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La ragazza
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 10/10/2023 5 Comments 25 min read
Polyommatus icarus Previous Pelle di serpente Next

di Nicole Trevisan
Copertina di Ivan Jakovlevič Bilibin – Il Gelo e la figliastra

Quando è nata mia sorella Alma ci hanno fatto una foto. Eravamo sul divano, la testa pelosa sulla mia spalla e il corpo d’ovatta appoggiato al mio. Dall’altra parte dell’obiettivo doveva esserci un indice ad ammonirmi, che mi ricordava che era mia responsabilità proteggere quella creatura che sapeva del latte di mia madre e dello stesso talco che ci spolveravano tra le gambe.
Alma si svegliava e aveva fame. Mi svegliava e mi veniva fame. Se lo dicevo, non mi ascoltavano. Sei grande, tu: dell’infanzia ricordo quel comandamento. Lei urlava, sempre. So riconoscere un pianto finto da quando avevo sedici mesi. Parlavo appena, distinguevo oggetti distanti che desideravo, pretendendo in forza di un egoismo concesso da benefici di cui avrei goduto se non fossi diventata subito la maggiore. Guardavo nell’occhio nero della macchina fotografica consapevole che era finita. Quella foto c’è ancora, inclinata in una cornice d’argento. Lo sguardo è lo stesso in quella accanto: sono sullo stesso divano, Alma non mi tocca e tra di noi c’è un altro bambino, nostro fratello Giovanni, con la testa pelata sulla mia spalla e la boccuccia umida di fame. Puzzava: se l’era fatta sotto. Non l’ho detto ai miei. Ho atteso che si mettesse a urlare e lo cullassero. Avevo quattro anni e nessuna voglia di parlare.

Per vivere pulisco cessi. Rifaccio letti, sfrego piastrelle, porto fuori la spazzatura e aspiro peli di cane. È un buon lavoro. Mi vengono affidate case in quartieri bene, ereditate con mobili costosi e quadri accordati alle pareti. Entro nella loro polvere, lascio cera ed essenza di limone sul pavimento, i panni divisi per gradazione di colore. Aggancio il guinzaglio al collo di Doodle e aspetto che si pieghi sulle zampe posteriori e si liberi. La raccolgo in un sacchetto, la butto. Quando torniamo, le canto qualcosa.
I vicini mi salutano, per loro sono la Ragazza, un simbolo di benessere: giovane, svelta, senza prole a carico. Discreta, precisa. Se i miei clienti cambiano città, si raccomandano di affidarmi ad amici che possano garantirmi case tra i centocinquanta e i trecento metri quadri, finiture di pregio da trattare con prodotti specifici e un compenso settimanale imbustato sul tavolo. Non mi obbligano a mettere orpelli da domestica, ma gradiscono la compostezza. Scelgo abiti semplici, presi al mercato il sabato mattina. Devo sostituirli quando si macchiano di candeggina, si strappano o scoloriscono, perché la Ragazza non può apparire trasandata: si potrebbe pensare che non riescono a pagarmi abbastanza, sarebbe inammissibile.

Non posso lamentarmi, e non per i soldi che elargiscono a quota oraria, puntuali. Credo di avere talento. Alle persone piace lasciare stanze disastrate e ritrovarle in ordine senza pensare che dietro ci sia qualcuno. Io faccio in modo di non essere vista, arrivo quando i proprietari sono a lavoro, me ne vado prima che rientrino. Comunichiamo al telefono o con i bigliettini. È finito l’anticalcare. Ho impiegato mezz’ora in più a stirare i panni: ore 10.40 – 12.12. Doodle ha mal di pancia. Mi hanno fatto i complimenti per la grafia. Qualcuno ha azzardato che non aveva idea fossi ordinata anche nello scrivere – non immaginando che fossi brava a scuola, come se non si aspettassero fossi andata oltre la terza media. Non ho risposto. Dubito ricordino il suono della mia voce: la qualità essenziale del mio lavoro è che io sia invisibile. Che passi nelle loro stanze e raccolga i rifiuti, muta sui segreti e le incrostazioni lasciate dai corpi, che non abbia memoria delle loro abitudini e nessuna voglia di giudicarle. Non ho mai saputo fare altro né lo pretendo. Ho trovato il modo di mantenermi senza che qualcuno voglia parlarmi. Non starebbe bene e non c’è niente da dire: ho ventisei anni e faccio le pulizie. Prendo l’autobus per andare al lavoro, vesto abiti sportivi. Canto Mia Martini a un cane e non mi chiamano per nome. Non c’è altro.

