiai l’aria, eccitato, producendo uno strano risucchio, «sono onorato! Davvero, sono… non so bene cosa… come…»
La mano curata di Herman sferzò seccamente il vuoto per un paio di volte, come volesse intimare a un cane troppo grosso di stare giù dai suoi vestiti: «Non c’è bisogno Wilkins. Ha già detto abbastanza».
Il Cassiere frugò in un cassetto, estrasse una busta e me la allungò. Sulla bella carta ruvida era stampata la scritta in grassetto a caratteri rossi:

ESPOSTO

Tentai di non tremare afferrandola, ma quando mi allontanai dalla scrivania, mi sembrò di non saper più come si fa a camminare.

Il fantasma di Erik era tutt’altro che sbiadito.
Lo trovai appoggiato a un tronco, in corrispondenza di un cerchio di terra smossa. Tutt’intorno i rovi rendevano difficile il passaggio, ma Erik doveva essersi fatto strada pestando e spezzando i rami più grossi, così riuscii a individuare la zona e a raggiungerla senza problemi.
Attraversato il roveto mi appoggiai anche io al tronco, per rifiatare. Passai una manica sulla fronte e la stoffa s’impregnò di sudore: sembrava non esserci aria lì sotto. Alzai lo sguardo e tentai di distinguere il cielo in mezzo alle fronde. Il vento le gonfiava e le blandiva: loro sì, sembravano respirare.
Per fortuna non mi ero dovuto avventurare alla cieca in quel groviglio spesso e nero: Il funicolo aveva captato il fantasma già dal limitare della foresta. A quel punto però, se non avessi tratto abbastanza informazioni utili dalla traccia, mi avrebbe atteso l’ignoto.
Prima di procedere con la scansione dovevo ripristinare i miei livelli vitali, altrimenti sarebbe stata un’operazione controproducente. La mole di dati mi avrebbe schiacciato.
Premetti il polpastrello del pollice destro sulla base del funicolo e mi concentrai per entrare in connessione con la Mente. «Richiedo il rilascio del secondo tonico neurochimico della giornata», pensai. Fino a tre, se non fai cazzate e segui i protocolli, di solito ti vengono accettati.
Ci vollero diversi minuti prima che ottenessi un responso. Quando pattugliavo sentieri abbandonati con la milizia, spesso in posti molto lontani dalle Navate, poteva succedere di non riuscire ad entrare in connessione con la Mente per intere ore. Non mi piaceva stare così lontano dalle Navate.
All’improvviso un bruciore familiare si dilatò dal lato destro del cranio fino alla nuca e da lì si diramò come una pianta rampicante lungo il tronco e gli arti. Dietro alle mie palpebre si inseguivano fuochi d’artificio rosa e gialli in una pulsante luce verde. Lasciando che la schiena scorresse contro il tronco ruvido della pianta, scivolai col sedere fino a terra.
Non potevo crederci: ero lì, lontano dal sentiero, nel mezzo di un Lotto Mediano, con pochi minuti di luce davanti e diversi chilometri alle spalle. Se fossi riuscito a tornare indietro, avrei avuto qualcosa da raccontare.

Avevo risalito il flusso della fila per diverse centinaia di metri senza trovare indizi finché dei novellini non mi fecero segno. Avevano intercettato il mio segnale di allerta e mi dissero che quello era il punto in cui si interrompevano le tracce di Erik.
Il suo ultimo fantasma era formalmente regolare anche se, da buon Dietro, percepivo qualcosa di diverso dal solito. Un certo senso di urgenza. Nulla di che: solo col senno di poi si poteva interpretare come un segnale. Appena un leggera ansia, come quella di chi vuole tornare a casa.
Ma non c’erano tracce in direzione della radura, e i protocolli vietavano categoricamente di rientrare in Navata prima del buio. Erik doveva essere uscito dalla Mappa.
Mi sporsi oltre il bordo strada di destra per valutare tutte le possibilità. Rocce morbide e grigie, modellate dal vento, si spegnevano qualche decina di metri più in basso in un gomitolo di chiome verdi e liane. Erik era un soggetto pieno di risorse, ma non poteva essere sceso da lì.
Così decisi di procedere lungo il versante più agibile e superata una zona arida, puntellata di fantasmi trascurabili, mi trovai rapidamente a costeggiare la foresta.
Fu lì che sentii per la prima volta la presenza del fantasma.
Una traccia netta e tagliente, anche se doveva avere almeno un’ora. Un fantasma di quel tipo, così potente, era stato rilasciato automaticamente per registrare uno stato d’eccezione.
Mi gettai giù per la discesa come un torrente, preoccupato per Erik, e prima ancora di accorgermene il cielo era stato divorato dalle fronde.
Ed eccomi lì, col culo sul muschio.

