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Caffè lungo in vetro
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 25/07/2023 One Comment 13 min read
Giordania delle sabbie. Della pietra. Degli uomini Previous Mezzo Tonio Kröger Next

di Gabriele Palumbo
Copertina di Cristiano Baricelli

L’ultima volta ti ho visto tremare perché lei non ti stringeva più la mano.

Adulti si diventa non quando lavi i tuoi piatti, ma quando lavi anche i piatti degli altri, questo è il pensiero più interessante a cui sei giunto e un po’ ti fai pena. Che ti viene voglia di tornare in un posto solo per sentire di nuovo il bisogno di lasciarlo.

L’altra sera hai pensato a una cosa da scrivere, ma non ti andava di appuntarla, tanto te la saresti ricordata. E invece no. Non la ricordi mai. Hai pensato anche di scrivere di questo, del fatto che ti dimentichi le cose da scrivere perché credi troppo in te stesso, o forse perché non ci credi abbastanza. Avevi pensato anche a un dialogo fittizio tra te e il tuo pene, a un certo punto succedeva una cosa tipo Fight Club, ma poi hai detto no dai.

Dimentichi tante cose negli ultimi tempi, forse perché non le vivi abbastanza, tratti ogni momento con una distanza tale da attenuare il presente. Hai dei vuoti anche sui nomi di persone che conosci da anni, ma i nomi dei concorrenti di Sarabanda li ricordi ancora tutti.

A volte pensi a tutte quelle persone incontrate per pochi rilevanti attimi e poi sparite come qualsiasi tipo di prodotto monouso. Il vicino di casa anziano che ti ha aggiustato la caldaia, sua moglie che ti faceva il caffè con quintali di zucchero, il ragazzo che ti ha accompagnato in stazione e quello che ti ha comprato il libro per far colpo su una ragazza, la ragazza incontrata sul bus di ritorno da un concerto alle quattro del mattino e quella a cui hai dato il primo bacio, l’infermiera che ti ha tenuto la mano e il dottore che sta più male di te, l’istruttore della palestra, la parrucchiera, la sorella della tua collega, gli amici del collega che sei andato a trovare, il ragazzo che ti ha fatto vedere la stanza, i ragazzi della lezione di primo soccorso, il proprietario del cinema e quello della libreria, la tipa della mensa, le ex degli altri e gli ex delle ragazze che ti hanno bidonato, le persone abbracciate da ubriaco e quelle odiate da sobrio.

Ti manca sollevarti su un braccio solo, correre senza respirare, saltare col corpo e non farti prendere mai. Ti manca l’espresso al cioccolato che rendeva sopportabile ogni lezione, la maratona di Ritorno al Futuro, il costume di Halloween fatto in casa, il vino nelle taverne e il calcetto nella nebbia, le droghe al parco e le passeggiate al mare.

Da piccolo credevi che tutti i maschi avessero il cognome di tuo padre e tutte le femmine quello di tua madre. Ti sembrava logico, a cosa potevano servire i cognomi?

Ricordi la disposizione delle stanze di ogni casa in cui hai vissuto e gli incubi che facevi al loro interno, la scuola che, in un modo affettuoso quanto impotente, osservava ogni giorno il modo in cui eri fatto, il parco che sviluppava ogni storia così da renderla indimenticabile e le strade piene di ciottoli e di terrazzi percorse centinaia di volte, di province padane o di mari che si incontrano lì dove il ponte gira per vedere meglio il fumo uscire da gigantesche sigarette MS.

Guardavi lucertole correre senza coda per sfuggire a future entomologhe di cui eri innamorato, ma volate oltre oceano e ricomparse anni dopo nei tag di una vecchia foto.

Hai sempre fatto decine di gol, ma solo in amichevole e sei sempre rimasto in panchina in attesa che il pallone uscisse così da chiedere di poter giocare senza dover alzare la voce. La voce è diventata sempre più bassa nonostante giocassi sempre di più, aumentava la paura di non piacere, la paura di essere sbagliato per dei respiri troppo diversi rispetto a ciò a cui si era abituati. Così hai iniziato a respirare il meno possibile.

Una paura più stronza di quella del non piacere è quella del piacere e non sapere che fare. Non sei abituato, non sai come comportarti e temi le conseguenze. Così hai iniziato a piacere il meno possibile.

Pensi a quel primo addio ancora senza spiegazione, impresso nella tua mente come l’ultima scena di un film neorealista, con tre bambini, seduti su una panchina di pietra, che si regalano dei giocattoli per non doversi abbracciare un’ultima volta.