Ho deciso di lasciare biologia alla fine del primo anno. Entrare in aula la prima volta era stato un sollievo, eravamo centocinquanta e non facevano caso a me. Molti, in una situazione simile, sentono di dover familiarizzare, cercano di agganciarsi nel terreno comune di un aperitivo o di una pausa alle macchinette. Vogliono compensarsi attraverso l’altro. Che vocazione stupida. Hanno attaccato bottone anche con me, chiedendomi chi fossi, e ho ceduto le generalità per dovere di gentilezza tagliando corto, rifiutando i loro inviti a condividere cappuccini e brioches, aperitivi e patatine. Tornavo in stazione da sola. Mi piaceva quella strada: da un certo punto in poi potevo smettere di camminare e venivo trascinata ai binari. Attraversare l’incrocio davanti alla stazione mi fondeva con gli sconosciuti che mi calpestavano e conficcavano i gomiti tra le costole, ero un niente nella massa frenetica in corsa verso casa. Non eravamo individui, eravamo corpi reciprocamente estranei. Era quello che conoscevo da sempre, le botte per collisioni involontarie, le grida senza direzione. Mi piaceva perché non mi veniva chiesto niente. Avanzavo a testa bassa. Qualcuno mi spingeva o allungava una mano sotto. Non importava. Non è per questo che ho smesso di studiare. È stato per gli esami orali: aprivo bocca e dopo dieci parole mi pentivo di averle lasciate andare. Le preferivo quando mi appartenevano e mi restavano dentro. Se uscivano diventavano aria e perdevano peso, percepivo la distrazione dei miei colleghi e la noia dei docenti. La mia voce non spostava nulla e mi feriva. Uno di loro mi passò un opuscolo del servizio di assistenza psicologica universitaria, consigliandomi di risolvere la mia timidezza invalidante, data la mia intelligenza e la media negli scritti. Lo buttai via. Sedermi davanti a uno sconosciuto e balbettargli la mia storia perché ne facesse una cartellina era ridicolo. Infatti mi misi a ridere, ripensandoci mentre mi avviavo verso la stazione, e nessuno ci fece caso perché avevo riacquistato la qualità dell’invisibile e andava tutto bene. Prendere una laurea e ostentare che sapevo, che potevo riscattare una famiglia a reddito minimo, non avrebbe cambiato le cose.

Il senso del dovere e del sacrificio mi appartenevano, dovevo trovare un ambiente adatto a dimostrarlo. Ho escluso impieghi commerciali e in ufficio. Per un po’ ho lavorato in un magazzino. Quando i colleghi hanno cominciato a chiedermi perché fossi tanto diffidente, che era da un anno che ci conoscevamo e che problema c’era a fare due chiacchiere, ho cercato altro. È stata mia madre a trovarmi la prima casa, un appartamento in una palazzina non troppo lontana dalla mia vecchia facoltà. Sono rimasta sei mesi. Nessun compagno di corso mi ha riconosciuta. Mi passavano accanto e non mi vedevano, non avevo neanche bisogno di tirare su il cappuccio della felpa, di cercare a terra tra le gomme da masticare e mozziconi di sigaretta. Sfilavo dritta fino al portone, voltavo le chiavi e le stanze mi ingoiavano sotto il ronzio dell’aspirapolvere e il vortice delle lavatrici. Ero al sicuro.