Affievolite le ultime scosse di tonico, misi le mani sulle ginocchia e mi rialzai.
Quando gli occhi si ambientarono alla semioscurità serale della foresta, cercai il basamento del funicolo e lo afferrai, poi lasciai scorrere la mano per tutta la sua lunghezza. Aveva la consistenza di un tubo di gomma, ma al suo interno sentivo l’elettricità dei fasci di nervi. Nonostante il tonico e il riposo, quando lo attivai non ero affato pronto a ciò che stavo per scoprire: era di gran lunga il fantasma più strano a cui mi fossi mai approcciato.
L’impronta generale era di ottima salute. Ma, tra le righe, i valori urlavano qualcosa di completamente diverso.
Erik era in uno stato di eccitazione ma anche di profondo disorientamento. La sua bussola interiore e i suoi ritmi circadiani erano completamente sparametrati, alcune porzioni delle aree deputate alla memoria apparivano disturbate o addirittura danneggiate, mentre i valori relativi alla capacità aerobica e alla tensione muscolare superavano quasiasi standard.
Non potevo nemmeno essere sicuro che fosse sveglio. Le caratteristiche delle sue onde cerbrali facevano pensare a una condizione di sonno profondo o grande rilassamento; cosa paradossale visto che, contemporaneamente, era sottoposto a uno sforzo muscolare impressionante.
Il suo comportamento era fuori da ogni logica. Sembrava che Erik avesse attivato un protocollo di ritirata d’urgenza alle Navate. Ma dovunque stesse andando, una cosa era certa: quelle non erano affatto le Navate.
Perché stavi scappando?
Da chi, da cosa?
Perché, invece di avvisare la fila, ti eri buttato in quell’intrico di rami?
Perché, se ti sentivi minacciato, non avevi imboccato la via di casa?
E perché nessun altro aveva percepito il pericolo?
Forse, perché non c’era nessun pericolo. E non c’era nessuna via di casa.
Strinsi le cosce fra le mani fino a sentire le dita penetrare nei quadricipiti: sì, doveva essere così!
Per qualche ragione Erik voleva davvero tornare alle Navate. E voleva tornarci in fretta a giudicare da come correva: una questione di vita o di morte. Però la sua capacità di orientamento e la sua memoria erano compromesse. Quindi stava correndo al riparo, ma era senza bussola e non era più tanto sicuro di ricordarsi com’era fatto il suo riparo. Così era finito a vagabondare nel cuore della foresta in uno stato di trance – proprio come richiede il protocollo di ritirata d’urgenza. Finché, esausto, si era appoggiato a un tronco e, istintivamente, aveva rilasciato quel fantasma, sperando che qualcuno sentisse il suo disperato richiamo chimico.
Per quanto improbabile, era l’unica ipotesi che riusciva a stare in piedi. E non era particolarmente felice né per Erik, né per me. Doveva essergli successo qualcosa di fulminante e inaspettato. Qualcosa che gli aveva causato un disturbo neurologico. Un trauma meccanico, una brutta infezione…
Spensi il funicolo e uscii dal cerchio di terra smossa, cercando con la suola un appoggio stabile sulla superficie spugnosa del sottobosco.
Qualunque cosa fosse successa ad Erik, avevo un’unica certezza: se non l’avessi trovato, avrebbero fatto di peggio a me.
Ma in quelle condizioni non poteva essere andato lontano. Aveva speso moltissimo. Probabilmente lo avrei trovato lì intorno, accasciato con la faccia nel muschio.
Un fruscio mi fece rizzare i peli sulla nuca. Mi voltai di colpo.
Sfruttai la bioluminescenza del funicolo per rischiarare la foresta alle mie spalle. Prima nulla. Poi tremolio di arbusti. Pelliccia. Due dischi rossi che riflettevano il bagliore.
Non era Erik, ma neanche un demonio: avevo interrotto la fiutatina di un tasso.
«Pst! Pssssst!», battei un piede sul terreno e lui, indispettito, si dileguò goffamente tra le felci. Sorrisi a me stesso: non c’erano mostri nei Lotti Mediani.
Poi la mia attenzione si focalizzò nel punto dove era comparsa la bestia. C’era qualcosa in terra, fra l’erba. Sembrava un pezzo di corda, o la coda di un serpente.
Feci qualche passo e mi piegai in avanti per ispezionare l’area sfruttando la poca luce che riuscivo a produrre.
Tra i miei piedi increduli, arricciato come un braccio di polpo, c’era un funicolo umano.

«Aveva delle chele vi dico!». Simmons si sporse dallo sgabello mostrando le dita tese, poi le racchiuse a grappolo: «Chele grosse come la testa di un bambino».
«Stai parlando di Herman?», con un tonfo secco Ruth posò la pinta di Pappa sul tavolo e tutti scoppiarono in una risata ammaestrata. Non era solo che le battute sui Cassieri facevano sempre ridere; Ruth sapeva scegliere il momento. Poteva stare in agguato e controvento per mezz’ore, gli occhi fissi sulle intercapedini delle piastrelle, ma proprio quando ti eri dimenticato di lei, eccola che balzava fuori e ti azzannava alla gola. Sembrava vivesse per quello.
«Molto simpatica, Ruth. Davvero molto simpatica», Simmons seccò la sua pinta e poi si chiuse nel tepore delle braccia conserte, «Sono scomparsi due Camminanti oggi, se non te ne fossi accorta. Erano a un passo da te. Erik ha abbandonato la fila senza alcuna ragione apparente. Il suo Dietro, quello nuovo che prima faceva il Soldato, è partito a cercarlo come da protocollo ma – indovina un po’? – è notte e non ha ancora fatto ritorno».
Ruth sollevò le sopracciglia e si portò la Pappa alla bocca: «Vedrai che torneranno domani con un sorriso da guancia a guancia», poi un attimo prima di bere si bloccò: «Certo, uno dei due camminando a gambe larghe, ma…». Sghignazzi, pacche sulle spalle, denti sguainati.
«Ridete, cretini. Non sapete prendere niente sul serio. Ne riparleremo quando vi dovrò venire a cercare nei Lotti Mediani…» Simmons si guardò in giro per intercettare un cameriere e Ruth colse l’attimo per bisbigliare: «Ti piacerebbe… », e con una mano agile mimò un taglio netto fra le gambe del suo Avanti, «spera solo che per allora non mi siano cresciute le chele!». Tutto il tavolo, già ubriaco, rise con lei.
Il refettorio, a differenza delle camerate, aveva soffitti bassi e spazi stretti pensati per chiacchierare in intimità e favorire i contatti sociali. Gli affreschi di licheni fosforescenti conferivano alla grande sala una caratteristica illuminazione bluastra, mentre al suo centro la tentazione della fontana di Pappa invitava i Camminanti a spendere tutti i bonus guadagnati col carico del giorno.
Le risate si spegnevano già in singhiozzi e io, fuori dal cerchio, osservai Ruth abbassare di nuovo il capo, assentare lo sguardo e leccarsi le labbra, come un felino soddisfatto. Conoscevo ogni suo gesto, ogni minima inclinazione del suo collo magro. In fila, durante il giorno, non so quante volte avevo sognato di sfiorarglielo appena con la punta delle dita, almeno per conoscere la consistenza di quella pelle così sottile.
Il vassoio pieno mi pesava tra le mani. la nuca mi bruciava. Sbuffai. Mi era sembrata una buona idea. Dicevano sempre di socializzare. Ma sentivo un cerchio alla testa e una voce nel petto che mi gridava di fuggire. Fuggire il più lontano possibile.
«Solo stanchezza», mormorai tra me, «Giornata pesante, solo stanchezza. Non paura. Io non ho paura degli altri. Gli altri sono come me». Mi staccai un pezzo di pelle morta dalla base del funicolo, lo lasciai scivolare al suolo e, concentrandomi sul dolore, mi diressi verso la tavolata.
«Pappa gratis!» dissi, mentre il mio carico sorvolava le teste dei commensali per atterrare sulle assi di legno.
«Woooo Wilkins! Che cazzo hai fatto? Hai derubato un Cassiere?» Simmons, sbigottito, sostituì subito il suo bicchiere vuoto prendendone uno del vassoio.
«Da quant’è che non leggi un bollettino, Simmons?» Era di nuovo Ruth a parlare adesso. Doveva avercela particolarmente con il suo Avanti quella sera. Non aveva smesso di guardare in basso, ma le sue mani, tamburellando sul tavolo, annunciavano l’intento di partecipare al discorso.
Simmons finì un lungo sorso, si asciugò i baffi con la manica e, nascondendo un rutto sul fondo della gola, riuscì a mormorare sfiatato: «Non saprei… da prima che diventassi così stronza, suppongo».
Non abboccò all’insulto ma rispose semplicemente: «L’hanno esposto», poi alzò gli occhi per incontrare i miei, «hanno esposto Wilkins stasera».
Mi torsi le mani sotto il tavolo e serrai le labbra. Sentivo la pelle del collo in fiamme, la bocca secca. Sentivo gli occhi degli altri scandagliare ogni centimetro del mio corpo enorme, cercando tra le pieghe d’adipe la soluzione a quel mistero. Sentivo la voglia di tornare in navata, sotto le coperte, sotto al letto, nel buio, dove nessuno poteva vedermi.
Ancora un istante e, pur di spegnere quel silenzio incandescente, avrei urlato. Presi una boccata d’aria grande quanto i miei polmoni e aprii la bocca ma la mia Avanti mi precedette. Con una mossa coordinata di tutta la metà superiore del corpo, si sporse in avanti, prese una pinta, la levò in cielo e gridò: «A Wilkins! Al melo d’altura! Alla Pappa gratis!»
Rapido e violento come un giaguaro, un boato investì tutto il refettorio. Mi voltai e vidi un sogno.
Tutti i tavoli all’unisono partecipavano al brindisi, ridendo e fischiando e battendo i piedi a terra per me.
E io, io per un istante mi vidi guardarli nei loro occhi ubriachi. Per un istante mi vidi specchiato nel vetro dei bicchieri e nei richiami chimici che impregnavano la sala. E ciò che vidi non fu Wilkins il ciccione, Wilkins l’obeso, Wilkins la schifosa lurida massa di carne che impalla la fila. Per un istante l’uomo che vidi in piedi, con un boccale colmo e alto nella mano, ero io: Wilkins il poeta esposto.
Qualcuno da lodare e invidiare.
Qualcuno da rispettare.
Qualcuno da amare.
E quella sensazione di pienezza e gratitudine infinita, mi accompagnò per pochi, caldi, indimenticabili secondi, fino a che il mio cranio non sbattè contro il pavimento appiccicoso del refettorio.