Una continua infelicità permeava l’aria inodore e incolore, come gas che ti uccide nel sonno senza accorgertene. Il gas del voler cambiare casa, lavoro, vita, fino a quando non hai più le forze per provare a cambiare e ti rendi conto che ogni tentativo ha solo peggiorato le cose. Ma hai ormai passato il testimone dell’instabilità e il ciclo continua.

Ottenere gli attesi cambiamenti e non cambiare affatto. Dire sempre più spesso addio per evitare il momento in cui non ci sarebbe bisogno di pensare a come salutarsi. Tornare indietro, ripercorrere quei luoghi come fantasmi del Natale passato. Dire «io ce l’ho messa tutta, non potevo fare altro» e iniziare l’ennesimo libro di cui salterai intere pagine così da finirlo prima.

Ti ha baciato ma poi ha detto no perché stava vivendo un periodo incerto e non sapeva che fare, e tu anche e ci stavi male, ma hai dormito abbracciato a un’altra.

La prima volta eravate ubriachi e non vi piacevate davvero ed è durata una notte, la seconda vi piacevate davvero ma hai chiuso perché stava durando più di una notte. Nel mezzo c’è stato il primo grande arrendersi. A vent’anni non eri uno stronzo, ma avevi molto sonno. Anche ora.

Tra Napoli e Milano hai dato il meglio e ora sembra essere finito tutto come un 3, 2, 1 che esplode e ti fa tornare a un silenzio peggiore di quello che c’era prima di iniziare a contare. Non le hai mai riscritto e ti chiedi se davvero non abbia paura di essere felice, Charlie Brown.

Tutte queste cose superate e ora non ce la fai più dopo ogni passo. È vero, lo dicevi anche prima, ma ora hai il fiatone e senti che il cuore va veloce anche quando non ha niente da fare.

Domani scade il mese gratuito di Amazon Prime, non è vero che puoi tenere il riscaldamento a palla che tanto paghi uguale, le mozzarelle sono ancora buone.

Ci sarà ancora un’altra volta per ripartire da zero.

E cosa succede se la scelta più importante diventa quella di decidere di tornare a casa a piedi, di lavare anche i piatti non tuoi, di chiamare la gente anche se sai che non ti risponde più e non sai perché. Che poi ti viene voglia di tornare in un posto solo per sentire di nuovo il desiderio di lasciarlo, che non senti più la mancanza delle cose, che non parti più per posti nuovi perché l’acqua nelle scarpe ti ha tolto la memoria e quindi non riesci neanche più a crearne di nuova.

L’ultima volta ti ho visto tremare perché lei non ti stringeva più la mano. E tremi sempre di più, come quando sei troppo coperto, e parti di te se ne vanno con uno schiocco di dita che non fa più rumore e rende tutti più soli e comodi e tristi. Ed esserci sempre stati smette di essere una qualità.

Ora non c’è nessuno. Metti su il Release Radar di Spotify per restare aggiornato sulle nuove uscite, il dovere te lo impone. Pulisci la casa e ti fai la doccia. Quant’è bello il rumore dell’acqua che scende nello scarico dopo settimane in cui ci potevi far galleggiare il modellino del Titanic. Esci per buttare la spazzatura, tutta la spazzatura di tutta la casa in una volta sola perché non ti va di lasciare le cose incomplete. Rabbia e tristezza fanno a braccio di ferro in continuazione e si annullano impedendoti di reagire. Sbagli e butti la plastica nella carta, chiedi perdono, i colori ti hanno ingannato. Il cristo di coso per l’organico ha smesso di aprirsi da settimane così devi andare in fondo alla strada. Ti senti sporco. Ti sei portato dietro “L’Espresso”, per avere una scusa per fare qualche passo in più in cerca di un posto dove leggerlo. È il numero della settimana prima, riesci a leggere “L’Espresso” sempre e solo il weekend successivo a quello in cui l’hai comprato. Non hai tempo, vorresti leggere, vorresti scrivere, ma non riesci. Quando hai tempo vuoi solo dormire, e se non vuoi dormire ti addormenti comunque. Così provi a fare tutto nel weekend, pieno di polvere accumulata tra le fessure della porta e del viso, o raramente di notte se ti parte il flusso creativo, la scadenza imminente, o se il volo di una cimice interrompe i sogni in cui abbracci persone con cui riesci a malapena a parlare. Decidi di andare in un bar che vedi sempre quando passi dalla stazione ma in cui non eri ancora mai entrato. Da fuori sembrava carino.

Lo è. Carino, spazioso, tranquillo, hanno i biscotti, forse hai trovato quel posto vicino casa dove andare a scrivere col tuo Mac come fanno quelli lì. Non hai un Mac, ma puoi far finta.
Vai a lavarti le mani, ordini un caffè lungo e un biscotto. Di solito chiedi un caffè lungo in vetro ma non ti senti né in vena di troppe pretese né in vena di fare quello che sa cosa vuole. Perché non sai un cazzo. Più sei sicuro e preciso in ciò che chiedi e meno sai davvero cosa vuoi. Lo fai solo per mascherare le tue continue esitazioni su tutto. Manco lo volevi il caffè.