La signora è arrivata un martedì mattina. Si dice che le cose che iniziano di martedì e di venerdì sono destinate a finire male e non ho potuto fare a meno di pensarci, guardando due infermiere sistemarla in poltrona. Forse non ci sarebbe neanche voluto chissà quanto tempo.
Doodle guaiva dal terrazzo, l’avevano rinchiusa perché non disturbasse le operazioni di installazione. La padrona di casa assisteva a braccia incrociate e assorbiva i sussurri delle due donne, fitti di raccomandazioni su come muoverla, accompagnarla ai servizi, vestirla, somministrarle le pillole. L’assistenza domiciliare aveva dei limiti, ci tennero a chiarire, era bene si organizzasse per una soluzione a lungo termine. Lei finse di non sentire.
Quando sono andate via, io sfregavo con la spugna i profili in alluminio della doccia. Il sapone marcisce. È la parte che preferisco, ostinarmi sullo sporco incancrenito, cancellarne l’esistenza sudando nella mia uniforme sportiva col viso incendiato dalla fatica, senza pensare.
«Ho un favore da chiederti.»
Alzo la testa. La padrona di casa, in beige e camicetta, è in piedi sulla porta. Scalza. La visione dei suoi piedi nudi mi disturba, la sua disinvoltura mi obbliga a connettere dettagli intimi della sua esistenza, le mutandine sporche scalciate in fondo al letto, la tazza macchiata di rossetto. Non voglio considerarla viva, è la donna che mi paga.
«Prego.»
«Mia madre starà qui per un po’. Ha avuto un problema di salute e dobbiamo capire se si rimetterà. Stiamo cercando una persona che si occupi di lei, ma per questi giorni vorrei chiederti se puoi darle un’occhiata.»
Usa un piede per grattarsi la caviglia. Distolgo lo sguardo.
«Al momento è in grado di andare in bagno da sola, ma le serve aiuto per camminare. Pranzerà sulla poltrona, per affaticarsi il meno possibile. Naturalmente, pagherò per il carico di lavoro in più. Te la senti?»
Il corridoio della zona notte è ricoperto dalle lenzuola che ho sfilato via. Tutte, tranne quelle del letto nella camera degli ospiti, che ho trovato pulite e non devo cambiare. Ha preparato il nido a sua madre. Se alzassi gli occhi, forse la vedrei affranta. Ma non voglio. Non voglio doverle chiedere cosa sia successo, indagare le cause e le conseguenze della malattia della vecchia. Le faccio cenno di sì. Noto i piedi disposti uno accanto all’altro. Tamburella con gli alluci. Ha messo lo smalto, è color vaniglia.
«Si chiama Antonia. Ricordaglielo, è possibile lo dimentichi.»
Le screpolature dei suoi talloni si allontanano e mi raddrizzo. Allo specchio mi vedo pallida e mi accanisco sui rubinetti. La porta d’ingresso si è richiusa da un pezzo quando mi accorgo di aver recuperato un po’ di colore in viso e di essere pronta a scendere. Slego i capelli, li impasto all’indietro con un po’ d’acqua e li riallaccio in una coda alta, provo un sorriso e mi schiaffeggio le guance. Non voglio sembrare più malata di Antonia.

«Quindi tu saresti la Ragazza che mi pulisce il culo.»
Non mi aspettavo che parlasse in quel modo. La mia titolare non avrebbe mai usato quei termini. Violano queste stanze, la pulizia e la cura con cui le disinfetto. Antonia mi sembra sbagliata, sebbene ben disposta nell’insieme dell’arredamento.
«Ti ha detto di controllarmi, eh? Se la fa sotto al pensiero che schiatti da sola.»
Dispongo fazzoletti e telecomando a portata delle sue mani rachitiche. Spolvero il tavolino che serviva a esporre i liquori, ora trascinato accanto alla sua poltrona. Porto un piatto, ci ho tagliato una mela. Fettine sbucciate e sottili: non ho informazioni sulla tenuta della sua dentiera né se mastichi con le gengive, come i neonati. La sua loquacità è intatta, la logica anche – sembra. Tenta di chiedermi come mi chiamo e torno in cucina. Ripete la domanda. Non rispondo. Seguono due chiamate per il bagno, la accompagno e lei mi chiude la porta in faccia, tenendo private le sue deiezioni. Il pranzo lo servo alle dodici e trenta, mi assicuro riesca a deglutire. Poi guarda un programma di attualità e io strofino la vetrata scorrevole, Doodle ci ha lasciato ricami di bava. Devo portarla fuori, dichiaro. Suono polemica. Antonia sente la mia voce e solleva sopracciglia che hanno smesso di esistere da qualche decennio. Non ha obiezioni, non tenta di dirmi qualcosa. Le sarà bastato accertarsi che il mio non sia un mutismo vero, che possa chiamare l’ambulanza o sua figlia quando verrà il suo momento. Quieta, torna a fissare lo schermo e io imbrago il cane. Ci prendiamo una mezz’ora tutta per noi. Non mi viene in mente niente da cantarle.
A metà pomeriggio dovrei andarmene, ma Antonia mi chiede un tè. Apparecchio un vassoio.
«Non serve che ti affanni tanto, bambina. Mai avuta la servitù, io.»
Stringe il cucchiaino con quattro dita. Le cade nella ceramica e un guizzo d’ambra si solleva fino alla sua fronte, attaccandosi alle lenti degli occhiali. Tenta di tamponare le gocce che le rigano la vista, ma non riesce a prendere la mira su sé stessa. Strofina il tovagliolo sulle guance, sul naso. Io e Doodle assistiamo. La cosa che le è accaduta nella testa è reale e non sappiamo come reagire. L’angolo del tovagliolo le finisce sotto una lente, sopra le ciglia. Antonia comincia a piangere. Io riconosco la vibrazione che mi teneva sveglia di notte e mi ha tolto la parola, mi precipito su di lei e ssh, le dico, ssh, come facevo con Alma e con Giovanni, sfilandole la montatura dal viso, asciugando le gocce di tè con la maglietta comprata alla bancarella. Quando le restituisco gli occhiali, si è calmata. Mi ringrazia, mi tasta il braccio con gli artigli macchiati dal tempo. Io le sottraggo il cucchiaino, le restituisco la tazza.