Nel cerchio di voci e volti, sentii nitidamente un fischio che mi rubò il fiato. Le gambe si fecero gambe di morto, l’equilibrio si dissolse e la schiena cedette all’indietro.
Sentii le mie spalle sbattere seccamente contro le assi del tavolo.
Ma senza dolore.
Sentii il collo fare il rumore di un giunco colpito da un bambino armato di bastone. Ma senza paura.
Sentii i vetri delle pinte vuote schiantarsi, sentii la mia mole rimbalzare in avanti, sentii il naso impattare al suolo, sentii i denti schizzare.
Ma senza il desiderio di fare qualcosa per impedirlo.
Sentii prima le risate, poi il silenzio, poi la preoccupazione. Le mani di Ruth stringermi un braccio. L’odore del suo fiato denso di Pappa. Sentii nei suoi singhiozzi una preoccupazione sincera.
Ma senza gioia.
Sentii Simmons che diceva: «Merda, guarda il funicolo!» e poi gli strepiti di disgusto, lo schifo che serpeggiava nei tracciati chimici.
Ma senza imbarazzo, senza vergogna.
Sentii passi pesanti, passi di stivali. Sentii ordini. Sentii silenzio. Sentii prima la voce di Simmons, accomodante, poi il rumore di qualcosa che si infrange e infine lo scricchiolare di ossa rotte.
Ma senza partecipazione.
E infine, sentii i miei occhi chiudersi, i sensi evaporare.
Ma quello che venne dopo non fu la morte.

