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Budalla
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 21/03/2023 2 Comments 6 min read
Non sei tu, sono io - divagazioni pasoliniane Previous Assimilazione Next

di Fatjona Lamçe
Copertina di Roberta Delitala

«Jona, sta vomitando», dice mia madre.

«Così impara» dice mio padre, e non fa in tempo a finire di dire che così imparo che l’odore del mio vomito arriva in cucina e poi al suo naso, e poi lo stomaco gli si squarcia. Lui, che ha più esperienza di me in fatto di stomaci squarciati, si mette a correre e raggiunge il water, dove vomita con educazione e facendo pochi schizzi.

«Mmm» dice mia madre, mentre raccoglie il mio vomito maleducato da terra «così impari pure tu».

In questa famiglia l’unica che non vomita è mia madre e su di lei incombe il peso schifoso della raccolta dei vomiti di tutti. Mio padre vomita tutte le mattine prima di andare a lavorare. Pensa alla cazzuola e vomita. Poi pulisce le labbra e va fuori in terrazzo a prendere una boccata d’aria, pensa a sua madre, corre in bagno. E vomita di nuovo. Pensa ai debiti. Oddio. Ancora. Mia sorella vomita perché ha 6 anni e il suo sistema immunitario è alle prese con dei virus gastrointestinali stranieri. Io ho il vomito più facile di tutti. Mi basta pochissimo, mi viene da vomitare al solo sentire la parola vomito. Figuriamoci se sento qualcuno che sta vomitando, o vedo il vomito di qualcuno o – peggio ancora – ne sento l’odore. Ma sono fortunata perché mio padre va a lavorare prima che io mi svegli, quindi non faccio in tempo ad attivare i neuroni a specchio del vomito.

Posso vomitare ogni mattina solo per i problemi miei, che – dato che ho 11 anni – sono pochi e infantili e sono: la scuola, il parlare la lingua della gente che mi circonda così così, avere dei vestiti di merda che mia madre ha preso alla caritas e per cui tutti mi prendo per il culo, un paio di scarpe di due numeri superiori alla mia taglia, la scuola media statale Leonardo Da Vinci di Rufina, dei voti di merda perché non capisco più della metà delle cose che vengono dette, mio padre che dice che ho dei voti di merda, la scuola media statale etc. etc., mia madre che dice che ho dei voti di merda (ma con più dolcezza), nessuna amica, nessun amico, il fatto che tutti parlano del grande fratello, ma la televisione che mio padre ha trovato in un cassonetto su a Santa Brigida prende solo rai 1, rai 2 e rai 3, e io non so chi sia Pietro Taricone (il che mi esclude – anche volendo – dal 100% dei discorsi dei miei coetanei).

Mio padre torna dal bagno e dice di nuovo il suo mantra, l’unica cosa che ha da dirmi: «Babar, non devi diventare come noi. Devi studiare.»

Dio. Ancora.

«Ha capito» gli urla mia madre «lasciala stare! Lo sa.» Mio padre va in camera sua e si stende sul letto (trovato in un cassonetto a Pontassieve, c’era anche il materasso, un vero colpo di fortuna quella volta). Guarda la mia pagella e chiede corrucciato  «che voto è questo sufficiente? Cosa vuol dire?»

«Cinque» lo dico piano, mi vergogno.  Chi ha mai preso un cinque? Io avevo tutti dieci, ho la pagella vecchia che mi guarda: tutti dieci, anche a musica (dove a essere onesti facevo schifo, ma al mio insegnante – evidentemente- dispiaceva rovinare una pagella così bella e perfetta) 

«CINQUE?»

«Sì»

«Vabbè» rinsavisce «studierai di più e prenderai dei voti più alti, altrimenti ce ne andremo da questo paese. Non siamo venuti qui per vedere queste pagelle di merda.»

«Eh, mamma mia! Come sei tragico» dice mia madre, abituata a raccogliere i vomiti di mio padre «È normale. È solo l’inizio. Cosa ti aspettavi, budalla

Scemo.

Lui si alza, apre la confezione di tavernello da due litri e mezzo (quella col distributore color vinaccia) ne riempie un bicchiere e se lo beve, poi prende le chiavi della macchina e mi dice di seguirlo. Mia mamma sbuffa, approfitta dell’ennesima pausa vomito di mio padre (il bicchiere di vino non si è rivelato una grande idea) «ti porterà in giro e ti racconterà di nuovo la storia di lui che è andato a lavorare a QUATTORDICI anni, cioè quando aveva SOLO tre anni più di te, ma tu non ci fare caso, lascialo parlare»

«Ma non aveva iniziato a lavorare a SEDICI anni?» chiedo fiscale, nemmeno fossi un impiegato Inps durante il calcolo dei contributi versati.

«E non mettere mai in discussione questo racconto. È solo molto triste ma non è colpa tua», aggiunge con molta serietà mia madre, guardandomi dritto negli occhi.

Saliamo in macchina, andiamo su per le colline «Le odio» dice.

«Che cosa?» rispondo, ma so già a cosa si riferisce, è un pensiero che abbiamo tutti.

«Queste colline» dice «mi manca il mare».

«Sì, lo so» dico guardando fuori dal finestrino.

«A te?»

Non rispondo, penso che è giovedì. ll giovedì è il giorno in cui mamma fa la zuppa di fagioli e dico «Ah, oggi fasule». Sento che viene da vomitare a entrambi. Si ferma. Siamo ad Acone, o giù di lì, ci guardiamo complici e scendiamo. Un bellissimo comodino bianco, abbandonato sul ciglio della strada e dietro di lui un altro bellissimo comodino bianco perfettamente identico.

«Mi sembrano messi bene» dice «Li prendiamo?»

«Sì» dico senza molto entusiasmo per quel colpo di fortuna «Credo che piaceranno pure a mamma questi» dico.

«Certo e poi così può metterci dentro la tua bellissima pagella» ride.

Risaliamo sulla 127, mi racconta di nuovo, come preventivato, la storia di lui, che – udite udite!  – alla mia età già lavorava. Gli faccio presente che io ho solo 11 anni.

«Ah, non ne fai tredici tra poco? Vabbè» dice «Io a tredici anni già lavoravo. Mi spaccavo la schiena e continuerò a farlo per tutto il resto della mia vita. Perché è questo che fanno quelli come me.»

«Sì, lo so.»

«Tu devi studiare. Devi costruirti un futuro. Cosa ti manca?»

Dio, da dove iniziare? Ma sto zitta. Non c’ho voglia. Ho 11 anni e mi sento pure in colpa perché ha le mani gonfie e nere e lo stomaco oggi gliel’ha squarciato la mia cazzo di pagella.

«Ti daremo tutto» dice «Dobbiamo costruirci una nuova vita».

Mi guardo intorno, le colline, le vigne secche, nella nostra 127 i comodini di qualche vecchio defunto.

«Babbo» dico «Stiamo riempiendo la casa dei rifiuti di questi altri.»

Ridiamo. 


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