«Dove vai?»
Il giorno dopo si ripete simile, ma stavolta mi blocca davanti alla porta. Vedo che tenta di mettersi in piedi da sola, facendo forza sui fuscelli che ha come braccia. Potrebbe farsi male, cadere. Rompersi, e la sua è un’età in cui non ci si aggiusta. Mi precipito indietro, premendole sulle spalle per spingerla a riposo. Sento il suo sorriso all’altezza del petto. È ancora furba.
«Mia figlia torna tra poco. Un’ora, un’ora e mezza al massimo. Resta qui, tanto te li paga gli straordinari, ‘sta tranquilla. Siediti.»
Mi accuccio sulla poltrona accanto alla sua. In tv, una presentatrice introduce una tragedia, impersonata da una donna davanti a una baracca. Tempo trenta secondi e comincia a piangere: l’hanno deciso prima.
«Maddi ha detto che sei molto precisa. Non si sarebbe fidata a lasciarmi con te, altrimenti.»
Vivono in quelle catapecchie da quando sono nati. Poco per volta vengono trasferiti in case popolari, ma non sono sufficienti. La più grande baraccopoli d’Europa, dicono. Il disagio è autentico ma è diventato abitudine. Per questo devono sforzarsi di piangere.
«Vieni qua con l’autobus, vero?»
Mi interesso solo all’intervista. Antonia propone la sua.
«Si vede che ti piace proprio quello che fai, che ti c’impegni.»
Pulisco case: scrosto sangue mestruale e merda rappresa, stacco preservativi dal pavimento e sciacquo calici.
La donna della baracca indica alle telecamere un alone di umidità che grava sul soffitto della cucina.
«Non parli tanto, se non ne hai voglia non importa, era per farci un po’ compagnia. Non ti annoi in silenzio tutto il giorno?»
Scuoto la testa. Penso che il lampadario potrebbe cadere su quella donna e sui suoi figli. Nessuno li salverebbe, la loro miseria è il tempio in cui si riparano. Non ci sono soldi per andar via, dicono, non c’è scampo. Nessuno li sentirebbe urlare. Comincio a singhiozzare, non me ne accorgo. Neanche di Antonia che mi guarda e cerca di tendersi verso di me. Mi butto la borsa sulla schiena e me ne vado.

Penso dovrei licenziarmi e scrivo un messaggio di dodici righe. Lo cancello. Mia sorella mi russa accanto e puzza di pioggia. Ha la febbre, ha preso freddo. Devo occuparmi di lei. Digito un altro messaggio per la mia titolare, stavolta scrivo che non mi sento bene e non riesco ad andare al lavoro. Mi risponde con un pollice alzato. Vedo che ha altro da dirmi, in corsivo sotto al suo nome. Aspetto. Si decide con un secco “a domani”. Immagino la sua faccia beige farsi porpora.