Non era possibile dire dove finisse lui e dove iniziasse l’ospite.
«Oh, Danny, non dovevi disturbarti a venire fin qui…»
Non mi sorprendeva sentirlo parlare con la voce di Erik, sentirgli dire il mio nome.
Immaginavo avesse accesso alla sua mente, oltre che al suo corpo. Immaginavo che mi stesse aspettando.
Aguzzai la vista.
La fioca luce lunare che riusciva a trafiggere le fronde era appena sufficiente ad intuire il gigantesco groviglio di lacci di bava che si dipanavano intorno a me, ma era più che adeguata a definire la situazione: ci ero finito dentro.
Mi aveva accolto gradualmente, lasciandomi il gusto di trovarlo. Gli indizi che aveva lasciato alle sue spalle erano segmenti di un percorso tratteggiato apposta per me. Le sue propaggini attendevano il mio passaggio e si ritraevano frusciando. Non ero io a coglierlo di sorpresa, ma lui che mi scortava premurosamente perché non perdessi mai la pista. Finché, ormai, tutto intorno a me era connesso a lui.
D’improvviso mi accorsi del silenzio. Non parlava più. Non è mai un buon segno quando un predatore fa silenzio.
«Ho solo seguito le procedure, Erik», dissi per distrarlo, mentre raschiavo un piccolo campione di tessuto dalle sue mucillagini.
Quando ero un Soldato, mi avevano insegnato che se ci si imbatte in qualcosa di ignoto la prima cosa da fare è strapparne un pezzo e portarlo agli Scienziati. Magari non sarebbe servito a nulla, ma non si poteva mai sapere. Se il pezzo che gli avevi portato era particolarmente interessante, ti ripagavano dando il tuo nome a un enzima o a una stringa di codice genetico. Avevano uno strano modo di manifestare la riconoscenza.
Afferrai uno di quei cordoni viscidi e lasciai che la mano scivolasse sulla sua superficie: «Portami dal Minotauro», pensai.
«Le procedure? Oh, Danny, è un po’ arida se la metti in questi termini…», mi accorsi che era il filamento stesso a trasportare le vibrazioni, e che queste si componevano in parole dentro al mio orecchio, «pensavo di piacerti almeno un pochino».
È difficile da spiegare, ma credo che quello che diceva non si sentisse al di fuori di lui. Però, poiché lui era ovunque lì intorno, tutto risuonava della sua voce. Come un discorso in filodiffusione nelle strade di una città sotto dittatura.
«Sei un buon Avanti, Erik», dissi, cercando di non far tremare la voce «Non avrei potuto chiedere di meglio. Te lo dovevo». Sentii quel cavo di carne gelatinosa tendersi sotto le mie dita e poi rilasciarsi, come squassato da un moto interiore.
«Mi spiace» bisbigliò la sua voce, sempre più intima, sempre più vicina, «mi spiace averti tirato dentro a tutto questo».
Seguii il percorso del cordone, che ruotava attorno a quattro o cinque tronchi di betulla, e finalmente mi ritrovai nel centro del dedalo.
Qualsiasi cosa fosse, non era il Mintauro. Ma non era nemmeno più Erik.
L’ospite si era ancorato al suolo in una zona umida e umbratile, evidentemente adatta alla sua proliferazione. Quello che una volta era il corpo di Erik, disseccato e contorto, ora stava inchiodato a mezz’aria nell’incavo di un grosso tronco di pino marcescente, sostenuto da una tensostruttura di cavi organici.
In un senso poco umano e convenzionale, era qualcosa di molto bello da vedere.
«Hai mai sentito il mondo che ti chiedeva di non esistere più?»
Un forte silenzio mi ronzò nelle orecchie.
«Io ho ceduto, Danny. Ora sono il mondo».
Una vibrazione percorse l’intera foresta. Mi parve di essere all’interno di un urlo. Mi chinai e, d’istinto, mi tappai le orecchie.
«Una tensione, capisci? Una tensione costante. Ogni riconoscimento, ogni respiro; sembra di dover strappare ogni cosa dal petto dei propri vicini. Sembra di doversi umiliare, e di dover tradire, e di dover pregare chi odiamo e vogliamo uccidere per rubare un morso putrido di ciò che sono. Per fare un passo avanti nella fila».
Continuava a parlarmi dandomi del tu, fingendo di essere Erik, ma sapevo bene che non lo era più.
«Ora invece sono ovunque e non sono nessuno, e non devo più rubare, non devo più piangere, non devo più dimostrare nulla. Da dentro i suoi nervi guardo questa cosa che chiamate coscienza e mi sembra un dado nelle mani di un bambino».
Scossi la testa per smettere di ascoltarlo. Lo stava parlando, proprio come lo aveva guidato in mezzo al bosco per chilometri. Lo usava come una marionetta. Lo usava per… Da cosa voleva distrarmi?
«Cosa vuoi da me, Erik?»
Con un rumore di polvere, come crosta di pane spezzata, ciò che restava del corpo di Erik si spaccò a metà e cadde al suolo, secco, sbriciolandosi.
«Erik non esiste più. Non ha più volontà. Tu, piuttosto: cosa vuoi tu, Danny?»
Mi guardai intorno circospetto, cercando di registrare con la coda dell’occhio ogni movimento, ma era difficile: il buio era un oceano brulicante di filamenti e fruscii. Non mi piaceva. Non mi piaceva per niente esser lì.
«Io…», strinsi i denti e tutti i muscoli del collo per smettere di tremare, «io non vorrei più essere qui…»
«E dove vorresti essere?»
Mi coprii la faccia con le mani.
«Nel letto. Al buio».
Una delle sue propaggini mi carezzò dolcemente la base della nuca. Provai repulsione e un inaspettato sollievo. Come dopo aver confessato un crimine indicibile.
«Bravo Danny. Bravo».
Caddi in ginocchio e cominciai a singhiozzare. Scosse incontrollabili. Il diaframma mi picchiava dentro il petto come un sepolto vivo.
«Conosco un posto, sai?»
Sentivo, viscidi, i tentacoli avvolgermi. Sentivo, nelle tempie, l’urgenza pulsante di fuggire. Ma come si scappa dal mondo?
«Un posto buio, dove potrai riposare».
Sentii la provetta, fredda e dura, nella tasca interna della tuta. Premeva contro la mia pelle. Bruciava come una speranza.
Dovevo resistere? Dovevo portare quel segreto agli scienziati? Sarebbe servito a qualcosa? A qualcosa di più che incidere il mio nome su una fila invisibile di pezzi di carbonio?
Una speranza è abbastanza?
Mi schiacciai i palmi delle mani sulle orecchie: «Perché vuoi me?». Urlai senza sentirmi.
La stretta si arrestò per un istante.
Allora continuai, gridando come un bambino tradito: «Se sei il mondo, se hai ogni cosa, perché non ti basti? Perché vuoi me?»
Partì da lontano, ma in un istante percorse l’intera ragnatela: la risata squassò l’aria come una manata sulle corde esposte di un pianoforte.
«Danny, non mettiamola sul personale… Il fatto è che sei materia. Materia molto nutriente», sentii l’acquolina trasudare copiosamente dalle sue appendici, bagnarmi i vestiti, «e io devo pur mettere qualcosa sotto i denti, no?».
Ma mentiva. Seppi, in quell’istante che mentiva. Anche la sua saliva non era che menzogna. Non capivo la ragione, ma un’idea si era disegnata con chiarezza nellla mia mente: aveva bisogno di me.
Allora ripetei: «Perché me?»
La presa si fece più forte, incontrastabile. Sentii le ossa disarticolarsi, scricchiolare e frantumarsi. Ma non smisi d’interrogarlo.
«Perché me? Perché mi hai vomitato se poi vuoi leccare via tutto, come un cane?».
Giro dopo giro, un nodo duro mi strinse i polmoni e il collo, fino a strizzare fuori l’ultimo fiato: «Se sei il mondo, parla… perché me?».
La cosa che era Erik continuò a stringere, ma non rispose.

Ruth era fatta apposta per quello.
Ci sono individui che si trovano buttati nel presente come dei calzini sulla sedia del soggiorno. Né loro, né il presente in cui abitano capiscono cosa ci facciano lì, ma ci sono. Forse in un presente diverso, chissà… ma son tutte supposizioni.
Ce ne sono altri, invece, che reggono bene la routine. Gestiscono efficacemente il flusso quotidiano dei compiti, delle azioni ripetute, e lo fanno senza scomporsi. Si flettono, s’inarcano, si modellano fino a diventare essi stessi quel flusso.
Ma – crac! – a un certo punto l’imprevisto. L’imprevisto penetra sempre da una crepa. A volte è una crepa lasciata aperta per negligenza, a volte è frutto del puro caso. No, forse è sempre contemporaneamente per via di entrambe le cose. O forse vedere la crepa come un effetto è già spia di una prospettiva troppo umana, e l’imprevisto non è mai davvero tale: la crepa era lì da prima del muro.
Ad ogni modo, le persone di questo tipo, non sono brave a gestire l’imprevisto. Se si spaccano le cornici, annegano nel quadro. Diventano a loro volta calzini. Peggio di calzini: stracci. Cose che prima erano altre cose e adesso acchiappano la polvere.
Forse questi due tipi di persona sono, a ben vedere, la stessa: basta rivoltarli.
Ruth, in ogni caso, non era né l’uno né l’altro. Lei era in perfetta sintonia, ma con un flusso carsico, invisibile nel quotidiano. Eppure presente. Dolorosamente presente.
Non era un altro, il suo adesso. Ma era un adesso di attesa, che non poteva mostrarsi se non in una meticolosa igiene fisica e mentale. Una levigatezza ottenuta immergendo se stessa e tutto il mondo in una tinozza di sarcasmo caustico, e sfregando con energia e costanza.
Ma proprio per questo era pronta. Sarebbe potuto passare un anno, un decennio, forse un secolo. Forse il momento sarebbe arrivato quando ormai le anche non l’avrebbero più sorretta. Forse non l’avrebbe mai visto, quel momento. Ma non importava: conosceva quali erano i rischi.
Perciò, quando la crepa si era aperta sotto ai piedi del presente, lei sapeva esattamente cosa fare.