Renzi ha lasciato il PD e chiama tua madre. Ti chiama sempre meno ormai, anni fa siete partiti che ti chiamava due volte al giorno, poi una, poi un giorno sì e uno no. Ora lo fa una volta a settimana. Vi dite le stesse cose che vi dicevate anni fa quando ti chiamava due volte al giorno. Cioè niente. Come quando, tornato da scuola, ti chiedeva che hai fatto oggi.

«Va come al solito». «Hai ancora copie del tuo primo libro? Tuo padre vuole regalarne una a un amico». «No».

I clan mafiosi di Roma e chiama tuo padre. Non ti chiama mai, non l’ha mai fatto, né quando avevi vent’anni e non sapevi che fare della tua vita né ora che ne hai trenta e non sai che fare della tua vita ma pulisci la casa, butti la spazzatura e leggi “L’Espresso”. In compenso qualche giorno fa ti ha mandato un’email, è un fan di Kafka. La morale era che non voleva che lasciassi sfuggire la tua vita come stava facendo con la sua. Giusto, dopotutto la vita non è lunga, soprattutto non è in vetro. Ma è tutto molto più complicato, diverso e profondo di ciò che è possibile scrivere via email. Non hai risposto.

«Va come al solito». «Forse tua madre te l’ha detto, hai ancore copie del tuo primo libro? Devo regalarne una a un amico». «No».

Esci dal bar che c’è il tramonto, o il crepuscolo se vogliamo, è una parola che non usi mai ma che ti piace un sacco. C’è un crepuscolo molto figo e c’è la nuova monorotaia già pronta da tempo ma ancora mai inaugurata che si impone sullo scenario e si va a perdere in questo violaceo nulla e ci fai una foto. Intanto pensi al modo in cui scrivere tutto questo, come la voce interiore del protagonista di un film che racconta tutto ciò che non si vede in scena. Pensi a come scriverlo e pensi allo schermo del tuo cellulare, rotto dopo esserti caduto mentre facevi un meme con Paperino. Vai a prelevare ché devi comprare il CityPass per la settimana entrante. Ogni mattina prendi il 21 e siete così tanti in così poco spazio che riesci a percepire i pensieri degli altri: nessuno vuole andare nel posto in cui sta andando.

Ti viene la malsana idea di farti l’intera corsa del bus e ritorno. Eri curioso di sapere che strada avrebbe fatto, il punto in cui avrebbe fatto inversione e cose così. Ti aspettavi potesse accadere qualcosa di più interessante, qualche personaggio memorabile, ma nulla. Molto brusio in fondo al bus, molta gente che fa domande all’autista, gruppi di ragazzi, giovani donne, coppie di anziani, madri con figlia, dipendenti TPER. Forse non hai osservato niente di rilevante perché la maggior parte dei momenti sono routine per tutti e la gente se ne vuole solo stare tranquilla e il pazzo in quel caso eri tu, o forse perché stando avanti non puoi avere la giusta visione sulle cose. Solo stando dietro, o al massimo in mezzo, hai davvero la capacità e la possibilità di vedere gli aspetti e le sfaccettature di tutte le differenti routine, e magari cogliere l’evento memorabile che ti stimola la giornata e almeno un paio di bevute con gli amici. Perché alla fine i ricordi e i racconti sono sempre gli stessi e per quanto siano assurdi o belli ti chiederai: ma da quant’è che per star bene ci raccontiamo le stesse cose? Davvero è così difficile vivere altre cose che diventeranno racconto da bevuta? Davvero è così importante rincorrere il momento memorabile e ritenere inutili tutti gli altri?

Tieni la testa sopra i capelli che ti vanno sulla faccia per rubare un poco d’aria rimasta, come i delfini che escono dalla superficie del mare per fare il pieno d’aria e dirci che moriremo tutti. Esci che si è fatto tutto più buio nonostante siano passati pochi minuti, domani forse ci torni in quel bar, finisci di leggere “L’Espresso” e ordini un caffè lungo. In vetro.


Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?

autori caffè Gabriele Palumbo letteratura nostalgia Racconti


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  1. Per me è un racconto bellissimo. Sarebbe stato bellissimo anche senza la Pimpa, ma con la Pimpa è ancora più bello. E quella monorotaia che forse è il people mover, non lo so.
    Mi sarebbe piaciuto anche un titolo come “respirare meno, respirare tutti”.
    L’ho già scritto che è bellissimo?

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