«Prendimi le scarpe, voglio camminare.»
Le sfilo le ciabatte e le accosto un paio di mocassini. Non ha fatto menzione dell’episodio dell’altro giorno, non mi ha chiesto come stessi né il nome.
«Faccio da sola.»
Mi scaccia. Tenta di chinarsi, manca le scarpe, ne fa rotolare una sotto il divano. Doodle la recupera, la sbava, me la riporta quando la chiamo.
«Non le voglio più. Le ha sporcate il cane. Maddi si ostina a tenerlo in casa, lo coccola. Lei di bambini veri non ne vuole sapere e ha preso una bestia che sporca dappertutto.»
Vorrei tappare le orecchie a Doodle, ma per sua fortuna non è un grado di capire.
«Allora, usciamo in giardino?»
Incolpo il cattivo umore per il cambio di toni, il giorno trascorso con la figlia a scambiarsi rimostranze e premure, forse. Le offro il braccio perché si regga, lo rifiuta. Me la accosto al fianco, fino al terrazzo. Non le dico che la casa è al terzo piano e non c’è nessun giardino, ma lei non si sorprende di trovare solo qualche pianta e poltroncine di vimini. Me ne indica una. La dirigo e si siede. Il sole deve infastidirla, perché lacrima e chiude gli occhi. Non mi parla. Le chiedo se vuole un po’ d’acqua.
«Pensi che per me sia facile, bambina?»
Ansima. Comincio a temere muoia sul terrazzo e ripercorro la sequenza di numeri da chiamare.
«Mi sono arrangiata tutta la vita. Ho lavorato, tirato su mia figlia, dato le medicine a mio marito e l’ho fatto seppellire sperando che la Madonna se lo tenesse buono, ‘ché quello era un diavolo. Adesso mi ha preso la malattia e sto qui, ospite di mia figlia, con una ragazzina muta che mi fa da serva e mi guarda solo quando le faccio pena.»
Scopro che a più di ottant’anni si può ancora sorridere ed essere cattive.
«Se potessi, mi spolvereresti come un soprammobile. Per te non fa differenza.»
Sento il corpo freddo: mani, braccia, gambe. Come se mi avesse sfilato uno strato di pelle e rivelato l’egoista che sono.
«Mi scusi, signora Antonia.»
Le offro un bicchiere d’acqua e limone in segno di pace. Sdegnosa, lo respinge. Annaspo.
«Non è lei. Non so come dire. La gente non mi piace.»
Fisso lo spazio tra le sue ciabatte. Lei finge di pensare.
«Si era capito.»
«Ho un blocco. L’hanno chiamata timidezza patologica.»
«Suvvia, bambina, ti aspetti che ti compatisca? Ti hanno picchiata, violentata? Costretta a spacciare?  Perché tra un mese potrei non riuscire più ad alzarmi dal letto, sai.»
Non ha voglia di elargire pietà che deve riservare per sé, immagino. Le faccio segno di no, e dico:
«Ho una sorella e un fratello più piccoli. Mi sono sempre occupata di loro. Adesso lo faccio con gli altri, tenendo le case in ordine. Ma sto meglio se non parlo. Se neanche le vedo, le persone. Non ci so fare.»
«Mi pare che tu stia parlando con me senza problemi. Non è il saperci fare il problema. Penso tu non voglia e basta. Se preferisci, non lo faremo.»
«Grazie.»
«Aspetta, ancora una cosa.»
Riesce ad arrivarmi al gomito con una bracciata e mi lascia quasi subito, neanche collegasse il rifiuto all’interazione verbale con quella fisica.
«Potrebbe rompersi qualcos’altro nella mia testa e niente di quello che dirò avrà senso. A quel punto vorrei poter scegliere il silenzio, come fai tu. Come fai a sopportarlo?»
Me lo dice arresa, ingurgitando l’aria di mezzogiorno e il cinguettio di uno sciame di passeri, incapace di aggiustarsi gli occhiali sul naso. Mi chino per raddrizzarli. Sento l’odore della crema da viso tra le rughe.
«Non lo so, signora Antonia.»

Trovare una persona che si occupi di Antonia è difficile. La titolare mi manda messaggi ansiosi, non si fida degli sconosciuti e sua madre, dice, è capricciosa. Io ribatto che non c’è problema. La busta sul tavolo è più gonfia. Mi compro una maglietta e una gonna. Lascio la mia quota per le spese di casa e pago ai miei fratelli un biglietto per il cinema, andiamo tutti insieme e scelgo un film dai toni semibui che non ci diverte, ma mio fratello sostiene che è un capolavoro. Alma ha dormito, ma è convinta che dovremmo farlo più spesso.
Trascorro ogni giorno lavorativo con Antonia. Continuiamo a non parlare e le sta bene. Tiene il televisore muto, forse per abituarsi al silenzio che vorrà imporsi più avanti, e ha smesso di mangiare da sola. Le cadono le posate, si sporca e sa che non mi piace. Adesso entro nel bagno con lei, le abbasso i pantaloni o i collant, le mutandine. La pulisco tra le gambe, davanti e dietro. Non ha dato voce all’imbarazzo e mi ha risparmiato dallo spiegarle che è la natura, che può stare tranquilla, ho fatto lo stesso con i miei fratelli per dovere al sistema familiare. Che differenza fa, volevo dirle: sciacquo defecazioni dalla ceramica, gli odori non mi sono nuovi, cambiano le pareti a cui si attaccano. Ora sono vive, carne organica. Ma sempre superfici da pulire.
Un pomeriggio mi dimentico di lei e asciugando i piatti comincio a cantare Minuetto. È la mia preferita perché la donna che canta è regale e triste. Un po’ come le stanze delle case che abito qualche ora al giorno. Doodle alza le orecchie e scodinzola. All’attacco del ritornello alzo la voce per farla contenta. Non sento il tentativo di Antonia di ciabattare fino alla cucina, che poi neanche riesce ad alzarsi, fa cadere tutto, fa rumore e quello sì lo sento – il bicchiere che cade, il telecomando che sbatte, una banana a rondelle che si spiaccica sul tappeto. Corro da lei, le mani umide di schiuma. La trovo in poltrona, al sicuro ma bianca, col fiato corto e gli occhi chiusi. Si è spaventata.
«Ho sentito che cantavi.»
Infrange la nostra regola. Anche io.
«Ogni tanto lo faccio. Piace al cane.»
«Piace anche a te.»
«Sì.»
«Ti andrebbe di farlo per me?»
«Non credo, signora Antonia.»
«Come mi hai chiamato?»
«È il suo nome.»
«Ah.»
Le esce di gola un suono che non le apre neanche le labbra e non traspira stupore. Non deve essere la prima volta che lo dimentica, non me ne sono accorta prima perché noi non parliamo. La titolare mi aveva avvisato che poteva succedere. Mi prometto di lasciarle un appunto: sua madre ha dimenticato come si chiama, ore 15.08.
«E il tuo?»
«Non importa.»
Le concedo un dato in meno da dimenticare. Lei sembra d’accordo, anche se non ha più voglia di rimanere in silenzio.
«Senti, bambina, perché hai pianto guardando la televisione?»
«Quando?»
«La trasmissione con la D’Urso.»
«È complicato.»
«Approfittane, ci sto ancora con la testa.»
Osservo la vecchia accartocciata sulle spalle e che si nutre di poltiglie, non così diversa da Doodle che lecca dal tappeto le fettine di banana. Non andrà da nessuna parte, non verrà mai creduta. Potrei raccontarle di un omicidio o di un trauma infantile inconfessabile, di una brutta malattia o di un ricovero psichiatrico. La verità per me è sempre stata banale, troppo semplice e dunque vergognosa. Non ho viaggi dell’eroe da ostentare. So togliere chiazze d’olio dalla seta.
«È stata una cosa di un momento, ho pensato cose brutte.»
Il tappeto non è rovinato, basterà spazzolarlo con lo smacchiatore. Mando giù la saliva e mi sforzo di pensare alla nota da lasciare alla mia cliente, ma Antonia non è ancora tutta scema, non se la beve la mia sensibilità.
«Mi sembrava di essere quella donna, che vive con la paura di rimanere schiacciata. Io penso che se mi succede qualcosa e urlo nessuno mi sente.»
«Che vuol dire?»
Mi chino a terra. Gratto via la polpa di banana con le unghie.
«Che nessuno mi sente. Ma i miei problemi non sono veri. Ho ventisei anni, sono in salute, mangio e vado al cinema, anche. Ho avuto un pensiero brutto e non mi sono controllata, tutto qua.»
Le rughe sopra alla sua bocca ricalcano il segno sottostante che scandisce i denti, il suo volto mi ricorda il futuro teschio che sarà e mi spaventa, perché ha gli occhi su di me e sono ancora vivi e pensano, non dicono – non subito, si prendono del tempo, forse è colpa delle connessioni neuronali guaste. Non ha niente da dirmi.

Da allora ripristiniamo il patto del silenzio. Antonia dimentica il suo nome più volte al giorno e lo riporto sui foglietti indicando l’ora. A un certo punto diventano troppi e smetto. Li butto via.
Ho cominciato a raccontarle qualcosa da quando ho incontrato la titolare sulle scale e mi ha detto che nella notte sua madre aveva delirato chiamando a sé parenti morti. Di non aspettarmi lucidità, di avere pazienza. Io l’ho rassicurata e lei è corsa via, per non arrivare tardi in ufficio. Ho aperto la porta e vedere Antonia sulla poltrona, muta e indifferente al cane che sbavava su una delle ciabatte, mi ha fatto capire che mi ero affezionata. Così le ho detto della mia vicina che ci sbriciola sul balcone, di mio fratello che fa la pizza la domenica e guarda i film la notte, di mia sorella con i brillantini tra i capelli e delle soap preferite di mamma. Ho passato lo straccio cantando Piccolo uomo e mi sentivo felice, sapevo che le piaceva il suono della mia voce e non mi fermava, non mi chiedeva di abbassare il volume. Ce la spassavamo, io e Antonia. Quando mi balbettava qualcosa, erano nomi non noti, che ignoravo. Talvolta evoca la figlia e le accarezzo i capelli. Il suo corpo si scioglie nelle trame dei maglioni. Per sorreggerla devo aggrapparmi a ciò che resta.

Siamo sul terrazzo. Ho lasciato un appunto: ha ricordato il proprio nome, ore 14.42. Per gli spostamenti adesso abbiamo una sedia, ma ho l’ordine di preservarle un minimo di mobilità articolare, così la tiro in piedi. C’è un’ape che punta al suo naso e sa che è inutile smuovere l’istinto per scacciarla. La seguo io, immobile nell’aria. Veglio su Antonia, le stringo forte il braccio, la tengo vicina.
«Quando ero piccola e andavamo al parco, mamma si buttava su una panchina e noi litigavamo per l’altalena. Vinceva mio fratello Giovanni, perché era il più piccolo. Poi Alma, perché è nata prematura e camminava strano. Io li spingevo. Aspettavo il mio turno, mamma era democratica, avrebbe lasciato un po’ di tempo anche a me. E lo faceva, era lei a spingermi, gli altri erano troppo piccoli, si facevano male. Dopo un po’ si stancava e io piangevo perché volevo toccare il cielo coi piedi e non ci arrivavo mai. Le abbracciavo una gamba e stavamo per un po’ così, poi si divincolava e mi gridava che ero grande, che non dovevo fare quei versi, dovevo dare il buon esempio. Capisci, Antonia, io devo dare il buon esempio. Devono imparare da me, quei due. O camperanno scroccando i miei soldi, il mio tempo, il mio biglietto del cinema. Ho uno scopo. Adesso sai cosa si prova, a non poter parlare. Sei come me. Si aspettano che tu funzioni, per quanto poco. Quando crollerai non ti sentirà nessuno. Ma se sarai fortunata ci sarò io. Ti invidio.»
Voleva che parlassi, che le tenessi compagnia. Lo sto facendo, so che mi è grata. Quando le avrò chiuso gli occhi e aperto le finestre, avrò concluso il mio dovere. È questo il mio lavoro, adesso.

L’ape si è spostata, fluttua all’altezza del suo inguine. Nei frammenti dei suoi occhi la carne flaccida insaccata nella plastica dei collant, nel vortice dei suoi sensi l’odore bagnaticcio e aspro del piscio umano, ambrosia per insetti. È colato fino alla caviglia sinistra, le riempie una scarpa. Gocciola in un’impronta che la riporta seduta, in attesa della fine.


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Autrici La ragazza lavoro di cura letteratura Nicole Trevisan Racconti vecchiaia


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  1. È un racconto raro, e giustamente doloroso, che trapassa barriere di temi usuali. Mi è piaciuto moltissimo e dirlo mi fa persino star male, perché coniugare il verbo “piacere” con male trafigge.

  2. Colpisce questo racconto austero che si tiene in bilico sulla descrizione di malessere e malattia che si incontrano nello spazio della solitudine.

  3. E così, questo racconto ha vinto il premio Zeno 2023.
    Finalmente ho potuto leggerlo, e conoscere un’artista di cui scoprire tutte le gemme. I miei complimenti.

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