Quando sfondarono la porta, le cucine erano ormai deserte. I cuochi, richiamati dall’allarme, si erano ritirati nelle Navate passando dall’entrata posteriore. Ad attenderli c’era solo il sinistro luccicare degli utensili appesi alle rastrelliere.
«Simmons, Kasinsky da una parte, Derek, Bea dall’altra: presidiate le entrate. Bonny, Meg: pensate ai feriti. Voglio un report sulla situazione: chi può camminare da solo, chi ha urgente bisogno di cure. A tutti gli altri: cercate armi, provviste e smettetela immediatamente di produrre fantasmi. Non devono sapere che siamo qui».
Le sue mani sottili indicavano persone, ruoli e postazioni con la naturalezza e l’assertività di un papa. Nessuno osava contraddirle.
Prima dell’attacco, quando sembrava che il problema fosse solo Wilkins steso a terra e i suoi tentacoli nuovi fiammanti, Simmons aveva cercato di intralciarla, di prendere il comando. Ma la reazione del suo Avanti era stata lenta e scomposta, annebbiata dalla Pappa. Troppo pacata. Troppo fiduciosa. Troppo fedele alla Mente.
Quando il commando aveva fatto irruzione nel refettorio, quando avevano visto i soldati armati e in tenuta anti-micotica, quando le prime file di Camminanti erano cadute sotto i colpi dei taser, non ci furono più dubbi in merito a nulla. Chi voleva vivere doveva organizzarsi, colpire e scappare. E l’unica voce abbastanza forte da sovrastare il caos – che intimava di impazzire – e abbastanza sensata da zittire la Mente – che bisbigliava di sottomettersi – era la sua. Era quella di Ruth.
I soldati non erano preparati a una ribellione.
Certo, avevano studiato sui Manuali tutte le eventualità e i relativi protocolli; sapevano benissimo cosa avrebbero dovuto fare. Ma lo sapevano al condizionale, sulla carta. Qualsiasi descrizione di un compito, anche la più precisa, lascia delle zone grigie, dei salti che richiedono di procedere senza appoggio. Anzi, forse più è dettagliata la descrizione, più si aprono piccoli, infiniti baratri tra un brano e l’altro.
Era stato sufficiente individuare le figure intermedie di responsabilità, seccarle velocemente prendendole di sorpresa, e l’intero commando si era vaporizzato nell’incertezza. Ogni soldato affogava nel suo oceano di informazioni contraddittorie. Come una persona che, dopo aver letto un manuale sul nuoto a stile libero, fosse stata catapultata per la prima volta in mare aperto durante una tempesta.
Era stato semplice respingere la prima ondata, ma non lo sarebbe stato altrettanto con la seconda. Presto sarebbero arrivati con i lanciafiamme.
Ruth prese un ampio respiro, tentò di ricacciare in un angolo ogni briciolo di vanagloria e si voltò per guardare le facce che avevano deciso di seguirla. Erano molte, erano stanche.
Doveva parlare poco, ma dire tutto:
«Ci ho contato. Siamo quasi un decimo di tutti gli abitanti delle Navate. I Soldati sono meno della metà. Io non so cosa abbia colpito Wilkins, non so quanto sia pericoloso, non so se siamo tutti infetti. Quello che so è che la Mente non può semplicemente ignorare il nostro volere. Quello che so è che voglio vivere».
Alcune mani cominciarono a battere, ma Ruth chiese il silenzio.
«Non voglio fare un comizio. Non cerco appoggio per contrattare una resa. Chi desidera tornare alle Navate è libero di andarsene quando vuole, anche ora».
Alcuni volti, stupiti, si scambiarono occhiate interrogative, alcune bocche mormorarono a mezza voce. Ma Ruth sembrò non curarsene.
«A questo punto c’è solo una scelta: la morte o la vita. E chi vuole vivere deve trovare il modo di andarsene il più in fretta possibile, prima che i soldati si organizzino».
La sala si gelò. Lasciare le Navate? E andar dove? nei Lotti Mediani? Era un’eventualità preferibile? In cuor suo, mentre ascoltava Ruth, ognuno cercava una risposta.
Ma lei aveva già superato di slancio ogni esitazione e cercava solo la via più veloce per mettere in atto il suo piano: «Meg, quanti feriti abbiamo? In che condizioni si trovano?»
La giovane Camminante rispose senza levare gli occhi da una fasciatura: «Una ventina di feriti lievi che possono procedere autonomamente. Tre seriamente compromessi che necessitano di cure mediche urgenti. E Wilkins, che continua a non dare segni di ripresa, nonostante i suoi parametri vitali siano buoni. Ma la cosa è cresciuta. Gli ricopre tutto il volto».
Dalle gole dei presenti si alzò un gorgoglìo di preoccupazione. Ruth fu costretta ad alzare la voce: «Non mi interessa, non possiamo lasciarlo qua. Noi non lasciamo indietro nessuno, noi non siamo la Mente!».
Le sue parole fecero silenzio come una manata di sabbia in bocca. Allora fece una pausa, si staccò dal ripiano su cui era appoggiata, e camminando lentamente tra i sopravvissuti impartì ordini chiari e precisi: «Simmons organizzerà la retroguardia qua sopra, mentre Meg si occuperà di mettere i feriti in condizione di muoversi o di essere mossi. Gli altri accumulino quante più provviste possono senza appesantirsi troppo. Io scenderò nelle cantine con Stan e Olsen per studiare una via di fuga. Vedrete: riusciremo a uscire da questo posto».
Nessuno rispose. Non era più tempo per parlare. I Camminanti, come sempre coordinati come i muscoli di un grande corpo, si misero al lavoro.
Ma una nuova consapevolezza, strisciante, intrecciava nodo a nodo la vita di tutti con quella di ognuno.
Noi non siamo la Mente.

«Cosa significa “respinti”?»
Il Generale Gawer sentì una vertigine nel centro dello stomaco.
Non era a suo agio nel riportare una mancanza. Ma non c’era un modo diverso di chiamarla.
Se si trovava lì, in quel momento, era perché non aveva mai nascosto le sue responsabilità. La Mente lo sapeva.
Rilasciò il fantasma che serviva a provare la sua completa sincerità. Poi si schiarì la voce per mantenere un tono basso ma limpido, tirò indietro le spalle e parlò:
«La folla di Camminanti ha reagito con inaspettata violenza agli ordini dei Soldati. Il battaglione è stato costretto a ritirarsi per evitare perdite inutili».
Nella penombra della stanza di cova, un fruscio lieve, ma indispettito, spezzò il bisbiglio del Generale:
«Dunque, Gawer, un gruppo di persone senza armi e senza alcun addestramento militare ha messo in fuga un nostro battaglione perfettamente equipaggiato. È questo che mi sta dicendo?»
Un silenzio più grande della stanza premette contro i muri e la volta buia.
Il cuore di Gawer era una cattedrale costruita sulla colpa, e quello era solo un nuovo mattone.
Senza abbassare il capo, impassibile, il Generale rispose: «Sì».
Allora da una manica di seta bianca, con un nuovo fruscio, uscì un mano esile, ancora più bianca. Le dita si posarono sul bordo di una culla, ma senza intento, come a saggiarne semplicemente la realtà.
Una testa di donna le seguì, scivolando fuori dalla penombra. Le ciglia nascondevano lo sguardo. Gawer la immaginò rapita dalla profondità del mistero addormentato nella culla.
La stanza di cova era, anche per i militari di alto grado come lui, un luogo che esercitava una profonda soggezione. Dentro a quei muri veniva allevato il loro futuro.
Quando tornò con lo sguardo sulla donna, si scoprì osservato da due occhi scuri, di una fissità innaturale:
«Una massa senza testa si disperde. Loro non sono allo sbando. Chi li guida?»
Il Generale sorrise internamente. Ecco perché era stata scelta. Anche senza consultare la Mente, lei sapeva.
Lei sapeva, senza bisogno di vedere. Come chi capisce le leggi che regolano la realtà semplicemente guardando la polvere sospesa in un raggio di luce.
«È una donna. Una Camminante, livello intermedio. Si chiama Ruth», rispose.
«Ruth», liberò la parola dalla sua bocca come un’allodola, poi sollevò la mano dal bordo della culla e la richiuse dolcemente davanti al suo petto, «Portamela qui. Voglio vederla viva».
Il Generale annuì, battè i tacchi, fece un lieve inchino e si voltò, perdendosi nella tenebra.

La Regina rimase sola nel cerchio formato da dodici culle identiche. Con una smorfia distolse lo sguardo dal neonato deforme ospitato in quella più vicina.
Anche le Regine possono morire. Perciò la Mente, ad ogni nuova nidiata, alleva una dozzina di possibili sostitute.
Alcune rispondono male al nutrimento speciale, diventano aberrazioni e vengono riassorbite o usate come Sotterranee.
Altre sviluppano i caratteri necessari a diventare Regine e ricevono un’educazione separata dal resto dei bambini.
Se una Regina sta morendo, la Mente sa già chi, tra queste, dovrà succederle. La Mente ha le sue ragioni.
Le altre, invece, sono bambine ombra.
Condividono la fanciullezza con la prescelta, pronte a subentrarle nel caso avvenisse qualche sciagura. Poi, quando crescono, vengono integrate nella struttura sociale. Di solito, diventano militari di alto grado, o precettrici speciali.
Le sue bambine ombra erano le uniche persone con cui avesse mai giocato.
Mentre pensava ciò, le entrò nel naso il ricordo aspro della saliva abbandonata sui giocattoli. L’attrito viscido del tappeto di gomma. Sentì ancora e ancora, sulla mano, i denti acuminati della bambina dalle grandi orecchie. Sentì la voce della precettrice che gridava quel nome, vide due mani immense calare dal cielo per sollevare il corpo che la schiacciava al suolo.
Si riscosse e passò il pollice sulla piccola cicatrice circolare che le adornava il dorso della mano destra. Nessun dolore.
Come se qualcosa avesse schiacciato un bottone nel centro della sua anima, rinvenne, attraversò la stanza di cova con passo energico e superò una porta socchiusa.
La sala del trono era immobile e semivuota. Solo la parete di mucosa, pulsando, inglobava parte di un sobrio scranno.
La Regina si sedette, nascose gli occhi dietro alle ciglia e pensò: «Mostramela».
Un’appendice viscida e carnosa si staccò dalla parete per congiungersi al suo funicolo.

«Perché in cantina? Non rischiamo di finire in un cul-de-sac?», Stan aveva aperto la porta e direzionava senza convinzione la bioluminescenza del funicolo verso il buio sotto di lui; anche Olsen sembrava molto poco entusiasta. Ruth superò entrambi e si addentrò nell’ignoto: «I canali di scolo. Finiscono in un serbatoio da cui si accede solo attraverso le cantine. Ci sono delle grate che comunicano con l’esterno. Fuggiremo spaccandole».
Non ci avevano pensato. Ammutoliti, la seguirono.
Nessuno di loro era mai sceso nella cantine. I Cuochi non accettavano Camminanti: solo Sotterranei. I Sotterranei erano il gradino più basso della piramide. Anzi, come dice il loro nome, stavano sotto alla piramide.
Sporchi, brutti, incapaci di esprimersi, molti di loro afflitti da menomazioni o ritardi: semplicemente nessuno li voleva vedere in giro. Non sarebbero stati in grado di seguire la fila, tracciare i sentieri o combattere per la Regina, e allora venivano messi nelle cantine.
Tutti sapevano della loro esistenza, a nessuno interessava sincerarsene.
Ma come ci insegna la natura, anche le ultime fra le creature sono preziose: chi procurava il carburante spirituale alla Mente e ai suoi figli? Chi faticava ogni giorno lontano dalla luce perché le classi mediane potessero godersi le loro sacrosante ciucche serali? In definitiva, chi bisognava ringraziare per il continuo rinnovarsi del miracolo della Pappa?
Esatto, proprio loro: i Sotterranei. Erano loro a distillarla nel segreto delle cantine. «Lunga vita ai sotterranei!» era uno dei brindisi più comuni, nel refettorio.
La scala si spense in una tenebra umida e maleodorante. Il rimbombo dei passi faceva intuire uno spazio immenso. In quel buio senza cose, rimasero immobili, in ostaggio del loro stesso battito cardiaco, per un tempo breve e antichissimo. Poi la mano di Olsen, tastando lungo la parete, trovò un interruttore.
Cinque file di luci gialle e sfrigolanti illuminarono, inizialmente a intermittenza e poi con maggiore stabilità, uno stanzone imponente disseminato di vasche. Tutto era permeato da un insostenibile olezzo di marcio. Le vasche erano collegate a un complesso sistema idraulico; i tubi correvano come roditori lungo i muri e il pavimento in laterizio rosso.
«Che cosa cazzo sono?», Stan si addentrò tra i corridoi, una mano su naso e bocca, dubbioso se sbirciare o no oltre gli orli di ceramica sbeccata.
«Io non mi avvicinerei troppo».
Ruth parlava con voce lontana, indifferente a quel paesaggio di decadenza industriale. Guardava in alto, dove i muri si incontravano con il soffitto, in cerca dell’accesso al serbatoio.
«Sono vasche colme di materiale organico putrefatto. Servono per coltivare funghi».
Stan si ritrasse disgustato e Ruth, che nel mentre aveva trovato una scala arrugginita e la stava trascinando rumorosamente sul pavimento, non si lasciò sfuggire l’occasione per un piccolo agguato: «Di solito non fai quella faccia, quando ti servono la Pappa».
«Che c’entra?» Rispose Stan, abbassando il capo e spingendo via la provocazione con una mano. Olsen raccolse un bastone da terra e ridacchiò malizioso, come chi già conosce la continuazione del discorso.
«C’entra, c’entra…», fece Ruth, raggiungendo il muro di fondo e agganciando la scala ad un pianerottolo in ferro battuto che sporgeva dal muro, «C’entra che le neurotossine della Pappa secondo te da dove arrivano? Dove vivi, Stan? Nella sala di cova?».
Quello, incredulo, non trovò nulla per rispondere a tono; così arricciò il naso e sputò per terra. La sala, enorme e vuota, sembrò animarsi, riverberando all’impatto della saliva con il pavimento.
Olsen, sempre ridacchiando sommessamente, immerse il bastone nella vasca più vicina.
Ruth, invece, saggiata la stabilità dell’attrezzo, calcò i primi scalini.
«La vuoi smettere di rimestare quella merda? Dio, senti che tanfo!», Stan, non sapendo come scaricare la frustrazione, decise di prendersela col compagno; ma quello, intento ad esplorare il contenuto di una vasca, ignorava le sue lamentele.
Intanto Ruth era quasi arrivata in cima. Al di sopra del pianerotto riusciva a scorgere una piccola porta metallica con la vernice scrostata dall’umidità: l’accesso al deposito?
All’improvviso, un urlo soffocato e un tonfo nel pantano.
Olsen aveva lasciato cadere il bastone nella vasca e ora si copriva la bocca, tremante. Stan, accantonato il fastidio, si affrettò a posargli una mano sulla schiena: «Che succede? Stai bene?». Attraverso il tessuto della tuta sentì il torso del compagno squassarsi in preda ai conati.
Ruth, richiamata dall’urlo, si voltò verso i due Camminanti.
Il movimento brusco rischiò di farle perdere l’equilibro, ma si controbilanciò rapidamente e, per reazione, si aggrappò con più forza al ferro ruvido dei pioli. Un piccolo spavento, destinato a lasciare il posto a una terrore molto più grande.
Da quell’altezza, Stan e Olsen, sembravano due bambini nel bosco.
Il rosso dei mattoni, un tappeto di sangue.
Da quell’altezza, la distesa di vasche bianche, era un cimitero di vetro.

Quattro ore di straordinario erano molte anche per Herman. Decise che i due ragazzi non sarebbero più tornati. Almeno: non quella notte, e non sulle loro gambe.
Aveva sentito due Soldati parlare della cosa che si annidava nei Lotti Mediani. La Mutazione, l’avevano chiamata. Aveva ascoltato i loro discorsi per caso, in refettorio. Non li aveva visti in faccia perché stavano nel tavolo dietro. Si scambiavano brevi commenti sottovoce ma Herman aveva imparato a non lasciarsi sfuggire neanche i sospiri.
I sospiri sono importanti. Nei sospiri si nascondono i desideri, le preghiere, le aspirazioni. Bisogna saperli leggere, per fare carriera. E Herman non sarebbe rimasto un Cassiere per sempre. Oh, no. La Mente avrebbe ascoltato i suoi sospiri, un giorno.
Pare che la Mutazione, in origine, fosse un semplice neurofungo, come quelli che si usano per la Pappa. Ma per uno strano avvitamento del caso aveva sviluppato un pensiero. Qualcosa di simile a una coscienza. Qualcosa che usava per costruire trappole.
Per progettare una trappola non basta essere furbi e cattivi: bisogna conoscere la preda. Studiarla. Capirla. Amarla.
Bisogna pensare come lei.
E quella cosa, quella Mutazione, era una maestra delle trappole. Aveva già attirato un paio di Soldati nelle foreste. Non si erano più visti.
Herman non osava pensare distintamente a quell’essere, se così si poteva chiamare, perché la Mente stessa sembrava esserne preoccupata. Lo avrebbe percepito. Lo avrebbe punito. Giustamente, punito.
Eppure il suo pensiero continuava a tornare lì: come poteva, una stupida muffa, sviluppare quella ragnatela intricata di processi che ora – proprio ora – stavano indagando loro stessi?
Non se ne capacitava.
Di solito non andava così. Le spore dei neurofunghi potevano essere inalate accidentalmente, trasportate dal vento, o ingerite. Ma normalmente, non appena l’ospite mostrava i primi sintomi di micosi, i Soldati lo prelevavano dalla fila. La Mente adorava i funghi neurali. Li cresceva nei sotterranei delle navate, in lunghe vasche colme di vegetali putrescenti.
A pensarci, era un paradosso affascinante: la Mente coltivava qualcosa che, per vivere, aveva bisogno di proliferare negli individui che formavano la Mente stessa. E questi, inconsapevoli, si nutrivano del prodotto che ne veniva.
Herman scosse la testa e sospirò: non erano cose adatte a un Cassiere.
Controllò ancora una volta l’ora esatta, firmò i registri, ritirò i timbri, poi chiuse nel cassetto alcune cartellette, girò la chiave e se l’appese al collo.
Era rimasta un’ultima cosa da fare prima di tuffarsi sotto le coperte. Mise le mani sui fianchi, guardò in basso verso il boccione di plastica contenente i carichi leggeri della giornata ed espirò rumorosamente.
Era preoccupato. I militari avevano sedato una rivolta giù nel refettorio.
Piegò le ginocchia e, mantenendo il torso ritto, sollevo il boccione usando entrambe le mani.
Praticamente tutti i Camminanti delle Navate avevano manifestato sintomi di micosi, ma si rifiutavano di seguire i Soldati nei sotterranei.
Percorse il breve tratto fino al canale di scolo.
Quei deficenti non volevano entrare nelle vasche. Certa gente non riesce proprio a capire cosa voglia dire mettere il bene comune davanti alla propria piccola, inutile esistenza.
Svitò il tappo del boccione e versò i carichi di giornata nell’acqua nera e oleosa del canale. Una pioggia di sassolini colorati, piume, piccoli corpi morti affondò nei flutti. Osservò mentre la corrente trasportava ogni cosa oltre le griglie, nel buio dei sotterranei. Ebbe un brivido, poi si incamminò.
Lui, Herman, sapeva di essere solo un piccolo ingranaggio; un pezzo utile ma sostituibile della grandiosa complessità della Mente. «Un piccolo pezzettino di merda che ora è molto stanco e se ne va a dormire», bisbigliò fra sé, e rise.
Per imboccare il portone d’entrata delle navate doveva passare nuovamente davanti alla sua scrivania. Represse un senso di nausea e gettò una rapida occhiata per sincerarsi di non aver scordato nulla, che tutto fosse a posto.
Un riflesso di luna baluginò sulla superficie nuda del tavolo illuminando la sua negligenza: c’era qualcosa fuori dai cassetti. Subito la mano nervosa corse al petto, ma le dita percepirono sotto la stoffa il duro, rassicurante disegno della chiave. «Possibile? Ho lasciato fuori un timbro?»
Alitando dalla bocca spalancata tutta la sua ragionevole insofferenza, Herman cedette al senso del dovere e si avvicinò nuovamente alla postazione.
Non era un timbro. Non riusciva a capire cosa fosse, ma di sicuro non era un timbro.
Dentro a un cilindretto di vetro, una schiuma viscosa ribolliva arrampicandosi sulle pareti lisce, come volesse uscire a prendere una boccata d’aria.
Si rigirò l’oggetto tra le dita alla ricerca di un indizio della sua provenienza, ma non trovò nulla di significativo. Poi percepì qualcosa nell’erba, a pochi metri da lui. Qualcosa che si contorceva.
Cautamente strisciò con i piedi sul terreno fino a quando non fu abbastanza vicino per chinarsi.
La prima reazione fu di premersi con forza il palmo della mano sulle labbra per bloccare un urlo.
Era reciso di netto, ma l’elettricità, continuando a scorrere nei nervi, lo costringeva a mettere in scena un’involontaria danza macabra. Pareva una breve serpe di carne.
Nonostante Herman indossasse i guanti di lattice, gli ci volle tutto il suo autocontrollo per decidersi a raccoglierlo. Il sangue era fluido e caldo, la pelle morbida. Doveva essere successo da pochissimo.
D’improvviso le convulsioni cessarono.
Herman posò con cura il reperto sul palmo di una mano per esaminarlo meglio.
Più che tagliato di netto, sembrava essersi separato dal resto del corpo a causa di un disseccamento, di una rapida desquamazione dei tessuti. I lembi di pelle dell’estremità recisa erano polverosi e secchi, come erosi dalla psoriasi.
Mentre il Cassiere lo osservava con disgusto e morboso interesse, il funicolo si voltò e lo illuminò.

Allora, con una voce che sembrava provenire da ovunque e da dentro la sua testa, io ho mormorato a Herman:

Ciechi in fila/
sull’orlo del nulla,/
eco di carne,/
silenzio che culla:/
«Io sono qui,/
tu dove sei?»

Tutto il tempo è adesso. Adesso è ogni tempo.
Tutto ciò che è stato, tutto ciò che sarà, si agglutina in questo punto senza dimensione. Un impasto umido, colloso in cui sprofondiamo come dita.
Qualcuno vuole fare ordine, raccontare, e allora è come una mano che cerca di strappare la pasta dall’altra. Qualcosa lascia, qualcosa trova, finché non arriva il turno dell’altra. Dell’altra mano che pilucca la prima.
È una danza meravigliosa, che non serve a niente. Le due mani non possono liberarsi a vicenda: rimarranno sempre invischiate nell’impasto, lo poteranno con sé, nel loro raccontare.
Per spezzare il tempo serve una frizione. Voci diverse, come palmi che si sfregano, sbriciolano il tempo, lo riducono in frammenti. Se il dialogo si interrompe, se la danza perde un passo, se le mani si riconoscono irrimediabilmente due, allora avranno due tempi. Due e incommensurabili.
Durante le rivoluzioni si spaccano gli orologi: Adesso non è più ciò che è stato, adesso non è ancora ciò che sarà. Adesso è la crepa, la voragine senza parole che separa i mondi.
Solo nell’adesso può farsi largo un altro tempo. Solo con un taglio e una separazione. Come quando un figlio lascia la casa, una famiglia si spezza, la rabbia diventa guerra, una parte di popolo emigra.
Io lo so perché sono il figlio di questo taglio. Sono le briciole di un nuovo tempo in attesa di riunirsi in un altro adesso.

Io non sono più la Mente, il suo nucleo pulsante che colonizza la sala del trono e si ramifica fin dentro all’anima dell’ultimo dei Sotterranei.
Io sono nei polmoni ansanti di Stan e Olsen che segano le grate per creare una via di fuga.
Non sono il terrore di Herman, con il funicolo di Danny ancora in mano, che sente grattare dal sottosuolo e corre a ripararsi dietro a un cespuglio.
Sono una fila di Camminanti che scivola giù dalle cucine e sale pazientemente, una persona alla volta, la scala di ferro appoggiata da Ruth sul ballatoio del deposito.
Non sono il passo muto del Soldato che abbandona il suo nascondiglio nel refettorio e corre ad avvisare il Generale Gawer.
Sono Wilkins che attraversa il cimitero di vasche su un carrello da portata, quasi indistinguibile dai corpi in ammollo colonizzati dai funghi.
Non sono l’ordine di Gawer, che spedisce un battaglione a presidiare la radura intorno alle Navate.
Sono il sospetto di Simmons, che chiude la porta delle cantine alle sue spalle, chiedendosi perché i Soldati non sono arrivati.
Non sono le mani di Herman, che scostano le frasche per spiare che succede.
Sono la bocca dei primi Camminanti usciti dalle grate, che si riempie con l’aria della notte.
Non sono il funicolo del Cassiere, da cui la Regina, connessa alla Mente, può vedere e riconoscere la sagoma della donna a capo dell’insurrezione.
Sono il prurito alla base del funicolo di Ruth, che la avvisa del pericolo imminente.
Non sono i manganelli che si abbattono sulle prime file dei ribelli.
Sono la testa di Simmons che esplode in mille pezzi.
Non sono il protocollo di accerchiamento e carica eseguito dai Soldati.
Sono la morte di decine di Camminanti.
Non sono il nuovo mattone di colpa che appesantisce il cuore di Gawer.
Io sono l’attesa paziente di Danny che finisce. La sua figura che fuoriesce dal limitare dei boschi intorno alle Navate e supera Herman senza guardarlo. I suoi occhi che osservano senza timore l’infuriare di una battaglia impari. Il suo passo che si spinge fino al centro della lotta, indisturbato.
Io non sono l’impotenza dei Soldati presi alle spalle.
Io sono le propaggini che esplodono dal corpo mutato di Danny. Le spire che si avvinghiano agli arti. Le punte che perforano. Le sferzate che disintegrano.
Io non sono la morte di centinaia di Soldati. Non sono le loro divise accasciate, come sacchi ricolmi di carne morta.
Io sono la fuga a rotta di collo dei Camminanti sopravvissuti.
Sono l’odore di fango.
Sono le impronte nel sottobosco.
Sono la scelta di Herman di seguirle.
Io non sono il dolore della Mente, che si contorce come un animale mutilato.
Io sono la fine della corsa. Sono un gruppo che si ricompone. E nella poca luce di una radura dimenticata, nel mezzo della notte gravida di rumori dei Lotti Mediani, mi riconosco in un circolo di denti rotti, di muscoli doloranti e occhi tumefatti.
Io non sono più una fila.
Sono un cerchio che osserva Danny e Ruth. Una cosa viva che rifiata e cerca la forza di partotire un nuovo tempo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *