di Nicola De Zorzi
Copertina di Le Corbusier – Unité d’habitation, type Berlin (“Corbusierhaus”)
Il mal di testa gli prende sempre la tempia sinistra. Lui la sente pulsare, questa tempia che lo sveglia troppo presto al mattino e gli darà il tormento fino all’ora di coricarsi nuovamente, la sente arroventarsi e poi gonfiarsi, come se volesse sfiatare, e più di una volta ha pensato a quanto sarebbe bello avere un bisturi e praticare un’incisione lì dove la vena pulsa, e lasciare che sfiati; rilasciando la tensione, calando la pressione: semplicemente. Ha sognato spesso – e in qualche caso l’ha più che sognato, se n’è saputo totalmente tentato – di fare così, non alla buona o alla macellaia, ma recandosi in bagno, dopo aver detto a Rebecca ancora mezzo addormentata accanto a lui, Vado a sfiatare, e a sfiatare sarebbe andato, al lavandino. Avrebbe inserito la testa nella conca del lavandino, il cui bordo avrebbe coperto di salviette, e via: un taglio appena doloroso – non più del pulsare arroventato della tempia, comunque, questa tempia che ribolle come una pentola a pressione sigillata – e poi un getto d’acqua e aria e sangue. Come un termosifone bloccato che riprende a funzionare dopo questa semplice operazione, anche lui si sarebbe saputo vuoto e funzionante, e la giornata sarebbe filata liscia.
La parte su cui Flavio fantastica con maggiore frequenza e soddisfazione è la pulizia del lavandino. Quieto e pieno di sollievo, avrebbe aperto l’acqua, che avrebbe condotto con le mani a coppa a sciacquare gli schizzi rossi e rosa sulla ceramica bianca.
Flavio fantastica proprio in questo momento, poiché proprio in questo momento si trova davanti al lavandino. Ma non c’è nessun bisturi e non ci sarà nessuno sfiato e nessun sollievo. Tutto ciò che può fare adesso, per concedersi almeno un’idea di sollievo, è cospargersi la testa di una corona d’acqua fresca, che presto si intiepidirà e perderà perfino l’illusione del beneficio. La sua famiglia lo vedrà arrivare a tavola, dove già è atteso, con un’espressione sofferente e il viso imperlato, e penseranno tutti – lui vedrà il pensiero riflesso nei loro occhi e nel loro silenzio – che le perle sono il sudore della sua sofferenza. Taceranno le parole che si stavano scambiando prima che lui arrivasse, come d’improvviso tace chi stava sparlando di qualcuno che è appena arrivato. Lui si siederà e loro, nel rispetto per il suo stoico dolore di capofamiglia, mangeranno in un silenzio che lui odierà al di sopra della gratitudine che saprà provare per questo sforzo fatto a suo beneficio, perché si sentirà in debito e colpevole.
Flavio si stacca a fatica dal lavandino e si dirige in salotto, dove le sue previsioni si avverano. Quando si siede, Rebecca gli accarezza un ginocchio. Sandra, la madre di Rebecca, chiede:
«Tutto bene, tesoro?»
Flavio sorride sentendo ogni centimetro di pelle, dalle labbra alle tempie, tirare come pergamena.
La suocera siede al capotavola opposto a quello di Flavio, che vorrebbe essere dove siede lei e dare così le spalle alla grande porta vetrata che dà sul balcone, dove soffia il vento serale che dà sollievo, e lui non vuole vedere quel vento e aver voglia di essere lì fuori con lui.
Iniziano a mangiare. Flavio tiene la testa china sul piatto, la sua fronte è un secondo piatto sospeso sopra il piatto vero e proprio. Il mal di testa può anche togliere l’appetito, scombussolare lo stomaco, chiudere lo stomaco con una valvola simile a quella che sente sigillata fra le tempie. Flavio si sforza, però, si sforza di mangiare come si sforza di non fare smorfie al suono echeggiante delle posate che raschiano i piatti, di denti e lingue che ciancicano bocconi dalla consistenza di lumache, o di quel che rimane nel lavandino alla sciacquatura dei piatti. Quest’ultimo pensiero gli risveglia nello stomaco un’onda di trenta metri pronta ad abbattersi sul tavolo, e lui si sforza di respirare e di non alzarsi e uscire a far compagnia al vento serale che gioca sulla terrazza.
Sa su di sé gli occhi dei ragazzi. Alessio e Beatrice mangiano in silenzio e lo giudicano, perché sentono giudicato insufficiente il silenzio che si sforzano di conservare a beneficio del padre, il quale sa, adesso come tante altre volte, che il silenzio non durerà.
Ed eccoli infatti che già iniziano a stuzzicarsi. Flavio, cieco su tutto tranne che sul proprio piatto, non può vedere cosa stiano facendo i suoi figli, e del resto non ha importanza. Conta l’interruzione del silenzio, contano gli sbuffi e i sussulti, i piccoli tonfi di pedate sottotavola e gli strilli repressi di pizzicotti occulti. A un certo punto Alessio strilla e Beatrice gli fa:
«Zitto», con un sussurro tradito.
«Zitto io?» sussurra Alessio. «Smettila tu, invece».
Capita che i sussurri rimbombino più forti delle urla; forse perché un sussurro è silenzio in potenza, ma la potenza è tradita e disattesa, e questo tradimento risulta fragoroso. La tempia sinistra di Flavio, quantomeno, deve pensarla così, perché ogni sussurro va a strofinarglisi contro questa vena pulsante e dolente, comprimendola contro i nervi con l’insistenza di un dito premuto. Le cose non possono andare peggio di così, giusto?, salvo che Guido, il padre di Flavio, ha l’idea di esplodere in un sonoro
«Basta, eh».
che zittisce Alessio e Beatrice, ma scatena una nuova pulsazione nella tempia sinistra di Flavio, con quella vena che strizza e morde come un dente marcio, strappandogli una smorfia che non sfugge a nessuno a tavola, tanto che Rebecca gli strofina più forte la mano sul ginocchio, Sandra mormora un altro Tesoro – ma non c’è qualcosa di beffardo in questo? – i ragazzi si zittiscono ancora più forte, pare che assorbano ogni respiro prima che questo possa allontanarsi troppo dalle loro bocche, e il loro nonno nonché padre di Flavio si gira verso quest’ultimo con uno sguardo che dice Guarda tu se devo zittire i tuoi figli al posto tuo.
Guido è un po’ duro d’orecchi, il che è un eufemismo per dire che è sordo. Flavio non manca di invidiarlo per questo handicap, ché anche se, a saper suo, non c’è una relazione fra sordità e mal di testa, suo padre di mal di testa non ha mai sofferto, e questo qualcosa vorrà pur dire.
Flavio si sforza di respirare e al contempo mangiare e al contempo controllare quei muscoli della sua faccia che vorrebbero contrarsi in un’espressione caricaturale e universale del dolore. Arriva a credere che arriverà in qualche modo sano e salvo alla fine della cena; alla cui fine manca poco, e il rinnovato silenzio lo aiuta a resistere. Poi, sua suocera starnutisce.
È lancinante, come tendono a esserlo gli starnuti dei vecchi; è un grido da amazzone, uno strillo di scrofa, e pare un miracolo che tanto la gola della donna, quanto la vena dolente di Flavio, non si lacerino esplodendo.
C’è stato un periodo in cui Flavio si è sinceramente preoccupato per quegli starnuti così distruttivi, deleteria valvola di sfogo per i polmoni di Sandra, perennemente ostruiti dall’asma. Ma questo non è uno di quei momenti. Ora è preoccupato di non alzare lo sguardo, di non interrompere il pasto, di non smettere di respirare.
Dopo il primo starnuto c’è una breve pausa, quindi arriva il secondo. Tra il secondo e il terzo la pausa è più breve; più lunga è quella fra il terzo e il quarto, mente tra il quanto il quinto e il sesto la successione è rapida e precisa, da pistola automatica. E ben assomigliano a proiettili, le fitte che Flavio sente nella tempia, ben potrebbero essere proiettili che lo trapassano, entrando nella vena, dritti al cervello, che però non sembrano raggiungere, visto che il dolore non cessa.
A un certo punto qualcuno – la voce dev’essere quella di Beatrice – dice:
«Salute!»
e Sandra ringrazia mentre tenta di riprendere fiato, tutta lacrime e affanno, e poi sorride, e tutti sorridono, e c’è una risatina timida che pare aspetti l’approvazione o il veto di Flavio, che sorride, e tutti ridono, e lui cerca di non urlare.
I mal di testa di Flavio e il suo relativo comportamento sono accolti con opinioni diverse e a volte contrastanti dai vari membri della famiglia.
Rebecca nutre una preoccupazione non priva di una certa dose di frustrazione.
Sandra pensa sotto-sotto che il genero faccia un po’ le commedie e che sia, come si usa dire in certi luoghi, una pittima.
Beatrice e Alessio sono insofferenti nei confronti dei silenzi a cui il problema paterno costringe i pasti. Quando la loro insofferenza li porta a considerare il problema del padre in relazione all’uomo in sé e non ai disagi che tale problema causa loro, si trovano a pensare che Flavio, sotto sotto, se la goda abbastanza, questa sua condizione di eterno malato.
Guido, che in gioventù ha lavorato in una fabbrica di minuterie per occhiali e sa cosa significhi soffrire di capo e orecchie a causa di rumori assordanti, prova da un lato una certa empatia per il dolore del figlio, sebbene non possa, dall’altro, nascondere a sé stesso un lieve disprezzo verso quelle – se sapesse come la pensa Sandra, si troverebbe d’accordo con lei nell’uso del termine – commedie, ché i rumori che davvero spaccano testa e orecchie sono ben altri, e se Flavio avesse passato quel che ha passato lui, forse ci penserebbe due volte prima di fare tanto il martire.
La tavola è sparecchiata col lavoro collettivo dei vari membri della famiglia; con l’eccezione di Flavio che, terminato il rimestio di denti e posate, si è precipitato sulla terrazza, dove intanto il vento si è però placato, limitando grandemente il sollievo che lui si aspettava.
La quiete è comunque una decente panacea, e l’aria è molto fresca e molto libera, se paragonata all’interno della casa, del cui odore di cibo basta il ricordo per annodare lo stomaco di Flavio, dandogli l’impressione che quel nodo blocchi qualcosa di fondamentale al corretto e indolore funzionamento della sua testa.
«Vai a sederti un po’» dice la testa di Rebecca attraverso la porta vetrata socchiusa «e fai quella cosa».
«Quella cosa non funziona» dice Flavio.
«È perché non la fai bene».
«Ci sono tante cose che non so fare bene, ma ti assicuro che tapparmi una narice e respirare con l’altra per dieci minuti, lo so fare».
Flavio lo dice sorridendo, ma la verità è che la sua sopportazione è al limite.
«E la narice che ti tappi è quella»
«Sinistra, perdio. La sinistra, come mi hai insegnato tu».
Rebecca pratica una cosa che si chiama Reiki, che Flavio non ha mai capito come funzioni o come si supponga debba funzionare; sa solo che Rebecca crede negli innumerevoli benefici che deriverebbero da tutte queste pratiche mistico-energetico-taumaturgiche, e sa che lei sa che lui non ci crede per niente, invece. Sa di aver provato a dar retta a Rebecca perché, quando nessun medico e nessun antidolorifico funzionano, tanto vale dare una possibilità a quel che non ha alcun motivo logico per funzionare. Basta non rimanerci male quando, sorpresa, non funziona.
«Secondo me non lo fai per dieci minuti» dice Rebecca. «Ti vergogni all’idea che qualcuno ti veda mentre stai lì con la mano sul naso».
«Puoi biasimarmi?»
«Ti vergogni all’idea di star bene».
«Rebecca» Flavio si mette di fronte alla testa della moglie che sporge dalla porta vetrata. «Non funziona e basta. Ci ho provato per dieci minuti, anche per quindici o venti minuti, e non funziona. Se non funzionano le medicine, è ragionevolmente possibile che non funzioni neanche mettersi un dito nel naso e respirare, no?»
Rebecca ride.
«Che c’è?» chiede Flavio.
«Mi immaginavo te col dito nel naso».
Flavio vorrebbe risentirsi o ridere, ma entrambe le opzioni sono deleterie per la sua testa.
«Scusa se non do una mano a tavola, ma»
«Tranquillo».
«Ho bisogno di»
«Vai a stenderti».
E Flavio va a stendersi eccome, e solo quando si allontana dal salotto – dove al suo passaggio torna un cauto silenzio – si rende conto che un mal di testa così non l’ha mai avuto. L’ha detto tante volte prima, certo, ma ogni volta a buon titolo: i record sono fatti per essere battuti.
È così forte, stasera, che Flavio neppure si fa la doccia, abituale panacea contro il dolore, quando i ruvidi raggi d’acqua calda gli raspano la testa e offrono, se non una soluzione, almeno una distrazione; si sveste, invece, nella camera matrimoniale buia, con cautela, nel timore che gli abiti sfreghino contro la tempia dolente.
È così forte che il contatto tra i suoi capelli e il cuscino provoca un rombo al quale Flavio geme. È così forte che, quando il telefono accende la stanza di una luce azzurrina, il gemito di Flavio diventa un ululato, che a propria volta peggiora il dolore, così che Flavio lo riconverte a gemito e, con un braccio che pesa come il mondo, cerca il telefono sul comodino.
Il gemito di Flavio è arrivato fino in cucina, dove Rebecca e i ragazzi stanno finendo di sistemare. Sandra si è ritirata, stremata dall’attacco d’asma.
«Stremata dagli starnuti» sussurra Beatrice ad Alessio, al quale l’idea, per qualche motivo, fa ridere.
Rebecca rimprovera la figlia, ma sta sorridendo anche lei.
«Comunque per me esagera» dice Beatrice.
«La nonna non lo fa mica apposta» dice Alessio.
«Non parlo di lei, deficiente».
«Beatrice» la richiama la madre.
«Parlavo di papà. Lo sentite come strilla? Pare un malato terminale dal dentista».
«Beatrice!» ripete Rebecca, ma stavolta ride apertamente.
«Ma se sta male» fa Alessio. «Vorrei vedere se stessi male tu come sta male lui…»
«E tu che ne sai di quanto sta male lui?» chiede Beatrice.
«Ma si vede, no?»
Beatrice gli dà un pizzicotto sul braccio. Difficile a dirsi se sia più veloce Alessio a strillare, o l’ematoma a formarsi sulla sua pelle.
«Ecco, questo si vede».
«Mamma-aa!» protesta Alessio.
Rebecca scuote la testa, dà uno scappellotto a Beatrice (che va via ridendo, vedendo che Rebecca ha ancora qualcosa di simile a un sorriso stampato sulle labbra), consola Alessio e manda via anche lui, che segue titubante la sorella.
Mentre finisce di sistemare, lancia uno sguardo in direzione della camera dove il marito è scomparso. Lei non crede che esageri. Lei capisce perfettamente quanto Flavio stia male; o, più che altro, lei lo sente, lo sa, ogni volta che medita, concentrando sul marito le proprie energie, sente quanto quelle di lui siano disturbate.
È preoccupata, e il fatto che qualunque medico abbiano visitato non abbia trovato nulla che non andasse nella testa di Flavio, e che tutti quanti, come se fossero stati la stessa persona sotto travestimento, gli abbiano detto:
«È lo stress. Queste cefalee di cui lei soffre dipendono da una condizione di stress che lei vive»
non allevia per nulla la preoccupazione di Rebecca, che non vede come il marito possa combattere lo stress più di quanto sarebbe capace di operarsi da solo al cervello. Hanno cambiato specialisti come paia di scarpe, a alla fine l’unico a cui continuino a rivolgersi, non perché abbia portato loro qualche beneficio, ma perché vi si sono affezionati, più che altro dal lato umano, è Soleri, il medico di base di Flavio.
«Non ti sento bene» dice Soleri al telefono.
«Scusa, ma non riesco ad alzare la voce più di così».
«Non è quello. Voglio dire che mi pare tu non stia bene».
«Dici?»
«Mi avevi promessi di tenermi aggiornato.»
Il medico curante di Flavio è, nei limiti entro i quali Flavio può provare, in questo momento della sua vita, affetto o anche solo sopportazione nei confronti di un essere parlante e sonoro, qualcosa di simile a un amico. Flavio sa che Soleri non è mai riuscito, finora, a proporre alcuna soluzione definitiva al problema di Flavio – ma anche lo sforzo conta, giusto?
«Non ci sono novità su cui aggiornarti».
«Dalla tua voce, mi pare che oggi la situazione sia nuova eccome, invece».
«…»
«Da 1 a 10?»
Flavio ci pensa su.
«8 e 1/2»
Soleri fischia. Flavio fa una smorfia e Soleri si scusa, come se avesse visto la smorfia.
«Il più forte che hai avuto finora era un 8 tondo. Abbiamo un nuovo record».
«Che culo, eh?»
Soleri ride, ma la risata risuona lontana. Forse si è allontanato dal microfono per non dare fastidio a Flavio, che ne è quasi commosso.
«Ma non mi hai chiamato per chiedermi di mal di testa e record, vero?»
«Vista l’ora, sarei forse un buon medico, ma un’orribile persona».
«Che c’è allora?»
«Una notizia buona e una cattiva».
«Che frase da medico. Vai con la cattiva».
Soleri sospira, poi nomina qualcosa dal suono strano, grecoide, che Flavio identifica subito come l’antidolorifico che il medico gli ha prescritto qualche settimana fa.
«Non lo produrranno più».
«Poco male, per quel che funzionava».
Flavio ci scherza su, ma si sente mancare la terra da sotto i piedi, o il letto da sotto la schiena. Per quanto poco fossero efficaci le pastiglie, erano comunque le meno inefficaci che Soleri avesse saputo procurargli, ed erano per Flavio un’ ancora di salvezza.
«La buona notizia, adesso».
Soleri esita un attimo, come se dovesse scegliere bene le parole.
«Ecco. Supponendo che queste tue cefalee dipendano da una condizione di esposizione a rumori continui e stress sostenuto che minano i tuoi nervi ipersensibili – parlo di stress perché credo fortemente nella componente psicosomatica del tuo male, anche se tu non hai voluto darmi retta e visitare uno»
«Taglia corto, ti prego» dice Flavio tamponandosi la testa.
«Ecco, al rumore ci sarebbe una soluzione. Una cosa un po’ strana, che però ho collaudato su di me, e»
«Non sapevo soffrissi di mal di testa».
«Non ne soffro. Non sto parlando di una medicina, ma di… qualcos’altro. Hai la forza di ascoltarmi ancora un po’? Prima che la testa ti esploda?»
«Ne vale la pena? Non vedo l’ora che la testa mi esploda, sai».
«Ne vale la pena».
Sandra è sdraiata a letto. Respirerebbe con maggior agio se stesse in piedi, ma l’attacco l’ha stremata, per cui si deve accontentare della posa supina, con la testa appena reclinata sul cuscino morbido, e l’inalatore che stringe in mano come fosse una pistola, e il cui spruzzo dal suono secco, il suono che somiglia tanto ai rantoli della sua gola, si porta in bocca una volta ogni mezzo minuto, ogni volta ogni minuto; spera che l’attacco si plachi a breve, e il minuto diventi minuto e mezzo, poi due e cinque minuti, e poi basta, e che possa dormire tranquilla.
Guido la sorveglia da una sedia accanto al letto.
«Quant’è che costano, quegli affari?» chiede, indicando la pistolettata azzurro-medico, azzurro-dentista che Sandra stringe.
Quando lei glielo dice, lui fa due calcoli.
«Non è mica tanto» riflette. «Ma a quel ritmo, è un patrimonio».
«Di questo passo non avrò un’eredità da lasciare a mia figlia».
«Di questo passo, non avrai neanche una pensione».
«Dio, non farmi ridere. Non ho fiato per respirare, figurati per ridere».
«Hai cominciato tu».
«Puoi andare, se vuoi, sai».
«Aspetto che torni normale, poi vado».
«Non serve».
«Serve sì. Non posso dormire se sento i tuoi rantoli attraverso la parete».
«Sei sordo come una campana, che rantoli vuoi sentire».
«Allora diciamo che non posso dormire se so che rischi di smettere di rantolare. Una volta per tutte, dico».
«Guido» rantola Sandra «sei davvero un coglione».
«Se non altro, il fiato per le scurrilità non ti manca».
Dopo un po’ i polmoni di Sandra si allargano, smettono di bruciare acidi a ogni respiro. Sandra riesce ad espandere il torace, i rantoli si addolciscono e si sciolgono. Sandra chiude gli occhi e Guido sa di essere congedato.
Apre e chiude la porta più piano che può; non per evitare di disturbare Sandra – che lo chiama sordo e che lui, per ripicca, non disdegnerebbe di infastidire un po’ – ma per il bene di Flavio. O, per meglio dire, per il proprio bene in relazione al bene di Flavio, di cui non vuole sentire frecciatine e lamentele il giorno dopo, del tipo Grazie per aver chiuso la porta così forte, papà, non potevo dormire col dubbio che fosse rimasta aperta; o Grazie per aver camminato pestando bene i piedi papà, avevo bisogno di sapere di preciso dove stavi andando in quel momento. La parte più dolorosa di quei diverbi, per Guido, è non poter rispondere a tono. Non tanto – in parte sì, ma non solo per quello – per evitare al figlio sofferente e bellicoso dell’ulteriore sofferenza che lo porterebbe a una più velenosa bellicosità; quanto perché, di tutte le cose che Flavio – e, se è per quello, chiunque altro – dice a Guido, Guido ne coglie sì e no metà, e nulla è più doloroso, per lui, di perdere a tavolino una lotta truccata, alla quale è chiamato a partecipare perché c’è bisogno di un perdente.
Quando Guido esce dalla sua stanza, Sandra riprende a respirare più velocemente, e afferra di nuovo l’inalatore e lo usa una, due, tre volte. Si immagina i polmoni che le si gonfiano come palloncini e le viene da ridere, ma si trattiene perché immagina pure che la soluzione nebulizzata dell’inalatore ci metta un po’ a essere assorbita da bronchi polmoni e quant’altro, e se lei ora ridesse la espellerebbe. Qualcosa in lei le dice che non funziona esattamente così, ma qualcos’altro le dice che non c’è alcun male a crederci, invece, tanto per rendere l’asma un po’ più divertente.
Un’altra ragione valida per non ridere, è il suono stesso della risata. Sensibile com’è Flavio, in serate come quella, è meglio stare attenti. È per quello che Sandra ha congedato Guido. Il volume della voce del consuocero è perennemente fuori controllo, e Sandra se che era ormai solo questione di secondi prima che Rebecca, magari non mandata espressamente da Flavio ma comunque inviata lì in difesa del suo benessere, che è un po’ la stessa cosa, irrompesse nella stanza a dire ai due vecchi di stare buoni, manco fossero due bambini.
Parli del diavolo, pensa Sandra mentre Rebecca bussa ed entra piano. Non l’ha sentita bussare, in realtà; immagina che abbia bussato, però, perché almeno tanta decenza da una figlia, una madre se la potrà pure aspettare.
«Il poverino soffre tanto?» domanda roca.
«Mamma».
«Che c’è?»
«Non prenderlo in giro».
«Ho solo chiesto se sta male. Se ci vedete una presa in giro, è perché avete la coda di paglia».
«Mamma».
«Io sto bene, comunque. Grazie per avermelo chiesto».
«Te l’avrei chiesto appena entrata, se non mi avessi»
Prima che Rebecca possa finire la frase, sua madre, che stava per interromperla, annaspa e inizia a tossire. Si porta l’inalatore alla bocca e aspira.
«Non ti fa bene esagerare con quella roba, mamma» dice Rebecca.
«E cosa dovrei fare? Soffo-soffocare?»
«Rebecca sospira e decide di non continuare la discussione.
«Dai» dice, mentre si siede dove prima stava Guido, e tende le mani, sospese sopra il petto della madre supina. «Rilassati. Ti faccio una sessione».
«Oh, tesoro» fa Sandra, con compassione. «Lascia perdere. Non credo in queste cose».
«Ci credo io. Per questo funzionerà».
«Come ha funzionato finora? Come ha funzionato coi mal di testa di tuo marito?»
«Respira, mamma. Respira forte e lentamente».
«Amore mio» annaspa la madre. «Mi prendi per il culo? È proprio respirare, il problema».
Rebecca sospira di nuovo. Ritira le mani. Sorride. Le tende di nuovo, sospese sopra la madre.
«Forza».
Beatrice è sdraiata sul suo letto. Tiene il braccio sinistro piegato dietro la nuca, e il destro sollevato poco più in alto del viso, illuminato azzurrino dal telefonino acceso. Alessio la vede assorta e annoiata, innocua. Ma sa che sua sorella non è mai innocua; per cui, sebbene anche lui stia supino col telefono sul muso e a buona distanza da lei, sul proprio letto all’angolo opposto della stanza, tiene la coda dell’occhio bella attenta a qualunque movimento della sorella; e visto che la coda dell’occhio tende a esagerare ciò che capta, Alessio deve sforzarsi di non irrigidirsi a ogni respiro un po’ più forte, che solleva il petto della sorella un po’ più in alto. Non si deve irrigidire perché sa che anche Beatrice ha la coda dell’occhio attenta e attiva, e potrebbe sfruttare qualunque segnale di movimento offerto da Alessio come pretesto per… qualcosa. Alessio non sa più contare né elencare i piccoli dispetti – molti dei quali puramente psicologici, lievi e brillanti manovre di guerriglia – che Beatrice è stata, ed è, in grado di escogitare, allo scopo di dargli fastidio.
Alessio respira, si mimetizza sulle coperte. Vorrebbe essere da un’altra parte, ma da quando i nonni sono venuti a stare da loro, né lui né la sorella hanno più avuto una camera per ciascuno. Sta sulle spine, prova un disagio da animale braccato e quel che non sa e che mai sospetterebbe è che Beatrice si sente allo stesso modo. O, per meglio dire, non gli sfugge il fatto che Beatrice non ami questa convivenza più di quanto la ami lui. Solo, Alessio non sa che Beatrice prova nei confronti del fratello un disagio non privo di timore, simile a quello che lui prova nei confronti di lei, sebbene per ragioni diverse.
Beatrice crede di cogliere una scossa tutta tesa nella striscia sfocata che è il corpo del fratello; Beatrice crede che questa scossa sia corsa lungo il corpo del fratello nel momento in cui lei, in seguito a un sospiro che non ha saputo trattenere, ha sollevato il petto con particolare impeto. A questo punto è lei a dover nascondere la propria paralisi; ma se il fratello assume, nell’occultamento, una sorta di passività mimetica, il mimetismo di Beatrice prende, ora come ogni volta, una valenza aggressiva.
«Cosa guardi, brutto porco?»
Alessio non può fare a meno di dimenarsi un po’. Beatrice sorride perfida.
«Ti vedo che mi guardi, sai?»
«Non ti guardo».
«Mi guardi mi guardi mi guardi».
Alessio getta il telefono sulle coperte. Prende dal comodino il libro che stava leggendo poco fa – cercando a tentoni, ché i suoi occhi non vadano in direzione della sorella – lo apre e se lo appiccica agli occhi; prima e quarta di copertina a fare da tenda sul suo viso, falange macedone, o diga, del contatto visivo.
Beatrice ride.
«Come fai a leggere, così? Fai finta».
«Lasciami in pace».
«Fai finta perché sei un porco. Come quelli che fanno finta di leggere al parco mentre spiano le ragazze o i bambini».
«Sei una schifosa» sibila Alessio. «E parla a bassa voce!»
«Sei proprio uno di quei porci lì. Manco vedi che tieni il libro al contrario, preso come sei a far finta di non essere un porco».
Alessio si stacca il libro dalla faccia. Il libro non è al contrario. Beatrice ride più forte.
«Smettila. Sai che papà»
«Cosa? Sta male e se rido lo disturbo?»
«Sì».
«O hai paura che mamma e papà mi sentano che ti do del porco?»
«Smettila».
«Po-oorco».
«Smettila».
Alessio le tira il libro, Beatrice strilla – ma come di gioia! – e glielo rilancia, e poi gli si getta addosso, coprendo in un balzo la distanza che separa i due letti, e iniziano a lottare fra le coperte. E ridono, a questo punto, entrambi, ogni tensione e paura dimenticati.
A quel punto, attratta dagli strilli, entra Rebecca.
«Sapete che non è serata, ragazzi. Forza, torna al tuo letto, Beatrice».
E Beatrice torna al suo letto, e Alessio rimane sdraiato scomposto in mezzo alle coperte in tempesta, e il suo viso è rosso.
Rebecca se ne va. Dopo qualche secondo di silenzio, Beatrice bisbiglia:
«Porco»
e l’isteria di poco prima, e la gioia, si spengono in in sibilo.
«Sei tu che sei venuta qui a darmi fastidio».
«Sei tu che hai tirato il libro».
«Perché continuavi a fare il porco, porco. Stai zitto, porco».
«Stai zitta tu!»
«Se non stai zitto mi metto a strillare, e quando mamma torna le dico che sei un porco, porco».
Alessio sta zitto, e si mette su un fianco, dando le spalle alla sorella. È una posizione di pericolosa vulnerabilità, ma lui sa che Beatrice non lo molesterà più, stasera. Anche lei si è girata su un lato, lo sa dal fruscio di coperte e lenzuola.
Sa anche che la sorella sta respirando forte e quieta; dorme o finge di dormire, e lui non sa come spiegarselo, ma entrambe queste azioni sembrano volte a offenderlo. Più di una volta si è chiesto quanto sarebbe bello, e sereno, soprattutto e forse soltanto sereno, se proprio non è possibile riavere una stanza ciascuno, almeno non doversi sentire. Essere sordi nella stessa stanza, ché è dal suono, dalla voce, dalle cattive parole, che nasce ogni problema.
Rebecca entra nelle coperte, silenziosa come la muta di un rettile. Ma nonostante tutta la sua cautela, Flavio geme. Rebecca si morde un labbro per trattenere un sospiro. Cerca di adagiarsi, allora, con una lentezza geologica, che comunque provoca il fastidio del marito, il quale solleva appena la testa, la solleva come fosse di cristallo, e la ri-posa un po’ più discosto, lontano dalla moglie e dalle sue inutili cautele.
«Ehi» bisbiglia Rebecca. «La vuoi, una sessione?»
«No» dice Flavio. «Sto dormendo».
«Se mi dai dieci minuti, magari riesco a farti passare tutto, e allora riesci a dormire davvero».
«Stavo per dormire davvero, quando sei arrivata. Dai, che è tardi, e domani devo andare a lavoro».
«È tardi anche per me. E anch’io lavoro, domani».
«Allora dormi».
«E anch’io sono stanca. Perché stasera sono rimasta alzata fino a tardi a»
«Rebecca» la interrompe Flavio. «Lo so. E apprezzo tutto quel che fai e credimi, sono il primo a sentirmi in colpa e in difetto per non aver dato una mano. Per non essere stato in grado di dare una mano. O credi che non abbia voluto dare una mano, invece?»
«Non l’ho mai detto, questo» dice Rebecca, il cui collo e la cui schiena iniziano a dolere nello sforzo di forzare il movimento adagiante al massimo della lentezza «né l’ho mai pensato».
«Lo pensate tutti, invece. E non vi biasimo. Ma se solo poteste mettermi nei miei»
«Nessuno pensa nulla del genere, Flavio».
Flavio pare rasserenato, almeno un po’, tanto che non freme neppure più di tanto quando Rebecca posa sulla sua nuca carezze che non porteranno a nient’altro, salvo qualche altra mezz’ora di dormiveglia stantio, prima di un auspicabile, vero sonno.
A un certo punto, Flavio si rigira. Guarda Rebecca con due occhi che pur nella penombra appaiono gonfi e lucidi come pozzanghere, e esita.
«Domani ti devo parlare di una cosa importante».
«Cosa?»
«Domani».
«Se è domani, perché me l’hai detto adesso?» ride Rebecca. «Adesso non dormirò per l’aspettativa».
«Beata te che se non dormi è per l’aspettativa».
Rebecca sbuffa. Flavio geme.
«Domani te ne parlo. Te l’ho detto adesso perché magari me ne dimentico. Magari mi viene un ictus durante la notte».
«Non dirlo neanche per»
«Ricordami di parlartene, domani».
«Ma di cosa?»
«Della cosa importante».
Il giorno dopo, il mal di testa è scomparso, lasciando a Flavio soltanto un cerchio alla testa, una fiacchezza che ricorda un dopo sbronza e una leggerezza vagamente nauseante e non del tutto sgradevole, simile a quella che accompagna la convalescenza da una brutta febbre.
In momenti simili, Flavio è allegro e ottimista: il dolore ormai lontano e il nuovo, meritato benessere quasi gli fanno credere in un’immunità a successivi attacchi; se non permanente almeno temporanea, che duri per una settimana o giù di lì. Come se avesse pagato una tassa o una bolletta, che cara che sia perlomeno non si ripresenterà per un bel po’. Ma sa che non è così che funziona. A costo di rovinarsi il momento di sollievo, si sforza di non cedere al proposito di parlare a Rebecca, quella sera stessa, di ciò che gli ha proposto Soleri.
Soleri l’ha invitato a passare da lui nella pausa pranzo. Andare da Soleri significa rinunciare alla pausa pranzo, alla fonte di energia che aiuterà Flavio a riprendersi dalla giornata precedente. Ma Flavio, già intrigato dalla conversazione avuta al telefono, dà la precedenza alla dimostrazione pratica.
«Ricapitolando. Tu, questa cosa, non te la sei fatta installare per un problema di mal di testa. Quindi non è per i mal di testa, che serve» dice Flavio, dubbioso.
«Mai avuto mal di testa in vita mia» risponde Soleri. «Mi sono fatto installare questa cosa perché… oh, dimmi che non ti è mai capitato: ti pare di aver assorbito tutto questo rumore, che so, in ufficio no?, tutte quelle voci, e di portartele dietro, e quando sei a casa tua ti pare che tutta quella roba ti esca dal corpo come sudore, e svolazzi per casa, e ogni rumore che c’è in casa tua, è come se giocasse con quello che ti sei portato dietro, e ti gira la testa, e non capisci neanche dove sei?»
Flavio non dice niente; Soleri ridacchia.
«Mi sa che non era una spiegazione chiara».
«No, no. Lo era» dice Flavio. «Anche troppo».
Soleri sorride.
«Ascolta» dice.
La casa di Soleri è piccola. Un appartamento vicino al centro, al quarto piano di un palazzo. Distante dalla strada, ma, a rigor di logica, non dal rumore; il rumore delle auto e degli autobus e delle bici e delle persone, e il rumore assorbito dal corpo e rilasciato in casa. Ma di rumore non ce n’è.
Nell’appartamento di Soleri ci sono molte piante. Foglie verdi come smeraldi e ampie come ventagli, spolverate a lucido e umide. Compagne quiete di quel silenzio.
«Lo voglio» si sente dire Flavio. E sente che la sua voce non rimbalza nel silenzio, ma vi plana leggera, e atterra sulle foglie come una farfalla.
Così decide di invitare Soleri a cena quella sera stessa, di modo che Rebecca possa ascoltarlo mentre la convince a concedere a Flavio la possibilità di quel silenzio. A Rebecca piace Soleri, o così lei dice. Flavio spera che quest’apprezzamento sia sufficiente, per la moglie, ad accordare fiducia all’uomo.
«Non so se me la sento di prendermi questa responsabilità» protesta Soleri.
«Ti sei preso la responsabilità nel momento in cui mi hai parlato di questa cosa» dice Flavio. «Ora che mi hai dato speranza, non puoi tirarti indietro».
«Uno ti dà il dito e tu ti prendi il braccio».
«Ti sei preso una responsabilità verso di me da quando sei mio medico».
«Un ricatto professionale? Non funzionerà».
«E il giuramento di Ippocrate dove lo metti? Giuramento di Ipocrita, più che altro».
«Penosa, questa».
Flavio china il capo, e si porta le dita alle tempie, simulando un’espressione sofferente che spera Soleri non sappia simulata.
«Ohi-ohi» geme. «Ohi-ohi».
«D’accordo, grande attore» ridacchia Soleri. «Ma se tua moglie non è convinta nonostante tutto, di quello non mi assumo nessuna responsabilità».
Flavio sorride.
«Se mia moglie non è convinta, ti faccio pagare la cena. Se è convinta, la cena è gratis».
«Vedrò di fare del mio meglio».
Si stringono la mano, un po’ per gioco e un po’ per finta. Quando due mani che si stringono infine si separano, fanno un suono come di guanto di gomma. In casa di Soleri, questo non accade.
Per tutta la giornata, Flavio si impegna a conservare la propria determinazione. Si concentra su ogni singolo rumore, cerca di capire fino a che punto i tasti dei computer, le rotelle delle sedie, le fotocopiatrici, i passi e le voci, urtino il fragile guscio d’uovo del suo benessere. Dev’essere sincero con se stesso: non sente dolore. Ma sa che tutti quei suoni lo sommergono, si infrangono su di lui con l’insistenza di onde. A un certo punto gli viene un piccolo capogiro, la cui concretezza sa non essere autosuggestione. Potrebbe essere davvero questa, la causa dei suoi problemi. Non ci si può fare molto, dato che a lavoro ci deve andare per forza; ma se metà di questi suoni sono prodotti in casa sua, dove il mal di testa sembra nascere, soffocarli lì dovrebbe, per logica, risolvere almeno metà dei suoi problemi. E forzando un po’ di ottimismo nella logica, magari anche più di metà.
Quella sera, la presenza di Soleri porta un’inusuale vitalità alla tavola di Flavio, ormai avvezza al silenzio. Soleri scherza con tutti e tutti scherzano con lui, si contendono la sua attenzione come cani con un pezzo di carne.
Rebecca è felice di parlare a qualcuno col quale non deve fare attenzione al tono di voce.
Sandra ama la presenza di un uomo giovane che non ha l’aria di essere sempre stremato, come se, anziché da un ufficio, fosse uscito dall’inferno.
Per Guido, Soleri è il conversatore ideale, perché tiene la voce bella alta, ma senza farlo pesare all’uomo più anziano; pare venirgli naturale. E poi, ai suoi tempi, un medico era un ospite di riguardo.
Alessio è grato di avere in casa un altro bersaglio per le attenzioni di Beatrice.
Beatrice è contenta di poter concentrare le proprie attenzioni su qualcuno che non sia Alessio.
Flavio è l’unico composto e silenzioso. Qualcuno degli altri sta forse pensando che stia avendo un nuovo attacco; ma se davvero lo pensano, perché non abbassano il volume?, si chiede Flavio. Ma soprattutto pensa a come tirare fuori l’argomento. Non ora, ovviamente, ma quando lui e Soleri potranno essere soli con Rebecca. Sarà l’eventuale opposizione della moglie, il primo ostacolo da abbattere. Di lì in poi sarà tutto in discesa.
E sta pensando, Flavio, a quanto sarebbe bello se potesse essere così tutte le sere. Senza stare in silenzio, ma godendosi le parole e le risate. Sa che, se l’idea che Soleri gli ha messo in testa andrà in porto, le parole e le risate, in casa, saranno un po’ diverse da quelle di stasera. Ma sa anche che le parole e le risate di stasera sono un’eccezione, e per di più rischiosa. Non sarebbe meraviglioso trovare un compromesso? Flavio si fa coraggio, e si dice che Rebecca sarà convinta per forza. Poi, in un’ondata di risate che lo distoglie dal filo dei suoi pensieri, si dice che no, non sarà convinta per forza. Che non è per nulla scontato che lui, uno che stenta a mantenere il filo logico di un discorso e di un pensiero, riesca a convincere con belle e sensate parole sua moglie. Dovrà far leva sul buon cuore di lei. Dovrà fare affidamento su Soleri.
Lo guarda e questi, quasi abbia sentito il suo pensiero, ricambia il suo sguardo e annuisce piano.
Mentre attende il momento in cui tutto sarà deciso, Flavio non può fare a meno di chiedersi se la grande differenza che c’è stasera nel comportamento della sua famiglia rispetto a tutte le altre sere, non dipenda da qualcosa che non c’entri con la presenza di un ospite, con l’assenza di un mal di testa. Se lo chiede mentre guarda Soleri che ride e scherza con tutti e si chiede se lui, Flavio, sarebbe come il collega, qualora il mal di testa non gli fornisse una comoda scusa per non essere diverso da come si mostra.
Quando la cena termina, nessuno ha fretta di alzarsi, e ci vuole un po’ a far capire a vecchi e ragazzi che gli adulti hanno voglia di starsene per conto proprio. Alla fine, Beatrice e Alessio si spostano controvoglia in soggiorno, mentre Guido e Sandra, quasi offesi, si ritirano nelle loro stanze. Soleri pare sentirsi colpevole, ma Rebecca lo conforta con un sorriso, e Flavio, quando la moglie si gira, cerca nello sguardo del collega il segno che il momento cruciale della serata sta per iniziare.
Sparecchiano tutti e tre, nonostante le proteste di Rebecca, la quale preferirebbe che l’ospite si comportasse come tale. Mentre disfano la tavola e portano pile di piatti e cumuli di piatti in cucina, Soleri inizia la conversazione in modo casuale.
«Mi pare che oggi Flavio stia meglio, vero?»
Rebecca sorride un po’ triste.
«Sarà uno strazio averlo nel tuo studio, eh?» risponde. «Se si lamenta tanto qui, figurarsi col suo medico».
Flavio, che sta buttando gli avanzi poco distante, protesta. Soleri ride, sapendo che la donna sta solo mascherando la propria preoccupazione.
«Non è l’unico, sai?»
Flavio lancia in direzione di Soleri uno sguardo interrogativo, che cerca di nascondere quando anche Rebecca lancia all’uomo un’occhiata simile.
«È che facciamo tutti una vita simile» continua a inventare Soleri. «Passiamo tre quarti della giornata a lavorare, in condizioni super opprimenti e super stressanti. E il restante quarto lo passiamo a casa, dove abbiamo una famiglia che non è meno super opprimente e super stressante. È un bel casino».
Si affretta poi a scusarsi con una risata, facendo capire a Rebecca che stava scherzando, almeno in parte.
«No, no» dice lei. «Capisco cosa vuoi dire. Io il mio lavoro me lo gestisco da casa, e a casa, soprattutto quando i ragazzi sono fuori, non c’è tutto il caos che avete voi in ufficio. Anche se cenare da noi ti può dare un’idea diversa».
«Non volevo dire questo. O almeno, non lo volevo dire in senso negativo, eh? Avere una famiglia comporta per forza di cose del bel caos, come lo chiami tu, o casino, come lo chiamo io. Ma è un caos/casino positivo, eh. Non come quello dell’ufficio».
Rebecca annuisce, accettando il goffo modo che ha di scusarsi Soleri.
«Resta il fatto» prosegue l’uomo «che queste emicranie o cefalee – ma chiamiamoli mal di testa e basta, sì – sono davvero, davvero comuni».
«Davvero?» Rebecca sposta lo sguardo, serio ora, da Soleri al marito, che mette in ordine la cucina dando loro le spalle.
«Davvero» dice Soleri. «Anche se non tutti i casi sono forti come quelli di Flavio. Altrimenti avrei già cambiato lavoro, piuttosto che avere a che fare ogni giorno con pazienti simili».
La battuta non fa presa stavolta. Rebecca abbassa lo sguardo, pare pensare a qualcosa. Flavio non si perde una parola e aspetta, aspetta.
Alla fine, Rebecca si sfoga.
«Lo sai che le abbiamo provate tutte, vero?»
«Certo. Ve le no consigliate tutte io» sorride Soleri.
«E oltre a quello che ci hai consigliato tu… omeopati e chiropratici e non so neppure io cosa. Eppure non c’è nulla, nulla che»
«Forse qualcosina c’è» dice Soleri. «Qualcosina in più di nulla».
A quel punto Flavio si avvicina ai due. Rebecca guarda prima il marito e poi il medico, poi di nuovo il marito.
«È questa la cosa importante di cui dovevi parlarmi ieri?» chiede a Flavio.
Flavio annuisce. Soleri sorride.
«Confesso che è questo lo scopo della mia visita. Conosco una persona che potrebbe avere qualcosa che fa al caso vostro».
Rebecca non sa cosa pensare. Una parte di lei si sente offesa, perché il marito e Soleri hanno fatto tutta quella sceneggiata, con tanto di invito a cena pretestuoso, con uno scopo recondito. Soleri non è solo il medico di Flavio ma anche un amico, pensa Rebecca, e un amico non ha bisogno di pretesti né per venire a cena, né per parlare di qualunque cosa gli passi per la testa.
Un’altra parte di lei è – in parte a causa dell’offesa – scettica nei confronti di qualunque cosa Soleri e Flavio vogliano proporre ora; e quel “conosco una persona ecc” suona davvero, davvero sospetto.
Ma c’è un’ultima parte che continua a fidarsi di Soleri; questa parte dice che dopotutto l’uomo non è venuto per chiedere ma per offrire; e quest’uomo, che è un bravo medico e un buon amico venuto qui per il bene di Flavio, merita come minimo di essere ascoltato.
Così Rebecca respira a fondo – ma piano, per non darlo a vedere – e sorride come se nulla avesse attraversato la sua mente, e invita Soleri a parlare. Quando quest’ultimo ha terminato il proprio discorso, Rebecca non è più certa di aver fatto bene ad ascoltare. Scuote la testa diverse volte, dice che le pare che questa cosa di cui Soleri ha parlato sia una truffa, una di quelle cose che qualcuno provava a propinare agli ingenui nelle televendite quando le televendite andavano di moda, e che Soleri dev’essere A. uscito di testa se crede in cose simili, o B. convinto che lei e Flavio siano sull’orlo di una disperazione molto più profonda di quella sul cui orlo si trovano, se crede che potrebbero anche solo considerare come plausibile una cosa del genere.
Ma si pente delle proprie parole quasi subito; si pente della diffidenza che queste tradiscono nei confronti di Soleri, e si pente di aver parlato di disperazione. Perché per Flavio, certamente, molte delle pratiche che lei l’ha convinto a tentare, non erano altro che frutto della disperazione; la meditazione e la respirazione, il trasferimento del dolore, stregonerie e cialtronate a cui si è sottoposto per far piacere a lei, più che bene a se stesso.
Una persona meno generosa di Rebecca si appiglierebbe a questi pensieri per risentirsi ulteriormente e chiudere le orecchie a ogni eventuale protesta o tentativo di convincimento. Lei, invece, fa perno sul proprio senso di colpa, e si convince a dare ancora, almeno, una possibilità all’eventualità che l’idea di Soleri possa funzionare. Cerca questa possibilità negli occhi del marito. Li vede accesi di speranza. È facile immaginare il dolore causato da un’ennesima delusione futura. Immaginare che stavolta le cose possano funzionare è più difficile, ma lei ci riesce.
«Beh, bisognerà parlarne anche agli altri».
Flavio e Rebecca ne parlano al resto della famiglia il giorno successivo, senza l’aiuto di Soleri, che si è detto soddisfatto di aver fatto la propria parte, e non disposto a immischiarsi ulteriormente, ma più che felice di augurare a Flavio e alla sua famiglia buona fortuna.
«Se la cosa va in porto davvero» gli ha detto Flavio «considerati abbonato a cene su base settimanale».
«Dubiti che andrà in porto?»
Flavio ci ha pensato un po’.
«No» ha detto infine. «Sarà più che altro una formalità, in effetti. Se proprio vogliamo, anche parlarne con Rebecca era una formalità. Alla fine, è sempre stata una decisione che spettava a me».
«È per quello che te la stavi facendo sotto per tutta la cena, allora».
«Ma smettila».
Flavio sa che Soleri ha ragione. Che la scelta spetti a lui è vero, ma questo non significa che gli altri non abbiano voce in capitolo, purtroppo – specialmente Rebecca. Ma ora che Rebecca è dalla sua parte, non ha più nulla da temere. Così è con un tono che rasenta il decreto, che annuncia la novità al padre, alla suocera e ai ragazzi.
Parla e, quando finisce, nessuno dice nulla. Lo guardano tutti come se avesse appena spiegato la trama del più improbabile film di fantascienza; e Flavio non può neppure biasimarli, perché anche lui si è sentito così, la sera in cui Soleri gli ha parlato per la prima volta dell’impianto.
«Mi sa che non ho sentito bene. Ripeti?» dice Guido. Flavio trattiene un sospiro. Quella di Guido non è una domanda retorica, potrebbe non aver sentito davvero, così Flavio ripete il discorso.
«Voglio… vogliamo» si corregge, cercando l’appoggio di Rebecca, che ha l’aria di non voler apparire troppo coinvolta nella cosa «provare a mettere un impianto, in casa».
«E cosa sarebbe un impianto?» chiede Sandra.
Flavio sfarfalla le mani in aria, in uno scarabocchio che non dà un’idea per nulla precisa di cosa sia un impianto.
«Un… un dispositivo, un aggeggio insonorizzante che»
«Wow, in-so-no-riz-zan-te» Beatrice conta le sillabe sulle dita. Alessio ridacchia. Beatrice gli dà un pizzicotto; Alessio urla e Flavio si stropiccia le tempie con le dita. Il campanello d’allarme di un nuovo attacco mette i ragazzi in silenzio.
«Insonorizzante, sì» riprende Flavio. «Avete presente, che esistono, ecco, quando qualcuno suona uno strumento, no?, che esistono delle stanze insonorizzate. Ricoperte, rivestite di… cose che assorbono il rumore? Cose come spugna, o»
«Scatole d’uova» dice Guido.
«Come?»
«Una volta si mettevano tante, ma tante scatole d’uova sulle pareti» spiega Guido. «Se avevi un’officina, o qualcosa del genere, sotto casa, o vicina alle case degli altri, soffocavi il rumore così».
Guido guarda il figlio, come a chiedergli se ha capito a cosa si riferisce, o per meglio dire se se lo ricorda. Flavio annuisce, perché se lo ricorda eccome, il padre che trafficava nel suo garage, rivestito sì, ma inutilmente. Le scatole d’uova non servivano a molto, e lui e sua madre vivevano certe giornate infernali, a vagare per la casa urlando e tappandosi le orecchie, che parevano cani impazziti a causa di un fischietto ultrasonico. Dev’essere così che Guido si è rovinato l’udito. Ma non gli sono mai venuti mal di testa. Beato lui.
«Non vorrai mica rivestire la casa di scatole d’uova?» chiede Alessio. Beatrice gli dà un altro pizzicotto, e Alessio urla e poi tace.
«No, non saranno scatole d’uova» interviene Rebecca. «Sarà una cosa molto più elegante e molto meno invasiva».
«Del tipo?» chiede Guido, che pare il più scettico di tutti.
«Vorrei chiamare un tecnico» spiega Flavio «che è più bravo di me a spiegare tutti i dettagli. Il succo è che questa cosa, come dicevo, ci aiuterà a regolare il volume dei… dei rumori, per così dire, in casa, e»
Flavio è interrotto da Sandra, che inizia a starnutire nel suo modo lancinante. La vena alla tempia di Flavio pulsa pericolosamente. Ogni sua parola, per il successivo mezzo minuto, è intervallata dagli starnuti amazzonici della suocera.
«e in questo… modo… so che è una richiesta… egoista, ma credo che i miei mal di… testa… miglioreranno, ecco».
C’è un nuovo, lungo momento di silenzio, che sarà Guido a infrangere.
«Io ci sento già poco così, senza impianti e scatole d’uova».
Gli altri ridono, compreso Flavio, il quale però guarda il padre che si gira a destra e a manca come un comico contento del successo sul pubblico; e non è del tutto sicuro che stesse scherzando; e sente una fitta non alla tempia, ma da qualche parte fra la gola e il cuore.
Alessio e Beatrice si guardano e alzano le spalle, ma dietro la loro presunta indifferenza luccica – o almeno così pare a Flavio – una certa curiosità.
Sandra ha appena finito di starnutire, e ansima forte; lo guarda con occhi lacrimanti mentre si porta l’inalatore alla bocca, e a Flavio pare che in questo movimento ci sia un assenso del capo; anche se potrebbe trattarsi solo dello sforzo di inalare l’aria.
Flavio si gira verso Rebecca, che sorride incoraggiante e preoccupata.
«Allora domani chiamo il tecnico» dice Flavio «e vediamo come va. Se poi l’idea proprio non ci piace, facciamo a meno, ok? È una decisione di tutti. Magari non funziona neanche questa cosa, e impianto o non impianto mi tengo comunque il mal di testa».
Ride mentre fa questa battuta che è una battuta a metà, e che per l’altra metà è una richiesta d’aiuto, una richiesta che Flavio si rifiuta di riconoscere come ricatto.
«Pensa che bello» fantastica Beatrice. «Non dover più sentire la tua voce».
«La mia voce potresti non sentirla comunque, basta che mi lasci in pace» dice Alessio.
«Oh no. Troppo facile così, troppo facile. Devi soffrire in silenzio».
Gli strilli di Alessio che subisce l’assalto della sorella echeggiano per la casa. Rebecca si domanda come saranno le cose, quando questo cambierà, e si domanda come cambierà, e se le mancherà il rapporto col suono a cui è tanto abituata, a cui non ha mai fatto caso, perché non c’è mai stata l’opportunità di metterlo in discussione. Poi pensa a Flavio e si dice che qualunque cambiamento, per quanto doloroso potrà essere all’inizio – ma non è detto che lo sarà! – è il benvenuto, se suo marito potrà stare meglio.
Quando si sdraia accanto a lui, si rende conto che Flavio è provato dalla riunione famigliare. Le sorride mentre lei entra nelle coperte, ma la pelle agli angoli delle sue labbra e delle sue tempie è tirata come pergamena. E non pulsa forse troppo forte, in modo troppo nitido, la vena alla tempia di cui lui si lamenta tanto? Forse è solo una sua impressione, forse Rebecca ha finito per farsi suggestionare dagli epici racconti di sofferenza del marito. Ma non è certa. Lascia che il polpastrello indugi sulla vena, che si gonfia e sgonfia sotto la sua pelle con un ritmo cauto. Chiude gli occhi, e spalanca la mano, il cui palmo appoggia sulla tempia di Flavio.
«Respira a fondo» gli dice. «Chiudi gli occhi e respira a fondo».
La sua mano capta un movimento sul viso del marito, muscoli che si tendono e stendono mentre lui rotea gli occhi.
«Sto bene» le dice Flavio. «Abbastanza bene, dai. Non c’è bisogno».
«Non stai mai bene, tu. Forza, dieci minuti».
«Rebecca, stai tranquilla. Se l’impianto funziona, non ci sarà bisogno del tuo comesichiama, reiki o quel che è».
Rebecca ritrae la mano e si sdraia.
«Quel che volevo dire» continua Flavio «è che non ci sarà bisogno che continui a preoccuparti e sforzarti. Ok?»
«Ma certo, ma certo».
«Rebecca».
«Massì, ho capito quel che volevi dire. Stai tranquillo. Davvero».
A un corridoio, una zona-giorno e un altro corridoio di distanza, Sandra giace nel proprio letto. L’attacco di stasera è stato meno grave dell’ultimo, ma l’ha comunque lasciata stremata. Respira e aspira dall’inalatore, respira e aspira, cercando di allargare gli intervalli fra la prima e la seconda azione. Nel frattempo pensa alla strana discussione di questa sera.
Respira e aspira.
C’è un lato di lei che si oppone con forte scetticismo alla “installazione” di un “impianto” che possa “regolare” il “volume” della casa. Sono tutti paroloni che occupano spazio stridendo, come maiali in un salotto, nascondendo il proprio significato, o l’assenza dello stesso, e paiono animati da cattive intenzioni. Cos’è un impianto, e cosa vuol dire regolare il volume di una casa? Una casa non è un televisore, e chi vi abita non è il concorrente di un programma idiota, dove tutti strillano senza scopo e senso, senza offrire nulla a chi è dall’altra parte dello schermo. Non funziona così.
Respira; respira un’altra volta; tenta un terzo respiro, ma i polmoni si oppongono; allora aspira. L’inalatore gratta come carta stropicciata.
D’altro canto, capisce le ragioni del genero. Non le condivide appieno, non condivide tutta questa condiscendenza nei confronti di qualche mal di testa, ma vuole credere che, se la cosa non fosse grave, Flavio non ricorrerebbe a misure da romanzo di fantascienza. Che Dio gliela mandi buona, pensa, perché le cose di fantascienza appunto nei romanzi stanno bene, ma nella vita vera servono a ben poco. Ma si vedrà, giusto?
Respira. Tre volte stavolta, con successo. Dopo il terzo respiro, si concede una boccata di inalatore.
Non può negare, poi, che anche lei, forse, si sentirebbe più a proprio agio, sapendo che i suoi starnuti e le sue tossi daranno meno fastidio agli altri. Ché Sandra mica si diverte, a fare quei versi; ché lo sa meglio di chiunque altro, che i suoi versi sono alti e lancinanti, e che chi li sente deve averli in odio. Ma lei non può farne a meno. E allora, che male c’è in una soluzione che accontenterà tutti?
Respira quattro volte. Decide di posare l’inalatore sul comodino, decide che stasera non ne avrà più bisogno.
Guido non le fa compagnia stasera. Lei sa che quello più turbato dalle novità in arrivo è proprio lui. Cerca l’inalatore sul comodino, il braccio teso dove l’occhio non vede; lo trova e se lo mette sotto il cuscino. Decide che, in fondo, non si sa mai.
Anche Guido giace nel proprio letto, nella sua stanza, la stanza che non smette mai di pensare essere appartenuta a un adolescente, appartenere ancora adesso a un adolescente, perché se un vecchio si trova a dormire nella casa di qualcun altro, nella stanza di qualcun altro, è ovvio che il vecchio non possiede niente, men che meno la stanza in cui dorme.
Guido si sforza di ascoltare. La sua stanza confina con quella di Sandra, un confine da ragazzini al pernotto durante una gita scolastica, e Guido cerca di sentire, oltre la parete sottile, i rantoli e i respiri di Sandra. Ogni tanto gli pare di udire qualcosa, forse il fischio che produce la gola ostruita della donna nello sforzo eroico di cercare l’aria; forse lo scatto secco e raspante dell’inalatore; e forse non è nulla di tutto questo, ma solo l’eco di quei suoni, tutta d’immaginazione, entrata non nelle orecchie ma nel cervello di Guido, dopo averli uditi davvero tutte le volte che è rimasto accanto a Sandra mentre questa cercava di riprendersi.
Lui è sempre stato accanto a lei. Non Rebecca, troppo presa ad accudire Flavio durante quegli attacchi di mal di testa portati a commedia; non i nipoti. Lui, che fra tutti loro dovrebbe essere, a rigor di logica o a rigore di parentela, la persona più distante da lei. Lui, che ha bisogno di starle a trenta centimetri dalla faccia, e con l’orecchio bello teso, per capire se lei respira ancora come Dio comanda.
Stasera, però, proprio non ce l’ha fatta a stare lì con lei. Stasera Guido ha molto a cui pensare. Stasera Guido si chiede se, una volta che avranno piantato quell’arnese in casa, lui sarà in grado di sentire alcunché. Per questo, cerca di sentire il respiro di Sandra a una parete di distanza. Si dice che, se ci riesce, forse il resto della sua vita futura in quella casa non sarà per forza una prigione di pareti tra lui e tutti gli altri.
Flavio fatica a prendere sonno. Domani chiamerà il tecnico. Non lo ammetterebbe con nessuno, ma ha letto e riletto il numero così tante volte che l’ha imparato a memoria. Lo stesso vale per le presentazioni fotografiche nel sito, e per i video illustrativi, sempre sul sito o su YouTube. Non ce ne sono molte, e sono tutte piuttosto recenti, così a Flavio vengono i primi dubbi circa la possibilità che quest’impianto dal nome vagamente pacchiano, Anecho, un nome da film fantascientifico di seconda categoria, sia una fregatura o addirittura qualcosa di pericoloso. Le recensioni sono incoraggianti, però, e i commenti più negativi sotto i video sono i commenti che potrebbe scrivere Guido, se sapesse cos’è YouTube e se sapesse come si commenta sotto un video, commenti da vecchio scettico refrattario a qualunque novità. Così Flavio si fa passare ogni dubbio, incoraggiato dall’idea che casa sua sarà pioniera di un prodotto rivoluzionario ma ancora sconosciuto, e continua a pensare che la parola e la testimonianza di Soleri devono pur valere qualcosa.
Il giorno dopo, sta per chiamare il numero della compagnia, quando si imbatte in Guido.
Suo padre è seduto sul sofà in salotto, davanti al televisore. Flavio vede per primo il lucore azzurrino dell’apparecchio, e una sagoma che gli dà le spalle. Non sospetta, fino all’ultimo istante, che possa trattarsi del padre, perché quest’ultimo, quando guarda la televisione, si fa sentire per tutta la casa, col volume a cui tiene l’apparecchio.
Flavio si avvicina piano, perplesso. Il volume è così basso che neppure lui riesce a sentire bene quel che si dicono le figure che si muovono sullo schermo.
«Papà?» chiama.
Guido non lo sente.
«Papà!»
La seconda volta, Guido si gira, con un’aria a metà fra lo spavento e la vergogna, e sorride al figlio, pieno d’imbarazzo.
«Che fai, papà?»
«Guardo la tv, no?»
«E il volume?»
«Eh?»
Flavio scuote la testa. Fa per voltarsi, ma rimane lì. Suo padre lo guarda con un sopracciglio sollevato, come a volergli dire vuoi qualcosa, o te ne vai e mi lasci guardare la tv in pace?
«Papà» dice Flavio. «Seriamente, che ne pensi dell’impianto?»
«Eh?»
«L’impianto! Che ne pensi!»
«Ah» fa Guido. «E cosa vuoi che ne pensi, io? Che ne capisco io, di queste cose? L’importante è che faccia bene a voi».
Se Guido avesse detto Che faccia bene a te, Flavio l’avrebbe presa come una frase d’accettazione. Ma in quel voi, c’è un senso d’esclusione che stringe il cuore.
«Papà» dice Flavio. Ma Guido si è già girato verso lo schermo, intento ad ascoltare qualcosa che non potrà mai sentire. Flavio potrebbe chiamarlo più forte, ma si dice che se lo facesse disturberebbe gli sforzi del padre. Così non dice più nulla, e se ne va. Prende in mano il telefono. È ora di chiamare il tecnico.
Il giorno dell’appuntamento, Flavio ha un mal di testa feroce, che da un lato lo indispettisce oltremodo, perché questo è un giorno importante che andrebbe vissuto appieno e senza intoppi; ma dall’altro, il dolore lo solleva da ogni ripensamento. Chiunque, in casa, possa avere dubbi sulla legittimità dell’impianto, non può avere motivazioni più valide di quelle offerte dalla tempia sinistra di Flavio, che pare sul punto di scoppiare per lo sforzo di stantuffare sangue, dal nervo che sta sotto la vena, trafitto e torto come un dente marcio.
Sono tutti lì, in fila vicino all’ingresso, ad attendere il loro Messia, sembrano una famigliola da musical vecchia scuola, o da pubblicità di un qualche prodotto alimentare, innaturali nel loro diorama di mobili ordinati e vestiti puliti. I ragazzi si sono presi un giorno di vacanza, e Rebecca si è concessa una pausa dal lavoro. Sandra è arrivata prudente come una marmotta, e Guido si è fatto vivo più tardi di tutti, che pare non volesse venire.
Appena scocca l’ora dell’appuntamento, Guido già dice che il tecnico è in ritardo, che certa gente non ha il minimo riguardo per gli altri, e sotto sotto spera, lo sanno tutti, che il tecnico non si presenti. Ma un rombo d’auto, distante e poi vicino, sale lungo la collina, e in breve tempo il campanello suona.
L’uomo che si presenta alla porta non ha l’aria di un tecnico. Indossa un completo sportivo blu-marina, con la camicia bianca sbottonata al collo, e porta un paio di scarpe da ginnastica, bianche pure quelle. Bianco è anche il sorriso, nota Flavio. Bianche sono le mani, nota Guido, e lisce e delicate, bianche di uno che non può aver mai montato un qualsivoglia impianto in qualsivoglia casa, a prescindere dal tipo di impianto e dal tipo di casa.
L’uomo stringe le mani a tutti, abbassandosi leggermente quando tocca ad Alessio e Beatrice – a quest’ultima fa un piccolo inchino che fa ridacchiare la ragazza – e bacia la mano a Sandra, che ridacchia imbarazzata.
«Niente bacio a me, per favore» dice Guido. L’uomo ride di gusto, e stringe la mano del vecchio con una forza che quest’ultimo non si sarebbe aspettato da quelle mani bianche e morbide, mani di chi si mette la crema fra un lavoro e l’altro, mani di chi si fa limare le unghie da qualcun altro; nonostante la presa salda, Guido non ritiene di dover cambiare opinione sul tecnico.
Rebecca chiede all’uomo se gradisce un caffè, e quello risponde:
«Non bevo mai quando sono in servizio»
e ridono tutti, tranne Guido, che storce appena la bocca.
«Se per voi va bene» dice l’uomo «partirei con la dimostrazione. Scusate se vengo al sodo così, di colpo, ma ho altri lavori che mi aspettano, e»
Quindi è solo una dimostrazione, pensa Guido. Magari questa cosa non convince nessuno di loro. Se hanno un po’ di buon senso, non si faranno convincere.
L’uomo ha una valigetta. La valigetta è tanto nera quanto la camicia, le scarpe, i denti e le mani dell’uomo sono bianchi.
«Qual è la stanza più centrale?» chiede l’uomo.
«Come?» chiede Guido.
Flavio lancia un’occhiataccia al padre. È da quando si è alzato, che si isola, tace, sente o non finge di sentire, e quanto sente o non finge e parla, dà rispostacce. Il tecnico comunque non si scompone; neppure il suo sorriso cede, ma si scalda in una sfumatura empatica.
«Mi scusi. La stanza più centrale?» ripete a voce più alta.
«La centrale di cosa?»
«È questa» dice Flavio. «Il salotto».
L’uomo annuisce, come se si aspettasse questa risposta.
«Certo che è il salotto» mugugna Guido. «Quale dovrebbe essere, la cantina?»
L’uomo lo ignora, mentre Flavio lancia al padre uno sguardo inferocito.
«È un bellissimo salotto. E vedrete… posso?» appoggia la valigetta sul tavolino davanti al sofà «che Anecho non lo priverà neanche di un grammo della sua bellezza».
Quando apre la valigetta, il clic che tutti si aspettano non si fa sentire.
«La bellezza si misura in grammi, poi?» chiede l’uomo, come pensando ad alta voce, mentre apre la valigetta. «Facciamo centimetri? Meglio, no?»
Tutti ridacchiano di nuovo, tranne Guido, che pensa Idiota, o magari lo mugugna, con Flavio che continua a guardarlo malissimo.
«E pure di centimetri» continua l’uomo «questo signorino qui ne occupa ben pochi».
Dalla valigetta esce un parallelepipedo, nero come la valigetta, poco più grande di un libro. L’uomo posa l’aggeggio sul tavolino, attorno al quale la famiglia si raduna con curiosità primitiva, osservando il minuscolo monolito.
Mentre loro osservano, l’uomo estrae due oggetti tondi che, quando li appoggia sul tavolo, rivelano la forma di semisfere, dalla circonferenza di uova.
«Non dovrò istallare niente, al momento. Diciamo che basterà metterne una… qui. E l’altra…»
L’uomo va ad appoggiare una sfera sulla libreria vicina alla porta vetrata, e l’altra su un ripiano della libreria, vicino al corridoio.
«Dovrebbero essere belle cariche. Allora, proviamo?»
La famiglia annuisce all’unisono. La curiosità è ancora forte, ma è accompagnata da un certo timore. Sta per accadere un portento dopotutto, e loro non sono certi di essere pronti.
L’uomo torna al tavolino e muove le dita sul piccolo monolito, sulla cui superficie devono esserci dei sensori tattili che però non si vedono.
«Siamo pronti?»
Di nuovo, annuiscono tutti.
L’uomo, leggermente chino sul monolito, muove l’indice un’ultima volta. Si raddrizza. Sorride.
Nessuno dice nulla. Si guardano tutti confusi. Flavio è il primo a notare la differenza. Prima che possa dire qualcosa, ci pensa Guido, il quale, per meglio dire, apre la bocca ma non ne esce un singolo suono.
Sandra guarda il consuocero e gli chiede Ma perché muovi la bocca come un pesce rincoglionito?, ma anche dalla sua, di bocca, non esce nulla.
Uno alla volta, poi tutti assieme, parlano e parlano e non dicono nulla. L’uomo ha sul viso un sorriso vagamente birichino, da bambino che ha sorpreso i compagni di scuola con un giocattolo nuovo.
Flavio chiude gli occhi. Respira. Il silenzio è così profondo che dovrebbe poter sentire la vena gonfiare la pelle della sua tempia con un cigolio di gomma, dovrebbe poter sentire il rombo irregolare del sangue. Ma non sente nulla di tutto ciò. Non ode neppure il proprio respiro, tanto che per un attimo ha l’impressione di soffocare, e deve concentrarsi sulla sensazione dell’aria che gli entra fresca in gola e scende tiepida nei polmoni, gonfiandoglieli in petto.
Beatrice ride e la risata non c’è. Alessio la guarda con trionfo, finché lei non gli molla un calcio sullo stinco; lui urla, e l’urlo non nasce. Tutti si guardano attorno, come se non riconoscessero il salotto della Casa in cui vivono. In mezzo a loro, l’uomo sta dritto e bianco, e fa scorrere lo sguardo su tutti loro, e pare godere della loro sorpresa.
Picchietta sul monolito, e tutto torna normale, ed è un tuffo in acque gelide.
«Allora?« chiede. «Mica male, no?»
Mentre il tecnico riprende a parlare, terminando le spiegazioni, Flavio fatica a concentrarsi. Il ritorno al rumore dopo i brevi secondi di quel silenzio così perfetto come mai ne aveva sentiti o non-sentiti, ha messo a dura prova la sua testa già dolente.
Gli pare di capire che, sebbene il monolito funzioni anche così, come l’hanno visto loro, sarebbe meglio attaccarlo all’impianto elettrico, e lo stesso vale per i filtri (l’uomo chiama così le due semisfere) che dovrebbero essere più di due, posizionati in vari angoli della casa, in modo da dar loro la massima autonomia, e avere allo stesso tempo una copertura completa di ogni locale.
Gli pare di capire che questi filtri riconoscano diverse tipologie di suoni e, con un po’ di pratica, ci si possa sbizzarrire al di là delle opzioni-base e giocare col suono un po’ come si gioca con le immagini con photoshop – qui il tecnico dà una breve dimostrazione, picchiettando la superficie del monolito per qualche secondo, dopodiché salta fuori che le loro voci sono rimaste al volume naturale, mentre tutti i suoni ambientali sono attutiti.
«Avete idea di quanto sia richiesto, Anecho, sui set cinematografici? Diventerà la rovina della post-produzione».
Gli pare di capire che l’uomo darà loro un po’ di tempo per pensarci («Non sono venuto a vendervi il mio aggeggino a tutti i costi, e questa è una decisione importante») e gli pare che, quando il tecnico se ne va con le stesse cerimonie con le quali si è presentato, mentre gli stringe la mano, a lui e solo a lui faccia l’occhiolino, quasi a dire Ho capito che è a te che serve, questo, quindi pensaci bene, capo.
Quando l’uomo esce, loro rimangono un po’ in silenzio. Stanno in cerchio e si guardano. Guido è quello che rende il cerchio imperfetto, rimanendo appena discosto dagli altri. Flavio lo guarda; Guido sposta gli occhi qui e lì, un bambino costretto a partecipare a una lezione noiosa.
«Beh» dice infine Flavio, con le parole che gli battono sulla tempia come lingua su una carie «è stato molto… simpatico, no?»
Tutti, tranne Guido, annuiscono, e lo guardano con aspettativa.
«Allora… ha detto di pensarci un po’, no? E pensiamoci un po’. Ora, se volete scusarmi…»
Flavio fa per dirigersi in camera da letto, ma si rende conto di dover passare per il bagno, prima. È una sensazione nuova, perché anche se non è la prima volta che il dolore alla testa gli prende lo stomaco, mai è stato così forte da rivoltarglielo in questo modo. Fa giusto in tempo a raggiungere la tazza, sulla quale rimane piegato per diversi minuti, mentre ogni spasmo del torace e della bocca, che crede aprirsi come quella di un serpente, gli lancia nuove fitte alla tempia, col risultato che la nausea aumenta, parallela al dolore.
Quando ha finito e nello stomaco non gli è rimasto nulla ed è terminata perfino la bile, unico rigetto degli ultimi due spasmi, spera di poter avere un po’ di sollievo, quasi che il suo stomaco contenesse le tossine che gli incendiavano la testa. Ma non è così. Si sforza di lavarsi i denti, va a letto. Più tardi, quand’è ora di cena, si nega alla chiamata di Rebecca. Rimane sveglio ancora a lungo, ma finge di dormire quando, infine, la moglie lo raggiunge a letto. Pensa che non c’è bisogno di prendersi tempo per pensarci. L’impianto può funzionare, deve funzionare, e lui non può aspettare un giorno di più.
All’installazione assistono tutti tranne Guido che, da quando Flavio ha annunciato l’incontrovertibilità della sua decisione, si è fatto taciturno e sfuggente. La sera prima, quando il vecchio si è presentato al capezzale di Sandra, questa ha notato come fosse assente, la fronte coperta da una nuvolaglia cupa, e quanto fosse refrattario alle parole di lei, l’unica le cui parole lui è in grado di capire, grazie ai movimenti delle labbra, alle espressioni del viso, e a un’inspiegabile sintonia che formano per loro un secondo alfabeto.
«Se questa cosa è così importante per te» ansimava Sandra «parlane a tuo figlio. Non è giusto che tu debba sentirti così a causa sua. Potete trovare una soluzione diversa, un compromesso, un»
«Questa è casa sua» rispondeva Guido. «Il compromesso è che io viva qui. È già abbastanza».
«Sei un vecchio coglione» rispondeva Sandra, scatenando in Guido una risata poco sincera.
Il tecnico, ora, pare non notare l’assenza del vecchio – la cerimonia dei saluti, identica a quella della prima salvo per la presenza di Guido, si svolge come se quest’ultimo non fosse mai esistito – e procede coi lavori.
Flavio sta bene, oggi, si porta dietro quella specie di dopo sbronza a cui è abituato, che rende il processo ancora più speciale. Gli viene da ridere senza motivo, e si dice che, se per qualche ragione un bambino dovesse svegliarsi ubriaco o drogato la mattina di Natale, al momento di scartare i regali si sentirebbe come si sente lui ora, intriso di una felicità ridicola e immacolata.
Flavio non sa se gli altri provano una gioia simile – ne dubita – ma di certo non è il solo a seguire il tecnico come un cane curioso, schivando appena in tempo i movimenti dell’uomo quando questo si gira bruscamente fra una misurazione e una trapanazione, sempre assorto e fischiettante, quasi non si rendesse conto della loro presenza fino a quando arriva il momento, di cui l’uomo è consapevole come un intrattenitore navigato, di rivolgersi a loro con qualche spiegazione o una battuta che nulla a che fare con le operazioni.
Il processo non è esattamente breve, ma è quieto e fluido; l’uomo non ha davvero l’aria di star lavorando, ma piuttosto di dedicarsi a un pigro – seppur per nulla trasandato – bricolage. I filtri sono posizionati in punti strategici nella casa, angoli seminascosti in alto nei corridoi o dietro mobili.
«Non vi accorgerete neppure di averli» dice l’uomo, e tutti pensano per un istante che sia quasi un peccato, questo giocattolo nuovo e bello ma nascosto o seminascosto, troppo discreto, a prova di pavoneggiamento.
L’uomo continua a lavorare da un capo all’altro della casa. Posiziona l’ultimo filtro in salotto, vicino alla porta vetrata che dà sulla collina.
«Spesso si sottovalutano i suoni che provengono dall’esterno. Sarebbe un peccato avere tutta la casa coperta, tranne questo bel salotto, no?, e ritrovarselo rovinato dal rumore di un temporale, o dai primi uccellini del mattino».
«Hanno un bel suono, i temporali» dice Alessio, e Beatrice gli molla un pizzicotto su un fianco.
«Beh, qui ho finito» dice l’uomo. «Questo è per voi»
E lascia a Flavio una scatola di simil-legno, lucida e tondeggiante.
«Dovrei avervi spiegato tutto, ma se c’è bisogno di chiarimenti…»
«Credo sia tutto a posto» dice Flavio, i cui occhi corrono oltre le spalle dell’uomo, dove il monolito Anecho ha trovato il proprio altare, vicino al televisore.
«Va bene, va bene. Conservate la scatola, eh? Ci sono le istruzioni, la garanzia, i numeri di riferimento e altri aggeggi utili».
Il tecnico si porta un dito alla bocca, come fa chi invita al silenzio. Tutti tacciono, fino a quando capiscono che quello è solo un simpatico modo di congedarsi, e stringono a turno la mano al tecnico, che se ne va via fischiettando.
Ora che sono soli, tutti i presenti si guardano a turno, indecisi sul da farsi. Quindi Rebecca, quasi volesse aiutare il marito a dare sfogo all’eccitazione che sa essere in lui, lo prende per mano e lo porta al monolito, assieme a tutti gli altri, che li seguono e rimangono in semicerchio attorno all’oggetto, appiccicato al muro, appena più in alto della testa di Flavio. Beatrice urta il televisore, che minaccia di cadere, e Alessio lo recupera appena in tempo, dando dell’impedita alla sorella e aspettandosi un pizzicotto che però non arriva.
«Papà, allora?» chiede Beatrice. «Lo proviamo o no? Se non inizi tu, lo faccio io».
Flavio posa una mano sulla superficie nera. Segue le indicazioni che il tecnico aveva dato mentre lui era divorato dall’ultimo mal di testa. Cos’aveva detto l’uomo sulla particolarità del pannello di controllo? Sullo schermo non si illumina nulla. Anzi, non si può neppure dire che ci sia uno schermo, su quest’affare. Che sia spento? No, c’è una vibrazione, da qualche parte, lì sotto. Una vibrazione… ecco! Il pannello non dà indicazioni visive. Tutto è sonoro. Flavio tende le orecchie, gli pare che anche i suoi polpastrelli tendano le orecchie e ascoltino. Se muove il dito più in alto, un suono acuto gli trafigge la pelle… non è quella, la direzione giusta. Se invece fa così…
La casa diventa pian piano silenziosa. I suoni si affievoliscono, come se l’intera casa fosse un televisore e qualcuno stesse abbassando il volume col telecomando. Tutti si guardano attorno stupiti, perché anche se il tecnico aveva già dato loro una dimostrazione, non avevano capito, finora, cosa significasse avere un potere simile.
Nella sua stanza, Guido tende l’orecchio. Gli pare di sentire la voce del tecnico, e le voci della sua famiglia quando l’uomo arriva, il brusio dei saluti e delle moine e del caffè offerto e rifiutato con una battuta idiota. Ma forse se le immagina e basta, tutte queste cose, che sono solo l’eco di quel che è successo la volta prima.
Continua a tendere le orecchie comunque, e gli pare di sentire il suono di un trapano e un raspare lieve. Ma anche questa potrebbe essere soltanto suggestione, giusto? E a un certo punto, c’è solo silenzio, il che può significare che l’impianto, la scatoletta col suo nome idiota e le sue appendici stupide, è stato installato. Oppure no. Oppure vuol dire che nelle sue orecchie il silenzio è sempre stato presente e immutato, che nella casa potrebbero essere successe mille cose diverse che lui non ha saputo riconoscere e distinguere.
Guido sta nella sua stanza come un adolescente in punizione, e ancora una volta si ricorda che neppure al grado di adolescente può ambire, perché in questa casa gli adolescenti hanno una stanza che è propria loro, mentre lui è un ospite in affitto, senza neppure la dignità di pagare un affitto.
Ogni tanto Guido guarda l’orologio; esce, controvoglia, solo quando è ora di cena.
Flavio si guarda attorno stranito. Deve fare uno sforzo per ricordarsi che si trova a casa propria, che non è solo, perché a una cena del genere non ricorda di aver partecipato mai. Deve, ogni tanto, cercare attivamente di rendersi conto che sta mangiando, perché quando la forchetta stride sulla superficie del piatto non produce nessuno stridio, e quando i suoi denti e la sua lingua strappano e biascicano, non sollevano alcuno strappo o biascichio.
Attorno a lui, gli altri sembrano provare qualcosa di simile, perché gli sguardi si incrociano confusi e increduli, con dei sorrisetti sciocchi ripieni di cibo.
A un certo punto, Alessio inizia a fischiettare. Flavio se ne accorge solo dopo mezzo minuto, e non perché senta il fischio, ma perché vede le labbra del figlio strette in una minuscola O.
«Alessio. Non si fischia a tavola».
Alessio continua imperterrito.
«Alessio!»
Il ragazzo sussulta e guarda il padre. Muove le labbra e ne esce un suono lieve, come se lui fosse molto più lontano di quanto non sia.
«Eh?» dice Flavio.
«Che c’è!» dice Alessio, più forte, più vicino.
«Non si fischia a tavola!»
«Non stavo fischiando!»
«Ma ti ho visto!»
«Facevo finta!»
«Ma perché!»
«Era uno scherzo!»
«Non fare finta di fischiare a tavola!»
Beatrice molla un calcio sottobanco al fratello, che strilla flebile. Quindi gli sussurra qualcosa, o meglio, dice qualcosa a un volume normale che nessuno tranne Alessio è in grado di cogliere. Quando vede che Rebecca la guarda storto, incassa nelle spalle la testa e fa un sorriso furbo.
La situazione si calma, ma Flavio si accorge che questa cena non è mai stata, finora, altro che calma. Queste piccole schermaglie non lo hanno davvero indisposto, è stato come guardare distrattamente un programma televisivo a basso volume.
Cerca il pulsare della propria tempia, ma non lo trova. Deve concentrarsi sulla pelle che tira gentilmente, deve cercarla col dito.
Rebecca lo guarda e gli dice qualcosa che lui non intende.
«Tutto bene?» ripete Rebecca a voce più alta.
Flavio non si sforza neppure di rispondere a voce. Fa un largo sorriso e annuisce piano e a fondo.
Certo che va tutto bene. Come potrebbe andare meglio?
A un certo punto, Sandra alza la testa, storce il naso e ghigna. Sta per starnutire. Flavio si prepara d’istinto, chiude gli occhi come davanti a un plotone d’esecuzione. Si prepara alle esplosioni soffiate, agli strilli belluini della suocera. Ma tutto ciò che esce dagli spasmi della donna sono dei soffi delicati e dei soffici cigolii, che ricordano l’ondeggiare di una vecchia barca ancorata a un porto.
Flavio china la testa sul piatto, ché Sandra non si accorga del suo sorriso. Il mal di testa sta passando, da solo, con largo anticipo sulle abituali tempistiche.
Davvero, va tutto bene. Davvero, come potrebbe andar meglio?
Sotto la doccia, Rebecca si sorprende dello scrosciare così attutito, cotonato. Il box di plastica di solito fa riecheggiare l’acqua con un rimbombo violento, mentre ora pare di ascoltare un temporale arginato da un tetto alto e solido. Rimane lì dentro molto più a lungo del solito; la sua pelle accoglie il raggio di spruzzi ruvidi con una sensibilità nuova, quasi che i pori siano orecchie tese verso un suono di natura diversa.
Flavio è già a letto. Si passa il dito sulla tempia, di cui sente la pulsazione gentile e regolare, sonnolenta. Quando si stende sotto le lenzuola, queste non frusciano, e sembra di immergersi in un lago fresco e placido. A un certo punto, Rebecca entra nella stanza. Il silenzio perfetto che la accompagna rende ogni suo movimento così elegante. È un’ombra stagliata sulla luce fosca del corridoio e, prima che l’ombra scompaia al chiudersi della porta, Flavio si rende conto che quell’ombra a cui è tanto abituato, è davvero, davvero bella ora che, come ci si dovrebbe aspettare da un’ombra, non fa alcun rumore.
Alessio legge. Può sfogliare le pagine con tutta la forza che vuole, sfoglia davvero le pagine con tutta la forza che può, per vedere fino a che punto il silenzio resiste. Una pagina si strappa. Nella sua testa, si leva la scossa secca e crepitante della carta lacerata. Nell’aria, non succede nulla. Con la coda dell’occhio, cerca Beatrice, che non muove un muscolo. Alessio strappa la pagina ancora, lentamente, cercando nel silenzio il crepitio che non c’è.
Beatrice respira. Il suo respiro non si sente. Respira più liberamente, convincendosi che, se il respiro non si sente, allora neppure si vede. Con la coda dell’occhio, sa che il fratello è impegnato con un libro. Ma se il libro non risuona si pagine sfogliate, allora non è letto.
«Porco» sussurra, ma è come lanciare un sasso verso un bersaglio troppo lontano. «Porco porco porco».
Se l’insulto non arriva, il bersaglio dell’insulto non è ciò che l’insulto sostiene che sia. Beatrice si calma. Respira ancora. Si gira su un fianco. Guarda Alessio, che rimane fermo e, ogni tanto, sfoglia il libro.
Guido si tappa le orecchie. Non c’è nulla che renda necessario tapparle. Il rumore troppo forte non è più un suo problema da anni, ormai, e d’ora in avanti lo sarà, se possibile, ancora meno. Si tappa le orecchie contro il silenzio, allora, col cuscino, che se te lo premi forte nei padiglioni, il cuscino pare rombare, pure se sei mezzo sordo romba col fragore del sangue delle orecchie. Questo, pensa Guido, è il suono più forte che sono in grado di sentire.
Il mattino dopo li scopre intontiti e sorpresi, ché una notte non è bastata ad abituarli alla nuova condizione, così, al loro risveglio, tutti avanzano cauti per la casa, chiedendosi insonnoliti cosa sia successo, perché tutto quel silenzio, se il mondo è finito, se c’è stato un grande blackout che però non è un blackout di luce ma di suono – e la luce non è così slegata dal suono, vero?, visto che, se ne accorgono ora, anche un impianto elettrico sa far rumore, e ora che quel ronzio tace, ora che tutti i ronzii tacciono, c’è quasi da aver paura della vastità di quel silenzio.
Poi finiscono di svegliarsi, e ricordano. Allora esplorano, come se la casa fosse loro nuova, come se qualcuno li avesse trasportati nel sonno in un luogo sconosciuto. Misurano i passi, scoprono cosa significa vestirsi senza fruscio, lavarsi i denti senza gorgoglio.
Un primo problema si presenta a colazione. Se ieri non vi avevano dato peso, è perché la novità era così assoluta da impedire le domande, ma oggi non si può fare a meno di chiedersi se d’ora in avanti a tutti loro toccherà urlare ogni conversazione, urlare anche solo per chiedere lo zucchero al proprio vicino di posto.
«Certo che magari, ai pasti, si potrebbe anche spegnere quell’affare» propone Guido, che se si tratta di parlar ad alta voce, non ha bisogno di abituarsi a una novità.
«No» dice Flavio. «Credo piuttosto che dovremo abituarci».
«Eh?»
Flavio sospira e ripete.
«Vuoi dire che questa cosa» Guido fa un giro di braccio a indicare tutto e nulla «rimarrà così? Sempre?»
«Credo che sia la cosa migliore» risponde Flavio. «Non abbiamo comprato quest’affare per stare quieti quando ho il mal di testa, capisci? L’abbiamo comprato per vivere una vita diversa».
Guido non dice nulla. Non si sa se abbia sentito o meno quel che Flavio ha detto; la sua unica reazione è tacere, e mangiare, e non alzare lo sguardo finché non ha finito la colazione, al che se ne va.
Gli altri rimangono a tavola ancora qualche minuto, in un disagio che non si può definire silenzioso soltanto perché il silenzio ormai è qualcosa che col disagio non ha nulla a che vedere. Alla fine, uno alla volta, si alzano. I piatti vengono portati via, con un tintinnio che appena si ode sotto questa coperta di cotone, e allo stesso modo è soffocato lo scorrere dell’acqua nel lavandino. Flavio aiuta di buon grado nella sparecchiatura e nel lavaggio. Quando si lavano i denti, quasi non ci si accorge che lo spazzolino sta grattando, almeno fino al momento in cui le gengive iniziano a bruciare. Quindi, con un vago timore, chi deve uscire di casa esce.
Quando esce, Flavio teme ciò che troverà oltre il portone, oltre il guscio di simil-silenzio della casa. Immagina il trauma, il tuffo solido e gelido nel suono. Scopre, non senza sorpresa, che il trauma c’è, sì, ma non è così tremendo. Senza mal di testa, i suoni del mondo esterno sono rinfrescanti, come uscire da una sauna. Quando avvia il motore dell’auto, il rombo è caldo e soffice, distinto come mai prima. Flavio non è un grande pilota, guida giusto quel che gli serve per arrivare in ufficio, e anche adesso, dopo anni di pratica, capita che una partenza in salita lo metta in difficoltà, che il gioco di freno e frizione non gli riesca e che il motore, che lui non è in grado di ascoltare, gli muoia sotto i piedi. Ma oggi sente le esigenze dell’auto prima che questa debba fare le bizze, reagisce prontamente a ogni borbottio del motore, e il viaggio fila così liscio che quasi gli dispiace smontare.
In ufficio, accade qualcosa di simile. Le voci non lo sovrastano come temeva, ma lo accompagnano allegre, è un vociare da mercato, da giorno di festa, e la testa di Flavio è sveglia e presente, e non fa male, né minaccia di farne.
Nella pausa pranzo, decide di telefonare a Soleri.
«Mi pare che l’impianto funzioni bene» il medico deduce.
«Oddio» dice Flavio, coprendosi le orecchie «ma perché urli?»
Per un istante, Soleri è perplesso; poi capisce lo scherzo e si mette a ridere.
«Ti devo un’altra cena» dice Flavio.
«Altroché se me la devi».
Rebecca è a casa. Lavora col computer nel salotto, non avendo mai avuto uno studio a disposizione in casa. Lavorare in uno spazio comune l’ha messa in grande difficoltà in un primo momento e, sebbene si sia poi abituata alla nuova condizione, non ha mai smesso di pensare, ogni volta che si sedeva al tavolo, a quanto le mancasse una stanza per lei sola: quattro pareti strette e sicure, una porta inviolabile, le voci di suo marito, dei figli, di sua madre e di suo suocero separate da lei, dal suo mondo.
Adesso le pare di aver trovato quella pace e quella sicurezza. Sa che chiunque potrebbe passare per il salotto da un momento all’altro, ma la cosa non la indispone. Le loro voci saranno uno spiffero, i loro passi non la sfioreranno. Quando Guido esce dal corridoio nel quale Rebecca l’ha visto sparire qualche ora prima, e quando lui accende la televisione, lei quasi non se ne accorge. Solo ogni tanto lancia al suocero un’occhiata da sopra lo schermo del computer, e si ricorda che per lui la loro nuova situazione potrebbe essere più dura che per chiunque altro. Allora sorride, e respira a fondo. C’è una pratica, che Rebecca ha studiato quando i mal di testa di Flavio hanno iniziato a farsi frequenti, che consiste nel trasmettere energie benefiche a qualcuno anche senza toccarlo. Così si concentra, e per un paio di minuti trasmette al suocero tutta l’energia che può, prima di ritenersi soddisfatta – Guido non ha forse una posa più rilassata, sul sofà? – e rimettersi al lavoro.
A un certo punto qualcosa le punge la coda dell’occhio. Rebecca sussulta mentre Alessio e Beatrice le passano accanto, lanciandole uno sguardo che dice Ma di che ti spaventi? Non ha sentito la porta, né i loro passi. È già l’ora del ritorno da scuola? Rebecca osserva il materiale su cui ha lavorato al computer. Sono passate ore, e lei ha svolto una quantità di lavoro esorbitante e ininterrotta, senza accorgersi del passare del tempo. Sorride ai ragazzi.
«Com’è andata a scuola?» chiede. La sua voce è un sussurro, ma i ragazzi sembrano capire, perché rispondono con l’abituale, vaga alzata di spalle.
Rebecca crede di notare qualcosa di diverso in questo gesto, che di solito comunica stanchezza e noia, mentre oggi trasmette una freschezza tutta nuova. Dai corpi dei suoi due figli emana un’energia serena.
«Cosa c’è per pranzo?» chiede Beatrice, o almeno a Rebecca pare che la domanda sia quella, e quando risponde, Beatrice annuisce contenta.
Lo sguardo di Alessio si sposta sul sofà. Rebecca segue lo sguardo e si rende conto che Guido è ancora lì, immobile. Solo, la testa del suocero è appena piegata, come se stesse cercando di scorgere i movimenti dei nipoti appena arrivati. Prima che questi possano salutarlo, lui si alza, li guarda, fa un cenno con la mano, e se ne va.
Rimangono tutti in silenzio, finché Alessio domanda:
«Cosa c’è per pranzo?»
Beatrice gli dà uno spintone, e le sue labbra formano parole che sembrano Ma sei sordo?, l’ho chiesto io un minuto fa. Alessio ricambia lo spintone, e i due iniziano a fare la lotta, finché Rebecca li separa con una risata. Anche i ragazzi ridono, cosa mica scontata, visto che i loro litigi passano così spesso dal carattere giocoso a quello del dramma immanente.
Ma non stavolta, pensa Rebecca mentre il suo sguardo corre al piccolo monolito infisso vicino al televisore. Non stavolta.
A pranzo, Sandra produce un nuovo accesso di starnuti. È lungo, estenuante e, anche se lei ha sempre fatto del proprio meglio per non darlo a vedere, doloroso. La sua gola è sempre secca, e lo sforzo la tende al limite delle membrane bronchiali, al punto che Sandra si è spesso chiesta quando arriverà il giorno in cui, portandosi il fazzoletto alla bocca, lo troverà macchiato di sangue, come se avesse una malattia d’altri tempi, una di quelle di cui si legge nei vecchi romanzi.
Sangue o non sangue, comunque, il dolore c’è, ed è per quello che ogni starnuto è accompagnato da un urlo. Quand’era piccola, sua nonna starnutiva nello stesso modo, che lei trovava fastidioso se non proprio disgustoso, e si diceva Ma com’è possibile che non faccia uno sforzo per fare meno rumore, uno starnuto è uno starnuto, mica questa tromba dell’apocalisse. Quando anche lei, decenni dopo, si è trovata nella stessa situazione, si è pentita di aver giudicato la nonna. Gli strilli sono uno sfogo essenziale, offrono la necessaria apertura alla bocca, al naso, al petto, al collo, perché questi non si strappino nel liberare l’aria.
All’inizio della sua vita nella casa di Rebecca e Flavio, quando il genero ancora non soffriva di quei suoi mal di testa, gli starnuti di Sandra erano accolti con un coro di Salute giocoso, che spesso si ripeteva, a mo’ di scherzo, a ogni starnuto, tre cinque sette volte di fila se necessario, finché l’imbarazzo di Sandra non cedeva il posto alle sue risate che si univano a quelle degli altri. Poi, man mano che i dolori di Flavio peggioravano, quest’abitudine era andata perduta: nessuno osava aggiungere altro rumore a quello, già eccessivo, già oltraggioso, degli starnuti.
Oggi, a pranzo, tra un po’ starnuto e l’altro, tra un urlo e l’altro, appena gli spasmi le danno tregua e gli occhi le consentono di vedere fra le lacrime, si accorge che sua figlia e i suoi nipoti ripetono quel rituale dimenticato, e ridono, e viene da ridere anche a lei e, con sua grande sorpresa, ridacchia anche Guido, che da quando il silenzio dell’impianto si è imposto nelle loro vite, è diventato così serio, così taciturno.
E scopre di essere lei, la prima a provare meno vergogna di quegli starnuti così necessari ma così imbarazzanti, perché sa che la sua famiglia non sente gli strilli e gli sbuffi secchi d’aria. Così, non si sente giudicata.
Più tardi, quando prende un po’ d’aria sul balcone, scopre di faticare a stare lì fuori. Sul sofà, dove stava riposando dopo pranzo, il suo respiro, che sapeva pesante e ruvido per come lo sentiva grattarle la gola e strizzarle i polmoni, era silenzioso e tanto più sopportabile. Suo balcone, dove l’azione di quella diavoleria che hanno in casa non è presente, il suo respiro si sente com’è naturale che sia, e lei non lo tollera. Le pesa in petto con doppia violenza, le lacera la gola in striscioline di carta crespa. Così torna dentro. Un po’ le spiace, perché è una bella giornata di sole, e ogni volta che prende il sole, Sandra ne sente l’odore sugli abiti e sulla pelle, come quando si stende una coperta e la si ritira solo la sera, quand’è ora di rimetterla sul letto. Ma ciò che sentono le sue orecchie ha la precedenza su quello che le dice il naso. Torna dentro, recupera la pace, respira in modo discreto.
Quando Sandra rientra e si mette sul sofà, Alessio prende il suo posto sul balcone. Si siede al tavolino di vimini, apre il libro di testo, studia. Le pagine patinate del libro sono abbacinanti di sole, l’evidenziatore giallo brucia gli occhi. Alessio non ama il sole, non ama farsi male agli occhi quando legge, la camera fresca e ombrosa sarebbe un luogo più adatto, ma c’è Beatrice, che lo inquieta.
È da ieri che la sorella si comporta in modo strano. Certo, sua sorella non si è mai comportata in modo normale, riflette Alessio. Si è mai sentito di un fratello che si fa metter sotto – sul piano fisico, almeno – dalla sorella?, una tutta dispetti e spintoni e calci e pizzicotti? Il problema è che in questa già discutibile normalità è entrato un elemento di disturbo. Beatrice, adesso, è tranquilla.
Beatrice sta seduta a fare i compiti, o sdraiata a far nulla, e questo non è da lei. Ogni tanto, dalla scrivania, Alessio girava la testa, aspettandosi di sorprendere la sorella voltata verso di lui, nell’atto di lanciargli una penna, o magari intenta a sussurrargli quegli insulti immotivati, resi silenziosi e pertanto più crudeli, dal piccolo filtro nero appeso sopra lo stipite della loro porta. E invece, pare che per Beatrice, adesso, lui non esista. E lui si è sentito inesistente, quasi che l’unica prova della sua presenza fosse, finora, il suono che emetteva. La presenza di qualcuno per il quale non esisti, qualcuno che pare fingere di non esistere quando tu ci sei, è la presenza più ingombrante.
Alessio stacca gli occhi dal libro, si stropiccia le palpebre, sotto le quali si agitano scintille arancioni e viola. Si volta verso la porta vetrata, aspettandosi di vedere Beatrice, seminascosta dallo stipite, che lo guarda e lo molesta in silenzio. Ma lei non c’è.
Quando Alessio esce dalla stanza, Beatrice tira un sospiro di sollievo. Ora che è sola – ma controlla per bene, due o tre volte di esserlo, ché con questo nuovo silenzio non sei mai sicura che qualcuno non ti sia sgusciato alle spalle di nascosto – se ne concede diversi, di sospiri, ognuno dei quali è profondo e libero, e le solleva e comprime il petto.
Al contrario del fratello, Beatrice non è una mangialibri, specie se sono quelli di scuola. Ma ora che il fratello non c’è, lei scopre il proprio sguardo attratto dalle pagine patinate, che di solito hanno quei segni tutti ordinati e neri chiamate parole, che col loro nero ordine, un ordine da scacchiera, la repellono, e che adesso invece la affascinano. Si gode quella concentrazione nuova e leggera, scopre come sia facile capire le frasi e i concetti. Passano minuti, mezzore, ore, e solo appena Beatrice si concede una pausa, si interroga su questa stranezza, e capisce che si tratta di noia. Non ha nulla da fare, nessuno su cui sfogarsi. Sospira di nuovo, e si butta sul letto. Anche il letto è noioso, così torna alla scrivania e riprende a studiare.
A un certo punto si gira verso la porta, convinta che Alessio sia lì, che la spia. E difatti un’ombra c’è, seminascosta dallo stipite. Ma non è Alessio: è suo nonno, che la guarda con l’unico occhio visibile nel mezzoviso che non scompare dietro la porta.
Si guardano senza dir nulla per un po’, prima che Beatrice, cercando di essere calma e gentile, chieda al nonno:
«Beh? Serve qualcosa?»
Al che Guido, come colto soprappensiero, sussulta un po’, e dice:
«Eh?»
Beatrice sorride, cercando di rendere questo sorriso rassicurante. Quindi inizia a muovere le labbra senza emettere un suono, godendosi la frustrazione che cresce sul viso di quel vecchio spione per colpa del quale lei deve dividere la stanza con quel porco del fratello, quel vecchio che pare perdere una rotella dopo l’altra da quando l’impianto è stato installato in casa; l’unico, fra tutti i silenziosi membri della loro famiglia, a saper rendere il silenzio tanto pesante e stantio.
Non sa se Guido si sia accorto che si sta prendendo gioco di lui; capisce solo che, quando la frustrazione del vecchio è insopportabile, quello se ne va, sparendo del tutto dietro lo stipite.
E io che mi lamentavo di Alessio, pensa Beatrice, e ride in silenzio.
Ogni tanto, Flavio si diverte a giocare con Anecho. Tira fuori il libretto delle istruzioni dalla bella scatola nera che il tecnico gli ha lasciato, ed esplora le opzioni. Alza e abbassa il silenzio, calibra le gradazioni nelle varie stanze, sfida se stesso a resettare il sistema e a ripristinarlo, per vedere se è capace.
La prima volta lo prende il panico, perché il suono torna nella casa, e lui si sente frastornato, davvero la sua tempia pulsa così forte, davvero i passi rimbombano tanto? Beatrice certo non migliora la situazione, quando corre da lui, paonazza, e gli dice Ma che stai facendo, non combinare casini papà, rimetti tutto a posto subito, e lui si affanna, con la tempia che ticchetta come una bomba a orologeria, le mani che sudano sulla superficie dell’impianto, rendendo le sue dita troppo scivolose per funzionare bene. Alla fine riesce a calmarsi; si concentra, ritrova il controllo, sente le lievi vibrazioni che corrono dall’impianto fin dentro ai suoi polpastrelli, e sistema tutto. Beatrice lo lascia con un sospiro inaudibile, al che si concede di sospirare anche lui, non di esasperazione ma di sollievo. E, perché no?, pure di trionfo. È il padrone del suono e del silenzio, lui, padrone dei propri mal di testa – ne ha appena sventato uno, che già lo minacciava nel momento in cui il suono era tornato – e, insomma, è padrone della casa, che del silenzio è il nido.
Sfoglia il libretto, che pare antiquato in un modo talmente rassicurante, nel suo essere cartaceo rispetto alla tecnologia incredibile dell’impianto, e scopre una funzione che non ricorda il tecnico avesse spiegato.
Silenzio intelligente!, dice il libretto. Ovvero, silenzio selettivo; ovvero, silenzio calibrato su una singola persona.
Allora, Flavio riprende il gioco. Stando attento a non disturbare il silenzio generale, inizia a parlare da solo, ascoltando la propria voce come un fonico che prova un microfono. Nel frattempo segue le istruzioni del libretto, muove il dito indice a sinistra, apre le impostazioni personalizzate. Trova se stesso e il proprio volume. Prova prova sa sa prova, dice, e nel frattempo massaggia la superficie liscia del piccolo monolito. La sua voce cala, scompare. Flavio sorride. Continua a massaggiare e a dire Sa sa prova, e la sua voce si alza, fino al punto in cui ne ha paura e la riaggiusta, indicativamente, al livello abituale.
Che opzione interessante, pensa Flavio, anche se ancora non immagina come sfruttare questa nuova potenzialità in modo utile. Poi, sentendo un impulso dispettoso e diffidente, ripone il libretto nella valigia, che torna a nascondere nel cassetto da cui l’ha presa.
«Non mi dire che hai ancora mal di testa» dice Soleri.
«Ce l’ho» ammette Flavio. «Però è il primo dopo giorni, e non è forte come quelli che avevo prima».
«Mi sa che i miracoli non esistono, eh?»
«Io non direi. Mi pare che già questo sia un miracolo».
Soleri lo guarda, e deve ammettere che un piccolo miracolo c’è stato. Giorno dopo giorno Flavio mostra un’energia maggiore, sorride più spesso, le borse sotto i suoi occhi sono quasi scomparse e, sebbene ogni tanto si stropicci o massaggi ancora le tempie, Soleri ha l’impressione che si tratti più che altro di un vizio, come di qualcuno che, essendosi rasato a zero da poco, si passi ancora le mani laddove fino al giorno prima aveva un ciuffo di capelli spettinati.
Soleri lo guarda e firma controvoglia la ricetta.
«Solo perché stai facendo progressi» dice porgendo a Flavio il foglietto ornato di scritte incomprensibili. «E prendine solo in caso di emergenza. Sono più forti di quelle che prendevi prima».
«Solo quando non posso farne a meno. Un po’ come il reiki di Rebecca».
«Effetto placebo» commenta Soleri.
«Guai se ti sente a chiamare placebo quella roba» dice Flavio. Poi ci pensa su. «Anche perché quello manco come placebo, funziona».
I due uomini ridono, ma Flavio si guarda alle spalle mentre lo fa.
«Guarda che tua moglie non è mica qui» dice Soleri.
«Lo so, lo so. Ma ci credi, che adesso non sai mai quando hai qualcuno alle spalle, a casa mia? A te non capita mai di sentirti così? Spiato, come se facessi sempre qualcosa di nascosto nel silenzio?»
«Io vivo da solo» gli ricorda Soleri. «Solo, a proposito di silenzio, ogni tanto ho bisogno di spegnere l’impianto. O di uscire sul balcone e ricordarmi che il resto del mondo esiste. Ricordati di farlo anche tu, ogni tanto».
«Ho cinque persone in casa, che mi ricordano che il mondo esiste».
Soleri ride di nuovo assieme a Flavio, ma la sua risata non può negare una certa preoccupazione che sente nascergli dentro.
«Sul serio, l’impianto può diventare assuefacente. Peggio di quella roba lì» indica la scatoletta bianca e azzurra. «Fai attenzione».
«Sei tu che me l’hai consigliato» ride Flavio. «Se divento un tossico del silenzio, sarà tua responsabilità portarmi in un centro di disintossicazione».
Soleri vorrebbe protestare, ma Flavio si allontana, sempre ridendo, e dicendo cose come E quale potrebbe essere un centro di disintossicazione, per una cosa del genere? Una discoteca, un ingorgo? Buona questa, proprio buona.
Quella sera, a cena, Flavio è di cattivo umore. Il mal di testa non è passato come invece credeva, a dispetto di pastiglie o placebi e la cosa, se proprio non lo preoccupa – è un caso isolato, si dice – comunque lo indispettisce. Allo stesso modo, lo indispettisce la reazione della sua famiglia, o meglio, la non-reazione, visto che nessuno sembra notare il suo malessere. Giusto Rebecca, che gli siede accanto a tavola, gli chiede se va tutto bene e lui, sentendo la forma che prende l’aria vicino all’orecchio più che il suono delle parole, annuisce stanco. Al che sua moglie torna a concentrarsi sul proprio piatto, e lascia Flavio a se stesso, del tutto privo d’attenzione.
Mentre tutti mangiano, il fastidio di Flavio cresce, e lui si chiede da cosa dipenda. Dopo un po’, capisce che è il silenzio. Non che il silenzio in sé lo molesti: lo molesta il fatto che, senza rumori, non ha nessuno con cui prendersela: non può certo sfogarsi con la sua famiglia dicendo Perché non date attenzione al mio dolore?, mentre potrebbe, se solo ci fosse un suono degno di chiamarsi tale, prendersela con chiunque lo emetta. È ormai rassegnato all’impossibilità di sfogarsi, quando Sandra inizia a fare la pantomima che anticipa un suo accesso di starnuti.
Flavio si finge concentrato sul piatto, ma i suoi occhi seguono ogni movimento della suocera. Con la coda dell’occhio – e con un certo dispetto – nota che lo stesso vale anche per gli altri, i quali mangiano più lentamente ora, aspettando che Sandra inizi a starnutire. Seguirà il solito rituale, con tutti quei Salute, ripetuti a ogni starnuto. Ma quando la donna inizia a starnutire, nessuno dice nulla. Tutti tengono gli occhi fissi sul piatto; e tutti ostentano d’ignorarla con un certo malanimo: c’è chi ruota gli occhi dietro le palpebre socchiuse chi alza le spalle in un malcelato sospiro – solo Guido sembra tenere gli occhi bassi per pudore, più che per fastidio.
E Flavio capisce che si sono tutti assuefatti al silenzio, e che perfino quegli starnuti attutiti, da gattino, e quei gridolini quasi muti, da cardine vecchio in una stanza lontana, sono di troppo. Che il silenzio o è perfetto o non è nulla.
Si sente meno solo ora, e se non temesse di sembrare indelicato, rivolgerebbe a tutti uno sguardo di gratitudine. A un certo punto, gli occhi di Alessio incrociano i suoi, e lui legge nell’espressione del figlio l’imbarazzata richiesta di una soluzione. Anche Beatrice lo guarda, e negli occhi della figlia Flavio vede un’esasperazione che potrebbe esplodere da un momento all’altro in una scenata. E la scenata va impedita, giusto?
Così si sente più che giustificato, si sente necessario, quando si alza e va al monolito. Appoggia le dita sulla superficie nera e liscia, e inizia a tastare e massaggiare. Le sue dita lo guidano verso l’opzione silenzio intelligente, dove intelligentemente cercano i suoni di Sandra. Smanetta un po’ – sa che, alle sue spalle, tutti hanno smesso di mangiare e lo stanno guardando – ogni tanto sente alzarsi e poi abbassarsi il respiro di Rebecca, un singhiozzo di Alessio, un grugnito di Guido. Alla fine, uno starnuto si Sandra sale più forte. L’ha trovata. Ora deve affrettarsi ad abbassare il volume della suocera. Ausculta gli starnuti, li usa come metodo di misurazione. Li sente abbassarsi; li fa sparire.
Si gira verso la tavola. Tutti lo guardano sorpresi. Non sembrano esattamente approvare ciò che ha fatto – più che altro, non capiscono di preciso che cos’ha fatto – ma di certo sono sollevati. Gli sono riconoscenti anche se non vogliono darlo a vedere, e sono ammirati.
L’unica a non mostrare ammirazione è Sandra, la quale ci mette un po’ più degli altri a capire che i suoi starnuti non fanno più rumore.
Cosa le passa sul volto? Tutta una serie di smorfie, ormai abituali, che precedono e seguono ogni starnuto. Un certo imbarazzo, sembrerebbe, quando attorno a lei la famiglia ride per la comicità di quelle smorfie silenziose, da film muto, imbarazzo che prova a dissimulare ridendo anche lei – risata che, com’è logico aspettarsi, gli starnuti non rendono semplice. E… mortificazione? Quando Flavio se ne rende conto, prova vergogna, perché a pensarci un po’, non dev’essere mica bello sapere che una tua crisi respiratoria dà tanto fastidio da costringere qualcun altro a censurarla, a nasconderla.
D’altro canto, pensa Flavio, non dev’essere neppure bello sapere che stai continuando a dare fastidio agli altri, coi tuoi sputazzi e i tuoi strilli – che poi, è mai possibile che siano necessari quegli strilli?, proprio non se ne può fare a meno? – così si dice che, a ben vedere, le ha appena fatto un favore, a Sandra, la quale adesso può sputazzare e strillare come vuole senza doversi vergognare del fastidio che arreca.
Beatrice sta mimando con le labbra tutti i Salute che Sandra si era abituata a ricevere, senza però parlare, mimando il mutismo della nonna. Flavio ha un’idea: torna al monolito, cerca il volume di Beatrice e lo alza al massimo. Anche una parola solo mimata fa rumore, se lo cerchi bene, pure se non è altro che un sibilo. Così, l’ultimo sibilo di Beatrice diventa una folata di uragano.
«SALUTE»
dice una voce che è frustata, e tutti sussultano, compresa Beatrice, che arrossisce e molla un bel calcio sottobanco ad Alessio, che se la sta ridendo della grossa. Poi, guarda Flavio tutta piena di rancore, ancora color ciliegia, e abbassa gli occhi, con le sopracciglia tutte aggrottate che sembrano quelle di una statua giapponese, quelle che stanno di guardia ai templi, quelle sopracciglia a metà fra la furia e la tristezza.
Attorno al tavolo si levano ancora delle risate silenziose, soffocate presto, ché tutti hanno paura possa poi toccare a loro.
L’unico che non dice nulla né si muove è Guido, il quale guarda il figlio come se lo credesse impazzito.
Quando l’accesso di starnuti passa, Sandra sembra ancora in difficoltà. Guido le un braccio attorno alle spalle, chiedendole se va tutto bene. Dalla bocca di Sandra ovviamente non esce un suono, così Guido si volta verso Flavio e gli dice con un bisbiglio:
«Vuoi rimetterla a posto, per l’amor di dio?»
La vergogna che aveva preso Flavio pochi istanti fa torna più forte, e lui si affretta a normalizzare il volume di Sandra. Guido strofina la schiena della consuocera, che scuote la testa come a dire Va tutto bene, tranquilla. Poi le porge un bicchier d’acqua, che questa beve a fatica, con sorsi che sono più che altro gargarismi – e i gargarismi urtano non poco Flavio, a cui viene voglia di silenziare di nuovo la donna, salvo poi vergognarsi di questo pensiero.
«Che stanchezza» Sandra si sforza di sorridere. «Sarà meglio che mi stenda un po’».
Rebecca, che ha osservato la scena senza dire o fare nulla, sembra infine trovare la forza di dire:
«Ti accompagno».
Ma Guido si è già alzato, e le dice:
«Vado io. Tu resta pure qui con tuo marito. Sia mai che, col mal di testa che ha, abbia bisogno di qualcosa».
Flavio vorrebbe sprofondare, ma non capisce, in fondo, che cosa lo metta tanto a disagio. Mica è colpa sua se l’attacco di Sandra era così forte, stasera. Così lancia un’occhiataccia al padre e scrolla le spalle. Quindi si rimette a tavola, dove tutti tengono gli occhi bassi. Gli pare che tutti ce l’abbiano con lui, e la cosa gli pare talmente ingiusta che vorrebbe urlare, ma urlare gli farebbe peggiorare il mal di testa, e se ora iniziasse a spremersi le tempie mostrando tutto il dolore che prova, non ci sarebbe nessuno a stargli vicino e consolarlo.
Quando Rebecca va a trovare Sandra, trova Guido seduto al suo capezzale.
Non è la prima volta che questo accade, e stavolta come tutte le altre, Sandra prova emozioni contrastanti. Sente gratitudine, certo, per il suocero che fa sentir meno sola sua madre, e una certa tenerezza per quei due vecchi che hanno trovato una tale intesa in mezzo a persone che, pur facendo parte di una stessa famiglia, è inutile negarlo, sono così diverse da loro.
Ma prova anche un certo fastidio, perché ha spesso avuto l’impressione che il suocero dimostri una certa possessività nei confronti di Sandra. Una sera di un paio d’anni prima, quando la loro convivenza era ancora fresca, Rebecca aveva visitato la madre nella sua stanza, come adesso, per darle sollievo. Il reiki era ancora una cosa nuova per lei che, entusiasta come tutte le persone che si sono affacciate su una nuova realtà, non cercava che pretesti per condividerla con gli altri. Quando Guido l’aveva vista entrare, le aveva detto:
«Tua madre è stanca. Deve riposare».
Rebecca non ricorda che cosa gli avesse risposto, ma nella sua testa crede che le parole che aveva usato fossero una perifrasi addolcita per il concetto È mia madre, so benissimo che è stanca, tu che cosa ci fai qui invece?
«Cosa stai facendo?» le aveva chiesto Guido, quando lei aveva chiuso gli occhi e imposto le mani su Sandra; al che lei, scioccamente, si era lasciata prendere dall’entusiasmo e si era dilungata in una meticolosa spiegazione circa le antiche pratiche relative al reiki e le loro prerogative benefiche e che insomma, lei ora stava cercando di portare qualche beneficio a sua madre.
A quel punto, Guido non aveva detto nulla. Aveva annuito – ma come si annuisce davanti ai matti! – e aveva fatto per uscire.
«Lasciala riposare» aveva consigliato ancora, e poi se n’era andato, senza dire ciao né buona notte.
Rebecca si era infuriata tanto che ogni sua emozione negativa si era trasmessa alla madre, la quale il giorno dopo aveva la febbre alta e respirava con un grattare di catarro che sembrava il rombo di una motosega. È difficile pensare che tra due persone si possa creare della distanza per una ragione simile; ma è stupido pensare che non possa succedere.
Anche adesso Guido la sta guardando mentre lei entra nella camera di sua madre. Stavolta però non le dice nulla, forse perché parlare è così difficile per lui. Rebecca è grata all’impianto per il silenzio del suocero, ma rendendosi conto che è una cosa brutta da pensare, cerca di trasferire questa gratitudine al suocero stesso, alla sua scelta di non parlare. Ma anche se Guido non parla, la guarda. E nel suo sguardo Rebecca scorge un rimprovero, rivolto non al disturbo del riposo di Sandra, ma a ciò che ha portato Sandra ad aver bisogno di riposare. Rebecca non affronta questo sguardo, perché farlo comporterebbe un litigio che non ha voglia di affrontare. Non è colpa mia, se mia madre sta così male stasera, direbbe a Guido, e non è colpa di Flavio. È successo, e basta. Ma sa che forse non è vero: ha notato anche lei la mortificazione sul viso della madre, mentre starnutiva in silenzio, e riceveva quei Salute che come non mai sapevano di scherno.
Vorrebbe che Guido se ne andasse e la lasciasse fare quel che deve perché, sebbene Rebecca non si vergogni di quelle che al suocero – e al resto della sua famiglia – devono sembrare fantasticherie da credulona, si trova comunque a disagio nel mettere a punto le sue pratiche davanti a qualcuno che la guarda come se fosse una pazza. Vorrebbe allora lasciar perdere, tornare magari quando Guido non ci sarà più, ma sa che in questo caso lui la crederebbe poco salda nelle sue convinzioni, l’accuserebbe, con un silenzio ancor più pesante, di fregarsene della madre. Così si fa forza, scavalca Guido, il quale non si sposta da dove si è piantato, e impone le mani sulla madre.
Prima di chiudere gli occhi, vede che Sandra apre i propri, dapprima confusa nello scorgere la figlia sopra di sé, ma poi sorridendo dolce e grata. Tanto basta a Rebecca per mettere da parte ogni ripensamento, e restare.
Quando, dopo qualche minuto o forse una mezz’ora, riapre gli occhi, Sandra sta dormendo pacifica, e Guido è ancora lì, seduto come prima, e la sta guardando con lo sguardo di prima.
Beatrice esce dalla stanza e cammina. Lungo il corridoio dove si trovano la sua stanza da letto e quelle dei nonni; entra in bagno senza averne bisogno, e rimane lì. Dal lucernario entra un trapezio di luce azzurrina, che taglia con precisione una porzione del pavimento, lasciando tutto il resto nero. Lei si mette in mezzo al trapezio, e osserva allo specchio come il suo corpo, contenuto a fatica dalla lama di luce, sia privo di braccia. Ricorda una statua greca, e questo pensiero la fa sorridere, fino a che la vista della statua che le sorride dallo specchio la inquieta. Esce dal bagno e attraversa il corridoio in senso opposto.
Ha preso l’abitudine di queste piccole passeggiate notturne nel momento in cui l’impianto è diventato parte della sua vita. Il primo giorno le pareva così irreale, questo silenzio che la portava a non-sentire i propri passi nello spazio attorno a lei, in cui lei camminava come se si trovasse in fondo al mare o su un satellite distante, che la notte, avvolta in un lenzuolo tanto muto da poterlo credere assente, aveva sentito il bisogno di alzarsi e camminare, facendo attenzione che i suoi piedi scalzi poggiassero davvero sul pavimento, che non stessero affondando nel vuoto più totale.
Alla nuova condizione, Beatrice ci si è abituata in fretta, ma ha comunque portato avanti quest’abitudine nelle notti successive; non per necessità, ma per il puro piacere della passeggiata che, di notte, manteneva il gusto irreale di un sogno, almeno così lei credeva, fino a che si è resa conto che se usciva dalla stanza era davvero per necessità: la necessità di allontanarsi da Alessio, quel sacco gonfio nella penombra del letto all’angolo opposto della stanza. Alessio sa riempire il silenzio con un silenzio ancora più denso, un po’ come fa nonno Guido. Però nonno Guido, pensa Beatrice, è mezzosordo, ormai sordo del tutto da quando Flavio ha portato in casa l’impianto, per cui il silenzio è una cosa che ci si può pure aspettare da lui. Il silenzio che emana da Alessio, invece, è qualcosa di totalmente inspiegabile, soprattutto perché Beatrice ha questa sensazione solo quando lei e il fratello sono da soli.
A scuola, le pare di essere lei, quella che emana silenzio. Le pare che in classe e nei corridoi tutti la guardino strano, come se percepissero in lei qualcosa di diverso. O magari l’hanno sempre guardata così, ma lei se ne accorge solo ora, perché il frastuono che la circonda appena esce di casa la rende più suscettibile a ciò che le accade attorno. A casa, dove tutti sono come lei, si sente a proprio agio. Ma non quando è sola con Alessio, l’unico che si porta addosso una bolla nera e muta, così diversa da quella che avvolge tutta la casa.
Attraversa il corridoio delle camere e arriva in salotto, nel quale aleggia una luce azzurrina simile a quella che penetra il bagno. Ma Beatrice sa che non è la luna, a illuminare il salotto: si affaccia cauta all’angolo d’ingresso e vede, stasera come tutte le altre da qualche giorno, la televisione accesa e Guido che vi siede di fronte. L’apparecchio è muto non a causa del monolito nero lì vicino, ma perché il nonno tiene il volume bassissimo, vicino allo zero. Beatrice non ne capisce la ragione; sa solo che ciò la inquieta, e in quei momenti il silenzio del nonno è davvero, davvero simile a quello di Alessio, il silenzio scomodo di qualcuno che non ha tutte le rotelle a posto.
Beatrice cammina alle spalle del nonno, senza neppure badare a fare silenzio, ché l’impianto rende superfluo qualunque sforzo in tal senso. Finché Guido non si gira.
Per un riflesso rapidissimo, Beatrice si acquatta dietro il divano ed evita di essere vista. Perché nascondersi, si chiede per un istante, prima di porsi la domanda più importante in quel momento, ovvero Come ha fatto suo nonno ad accorgersi di lei?
Si dice che si è trattato di un caso. Striscia oltre il divano, fino a un punto in cui potrà osservare Guido senza che lui veda lei. Il nonno è di nuovo girato verso lo schermo azzurro e muto, e Beatrice pensa che forse se l’è solo immaginata, questa cosa che il nonno si è girato verso di lei. Immaginazione o meno, comunque, non ha più voglia di stare in giro. Decide di tornare in camera, ché pure Alessio è meglio del vecchio.
Quando rientra in camera, Alessio è sempre un sacco deforme in penombra. Beatrice sa che non può sentirla, eppure cammina in punta di piedi, e quando chiude la porta della stanza lo fa piano piano, e mentre la chiude piano piano gira di continuo la testa ora verso lo stipite, dove non può fare a meno di immaginare nonno Guido che appare d’improvviso, e il letto del fratello, che teme di vedere d’improvviso sveglio e alzato, con lo sguardo rivolto verso di lei come quello del nonno poco prima.
Si gira di nuovo verso la porta, e strilla quando la sagoma di Guido attraversa il corridoio oltre la fessura dello stipite, che Beatrice si affretta a chiudere senza più alcun indugio. È più che mai grata all’impianto che quel pazzo di suo padre ha fatto installare, per il silenzio che ha coperto il suo grido e il rombo della porta che si chiude.
Corre verso il proprio letto, e ci si getta dentro, e fa aderire ogni centimetro di pelle alle lenzuola e alle coperte, dicendosi che sono lì, sono attorno a lei, addosso a lei, e nessuno può vederla tremare come si sente tremare ora, che le pare di avere la febbre.
Si copre fino al naso, e lancia un’occhiata al fagotto che è suo fratello. Non ci crede davvero, che lui dorma. Sa, o crede di sapere, che quello lì aspetta sveglio che lei se ne vada, e si gode la solitudine della stanza buia. Forse, pensa Beatrice con schifo e ilarità, Alessio si gode la stanza buia anche mentre lei è lì.
«Porco» dice alla sagoma all’angolo della stanza. «Porco» ripete a voce alta, eppure nascosta da quell’impianto che, pensa, in fondo in fondo è una benedizione.
Quando Beatrice esce, Alessio respira meglio. Ha iniziato a respirare meglio nel momento in cui Anecho è stato installato, certo, ma aveva ancora qualche timore ad alzare e abbassare il petto, temendo che il movimento attirasse l’attenzione di Beatrice. L’unica cosa a cui deve fare attenzione, ora, è lo spostamento della luce e dell’ombra quando lei rientra, unico segnale del suo arrivo nel silenzio della casa. Ma è bastata qualche notte, e Alessio ha imparato a scorgere quel movimento anche con gli occhi socchiusi.
È importante fare attenzione, specie perché Beatrice non deve vedere quel che lui fa quando lei non c’è.
C’è stato questo cambiamento, che è iniziato con l’arrivo di Anecho. Il bisogno di calcolare bene i passi all’inizio, perché senza il suono aveva a volte l’impressione di non toccare mai il pavimento. E a volte perfino indossare i vestiti era strano, perché la pelle sembrava non riconoscere il tessuto, se questo non frusciava mentre la ricopriva. Adesso le cose sono diverse, ora ad Alessio pare che la sua pelle sia ipersensibile, gli pare che i suoi pori sappiano contare uno a uno i sottilissimi fili intrecciati di una maglietta, le rughe da elefante di un paio di jeans. Ma all’inizio non era così e lui, spaventato, si era messo in testa l’idea di non avere indosso nulla. Sognava la notte di essere nudo in classe, e quando si svegliava doveva strizzare per bene il pigiama, per esser certo di indossarlo. E gli succedeva, poi, quando era davvero in classe, quasi senza rendersene conto, di strofinarsi le mani addosso. I suoi compagni ridevano e i professori si erano chiesti, e gli avevano chiesto, se non ci fosse qualcosa che non andava, se non si fosse preso i pidocchi o qualcosa del genere. Così lui aveva dovuto sforzarsi di smettere questo tic, almeno fuori dalla casa.
In casa, le cose non erano molto diverse, perché lì era Beatrice a prenderlo in giro, e c’erano i suoi genitori a preoccuparsi. Allora, Alessio aveva solo pochi momenti per sfogare quel bisogno di certezza, quella richiesta di esistenza corporea, e quei momenti si erano presentati quando Beatrice aveva iniziato ad andarsene in giro di notte.
Alessio passa la mano su ogni piega del tessuto. Lo fa diverse volte, fino a quando non è sicuro, sicuro davvero, che sia tutto lì, che il pigiama e le lenzuola gli stiano addosso. Poi, cerca con la mano il risvolto del pigiama, e si passa la mano sulla pelle, per accertarsi che anche quella sia al suo posto, che le sue mani sappiano ancora riconoscere ciò che toccano.
Quando lo faceva a scuola, ciò di cui i compagni lo accusavano tra un gridolino e una risata, era così umiliante che anche adesso si sente arrossire. Bene, pensa, se sento la mia pelle che scotta e suda sotto i vestiti, vuol dire che sento la pelle e sento i vestiti.
Se Beatrice lo avesse beccato mentre lo faceva, gli avrebbe detto cose ben peggiori. Bene, pensa Alessio, meno male che non mi ha ancora beccato.
Non fa in tempo a finire questo pensiero, che un’ombra blu-nera oscura lo spiraglio che Beatrice ha lasciato aperto.
Beatrice si comporta in modo strano, mentre entra in camera. È tutta cauta, si gira tre o quattro volte verso di lui e poi verso la porta, e a un certo punto sussulta. Qui dimentica ogni cautela, sbatte la porta e corre verso il letto. Alessio ricorda che ogni tanto, quand’erano bambini, capitava che sua sorella avesse paura di qualcosa che non esisteva, e che si fiondasse nella propria stanza, nel letto, con un’urgenza simile. Anche il modo in cui ora si nasconde sotto le coperte è simile, tutta imbacuccata fino a diventare un bozzolo.
Appena Beatrice si sistema, Alessio chiude gli occhi e si sforza di respirare con naturalezza, come se non fosse sveglio. Crede che la sorella lo stia guardando. Non può esserne certo, ma gli pare di sentire la sua voce che lo chiama, o che lo insulta, una voce come un bastone appuntito che lo pizzica. Alessio ha ancora una mano sotto il pigiama, e sente che la mano inizia a sudare. Mentre le sue dita sentono il suo stomaco, caldo e umido, le sue orecchie si riempiono dei bisbigli di Beatrice.
Da quanto tempo non cucina qualcosa? Una volta gli piaceva, gli piaceva l’idea di non essere il tipico padre di famiglia che lascia far tutto alla moglie, gli piaceva sapere che Rebecca sapesse di poter contare su di lui, e gli piaceva poter pensare di essere un uomo completo e sfaccettato. Riceveva complimenti dalla sua famiglia, tutta stupita delle sue doti – e lui fingeva di risentirsi un po’ di questo stupore, che in fondo gli faceva invece gran piacere.
Adesso i fornelli sono, se non proprio un territorio estraneo, un luogo che, non visitato da troppo tempo, lo sorprende con asperità che non ricordava e sulle quali inciampa, passaggi e cunicoli di cui non ricordava l’esistenza e che lo perdono, e lui vi arranca e incespica, come una persona che reimpara a camminare dopo un incidente debilitante.
Una padella che friggeva tutta contenta fino a un secondo fa, ora fuma e strilla, e il latte che prima si scaldava quieto, è già lì che schiuma e puzza denso dopo che Flavio ha girato lo sguardo.
Rebecca non pare mai avere di questi problemi, e sì che pure lei, come Flavio, mica ha solo la casa a cui pensare, ce l’ha pure lei un lavoro che, per quanto le porti via meno tempo – lei si risparmia l’avantindietro casa-ufficio ogni giorno – non offre a Flavio alcuna consolazione, se si tratta di constatare la disparità fra lei e lui.
Così, sporcando e bruciando, non si arrende. Non si è mai sentito tanto determinato, non da quando i mal di testa sono cominciati. C’è di che essere orgogliosi, pensa, a reimparare, a ricominciare. Riflette su tutto il tempo sprecato, e mescola più forte il cioccolato fuso che rischia di depositarsi sul fondo e bruciare. Anche Rebecca dovrà essere orgogliosa di lui, pensa.
Continua a mescolare e a sfrecciare da un fornello all’altro, da una pentola all’altra, e gli pare proprio di star facendo un gran bel lavoro nonostante l’inizio poco promettente. Poi Rebecca, spuntata chissà come alle sue spalle, lo spaventa, e la padella che Flavio tiene in mano cade a terra con un silenzioso fracasso e una ventata d’olio caldo.
Rebecca si è stupita quando ha visto Flavio ai fornelli. Non che lui fosse incapace di cucinare – forse era un po’ meno capace di quanto lui credesse, ecco tutto – o che non l’avesse mai fatto. Ma quanto tempo era passato dall’ultima volta? Così si è trovata a sorridere di pura gioia davanti al marito che spignatta, destreggiandosi in modo forse un po’ goffo, ma pieno di buone intenzioni, fra padelle e taglieri, con un dito sempre sullo schermo del telefono a controllare la ricetta.
Mentre il marito gli dà le spalle, lei si avvicina e lo abbraccia. Lui però sussulta, colto di sorpresa, inclina la padella piena di olio e cipolla, il cui contenuto si versa per buona parte sui fornelli e sul pavimento della cucina.
«Rebecca, dio santo, cosa ti»
«Scusa» gli dice lei. «Scusa, non pensavo di»
«Sai che non ti posso sentire. Ti pare una buona idea avvicinarti di soppiatto a uno che cucina?»
L’olio rimasto nella padella inizia a bruciare. Flavio si affretta a togliere la padella dal fuoco e a spegnere la fiamma.
«Non mi sono avvicinata di soppiatto» si difende Rebecca.
«Sai che non ti posso sentire».
«Ma non mi sono avvicinata di soppiatto».
«Abbastanza di soppiatto, visto che non ti ho sentita».
«Cosa dovevo fare? Mettermi a urlare? Devo annunciarmi, adesso, quando mi avvicino a te?»
«Se vedi che cucino, potrebbe essere una buona idea».
Rebecca si rende conto che stanno urlando, e questo non dipende solo dall’impeto del litigio: Flavio deve avere abbassato ancora il volume della casa. Quando gli chiede se è così, lui fa spallucce.
«Avevo bisogno di concentrarmi. Sto provando una ricetta nuova».
«Non c’era già abbastanza silenzio, per concentrarti? Non poteva bastare?»
Flavio si è chinato per pulire il pavimento. Alza verso Rebecca uno sguardo che la fa sentire stupida.
«No» le dice con semplicità.
Rebecca scrolla le spalle e fa per andarsene. Poi cambia idea e aiuta Flavio a pulire.
«Non c’è bisogno» dice Flavio.
Nonostante il marito parli con il capo chino e non più rivolto verso di lei, Rebecca sente le sue parole. Flavio non sta alzando la voce, eppure lei sente le sue parole. Appena ha finito di aiutarlo, esce sulla terrazza. La sera è quieta, il vento spira placido, eppure nelle orecchie di Rebecca si riversa una tempesta che la costringe a tornare dentro chiudendo la porta vetrata. È durato appena un attimo, ma è stato lancinante: le è sembrato che ogni stelo d’erba, ogni foglia, ogni grillo serale, le urlasse nei timpani un urlo di guerra.
Flavio è tornato a spignattare, così non si accorge della moglie che ansima con una faccia sconvolta. Questo non va bene, pensa Rebecca e, respirando a fondo, torna fuori.
Quanto tempo rimane lì? Cinque minuti al massimo, ma ogni secondo la uccide. Quando è diventata così? Come ha fatto a non accorgersi che il silenzio emanato dall’impianto aveva quell’effetto? Le sue mani si aggrappano alla ringhiera fino a sbiancare, le dita cercano di trattenerla fuori, mentre il resto del suo corpo vorrebbe soltanto rientrare dove tutto è muto. Si costringe a respirare, chiude gli occhi e incanala ogni energia in proprio possesso verso le orecchie, immagina l’energia prendere la forma di una bolla che la protegge da tutto quel frastuono.
Quando rientra, ha le lacrime agli occhi. Sa che deve tornare fuori, perché se non lo fa adesso potrebbe non riuscirci mai più. Non crede di farcela. Sa che deve trovare il modo, se non di sbarazzarsi, quantomeno di limitare l’uso dell’impianto in casa. Guarda Flavio, che cucina sereno, e sa che questa è un’impresa impossibile, rispetto alla quale tornare fuori e subire di nuovo l’assalto di tutto quel rumore è una passeggiata. Così torna fuori, dandosi il contentino del compito più facile, per dimenticare quello più difficile, quello importante.
«Va tutto bene?» gli chiede Soleri.
«Cosa c’è che non dovrebbe andare bene?» aveva risposto un giorno Flavio.
«Visiteresti il tuo medico, se andasse tutto bene?»
«…»
«Mi sembri, come posso dire, stranito» dice Soleri. «E hai, in effetti, la faccia di uno che sta poco bene».
Rimangono entrambi zitti per un po’, e Flavio spera che quel mutismo si protragga. Ma ben presto, Soleri riprende
«Con l’impianto va tutto bene?»
«A meraviglia».
«Quanto lo usi, più o meno?»
Flavio lo guarda senza capire bene la domanda. Come si fa a quantificare il lavoro dell’impianto? Soleri si riferisce forse all’intensità della frequenza, o alle aree in cui operava?
«Quanto a lungo lo tieni acceso?» specifica Soleri.
«Come sarebbe a dire, quanto a lungo?»
«Non dirmi che lo tieni acceso sempre».
Flavio non può fare a meno di ridere davanti all’espressione scioccata di Soleri.
«Non c’è niente da ridere» dice il medico. «Non hai letto le avvertenze? Oh, non dirmi che quel cialtrone che è venuto a montarti l’impianto non ti ha»
«Potrebbe essermi sfuggito qualcosa» ammette Flavio. «Ma non vedo il problema. Va tutto a meraviglia, in casa. Vorrei solo che quel silenzio durasse anche fuori».
«È questo il problema».
«Perché qui fuori c’è un rumore che»
«È questo il problema» ripete Soleri, quasi gridando.
«Dio santo, vuoi abbassare la voce?» implora Flavio.
Soleri rimane in silenzio, per poi dirgli, a voce più bassa.
«Tu hai mal di testa».
«Ma ti dico di no!»
«Tu hai mal di testa, e ti imbottisci di antidolorifici. Ecco perché hai quest’aria da rincoglionito».
Flavio scoppia a ridere. La risata diventa presto isterica, e Soleri ha l’impressione che i pazienti in sala d’attesa tacciano e bisbiglino.
«Va tutto bene» riesce a dire Flavio appena. «Non ti preoccupare».
«Mi preoccupo, perché sono io che ti ho consigliato quell’affare e che ti ho prescritto l’antidolorifico e»
Flavio si illumina.
«E io non ti ho ancora offerto la cena di ricompensa».
«I patti non erano che la cena me la offrivi solo se la cosa funzionava? E a me non pare che»
«Facciamo stasera? Oggi stacco presto e»
«Non sono sicuro che sia il caso».
«Ho ripreso a cucinare, sai? Ti rendi conto che se non mi avessi parlato dell’impianto, non avrei mai avuto la forza di cucinare?»
Soleri sbuffa.
«Allora?»
Alla fine Soleri cede e accetta l’invito, e soprattutto, come Flavio sperava, smette di fare domande.
Ora che è seduto con loro, Soleri pare pentito di avere accettato. Tra una battuta e l’altra, Flavio guarda il medico, il quale è costantemente piegato in avanti, come se volesse farsi piccolo per non attirare l’attenzione. Ci mette un po’ a capire che Soleri non si sta nascondendo: si sta concentrando. La sua posa è uguale a quella che aveva Guido, quando ancora si sforzava di ascoltare quello che gli altri dicevano. Questo dà a Flavio una certa soddisfazione: si sente superiore, nella propria capacità di sentire tutto ciò che gli accade attorno nonostante il monolito sia attivo.
A un certo punto, Rebecca fa a Soleri una domanda che questi non capisce.
«Eh?» dice l’uomo, e Flavio cerca di nascondere una risata che è impossibile nascondere. Rebecca lo guarda male, mentre Soleri sorride imbarazzato.
«È che mi ricordi mio padre» dice Flavio.
Guido, che segue la conversazione con gli occhi, si vede chiamato in causa e, assieme a Soleri, storce la bocca in un sonoro
«Eh?»
A questo punto Flavio ride forte, e Soleri lo segue perché, imbarazzo o meno, non gli sfugge certo la comicità della situazione. Ridono anche Beatrice e Alessio, e ride nonostante tutto pure Rebecca, sentendosi forse autorizzata dalla risata di Soleri.
Non ride Guido, che si sa perculato, e non ride Sandra, il cui viso tradisce un imminente attacco di starnuti.
L’allarme di Sandra tronca la risata di Flavio, il cui cambiamento d’espressione è così repentino da turbare Soleri. Poi, Flavio sorride di nuovo. Si alza, continuando a sorridere a Soleri, e va da Anecho.
«Guarda qui» mormora Flavio e, guardando ora Soleri, ora Sandra, muove le dita sul piccolo monolito nero.
Soleri lo guarda prima senza capire. Poi inizia a notare come gli starnuti di Sandra calano di tono fino a scomparire in mezzo al brusio generale, che rimane immutato.
All’inizio Soleri è stupito, quasi ammirato davanti a questa funzione dell’impianto che non ha mai sperimentato. Quasi ride davanti a Flavio, con la sua faccia da discolo che gli fa gli occhiolini. Ma quando sposta lo sguardo su Sandra e vede, attraverso le smorfie della donna, un’innegabile umiliazione, si vergogna del proprio divertimento, e sposta su Flavio uno sguardo risentito.
Flavio non pare accorgersi del sentimento di Soleri: si è messo in posa, con le mani sui fianchi, e col viso fa tutta una serie di smorfie gongolanti, portandosi ogni tanto una mano alla bocca, a dire Guarda che ho combinato.
Allora Soleri passa in rassegna il resto della tavolata. Tutti stanno ridendo apertamente o ridacchiando, tranne Sandra com’è ovvio, e Guido che, rivolto verso Flavio, scuote la testa con la bocca all’ingiù, il mento accartocciato per la disapprovazione. Anche Rebecca, nota Soleri, disapprova il comportamento del marito, ma non vuole esternare ciò che prova, credendo forse che Soleri sia divertito, e che sia proprio compito non rovinare il divertimento.
Quelli che ridono di più sono i ragazzi, apparentemente, ma anche in loro Soleri nota qualcosa di strano. Il ragazzo continua a passarsi addosso una mano, come se volesse stirarsi la maglietta, mentre la ragazza si muove a sussulti, sussulti ai quali risponde il ragazzo sussultando a propria volta. Gli sta dando dei calci sottobanco? Pare che le loro risate servano più che altro a nascondere qualsiasi cosa stiano facendo. Cos’ha che non va, questa gente?
A un certo punto, Beatrice molla ad Alessio un calcio più forte degli altri. Sotto il tavolo qualcosa – un ginocchio del ragazzo, probabilmente – sbatte contro la superficie di legno. Il bicchiere che sta di fronte al ragazzo oscilla, dondola. Cade. Quando cade a terra e si rompe, non si sente quasi nulla, se non il tintinnio di una campanella lontana, suonata chissà dove.
«Dovrei andare» dice Soleri, ma nessuno lo sente.
«Dovrei andare!» ripete più forte, e Flavio si gira verso di lui.
Flavio sorride di nuovo, e inizia a trafficare con il monolito, senza staccare gli occhi da Soleri.
«Ho un paio di cose da sistemare a casa» continua Soleri mentre si alza «per cui, sperando che non mi giudicherete maleducato, io»
Ci mette un po’ ad accorgersi che la sua voce sta svanendo. È una sensazione orribile, che inizia come un furto per diventare simile al prurito fantasma di un arto assente.
Soleri trova la forza di sorridere e salutare, per poi uscire. Appena fuori, la prima cosa che fa è parlare, come se fosse la prova di un fonico, e scopre con sollievo che la sua voce è ancora sua, e si sente un idiota per aver temuto, seppure per un solo istante, seppure inconsciamente, che la sua voce potesse essere scomparsa, quasi che il monolito l’avesse aspirata.
Quella notte Soleri dormirà male. Arrivato a casa, ha spento Anecho, che di solito tiene acceso la notte di modo che i rumori del traffico non lo disturbino. Il giorno dopo, disinstallerà l’impianto, e si abituerà a vivere senza di esso, e ne sarà felice.
Flavio guarda Beatrice e Alessio. È furibondo, cosa che i figli faticano a cogliere, tanto è insolito un simile stato d’animo in lui. L’hanno visto spesso avvilito e stanco, tutt’al più irritabile, ma incapace di dare sfogo all’ira, abbattuto com’era dai suoi eterni mal di testa. Ma adesso è diverso: Flavio è in piedi davanti a loro, li separa la tavola che i due ragazzi sono felici di avere tra loro e il padre il quale, paonazzo, potrebbe dare sfogo alla propria rabbia in modo imprevedibile.
La cosa peggiore, è che Alessio e Beatrice non sanno perché lui ce l’abbia con loro.
«Ma vi rendete conto di come vi siete comportati?»
«Come ci siamo comportati?» chiede Beatrice, che ha ancora il coraggio di fare la sfacciata.
«Credete che non vi abbia visti, mentre facevate gli idioti? Con Soleri qui? Con un ospite qui?»
«Ma non abbiamo» tenta Alessio, più timido.
«È per colpa vostra che se n’è andato. Vi rendete conto di che figura mi avete fatto fare?»
«Colpa nostra?» dice Beatrice, che si alza a propria volta «Colpa nostra? Sei tu che hai iniziato a fare l’idiota con quell’aggeggio, con la nonna, sei tu che hai»
«Ma come ti permetti di parlarmi così?» urla Flavio.
Per un lungo momento, tutto tace. È la prima volta dall’arrivo dell’impianto, che qualcuno urla, che la voce di qualcuno riesce a strappare il silenzio con tanta violenza da far male a tutti, che pare l’impianto non sia attivo.
Beatrice si rimette a sedere, ma non per questo tace. Continua a guardare il padre, rossa in viso, umida d’occhi, bofonchiando ancora che non capisce che colpa abbia lei, in tutto questo, al che Alessio parte alla carica dicendo che semmai è lui quello che non ha colpa, così Beatrice gli molla un pizzicotto così forte da farlo urlare, e questo è il secondo urlo, stasera, a forare il silenzio di Anecho.
Flavio è livido. Tutti pensano che urlerà di nuovo, ma non accade. Sospira, invece, e sorride – è il sorriso, capisce Beatrice ciò che la spaventa di più in questa situazione – e va dal monolito.
Non lo fa con l’aria di giocare, stavolta. Non si gira a guardare l’effetto che il suo giochino ha sui presenti. Smanetta solo e assorto, finché la voce di Beatrice sparisce.
La ragazza boccheggia oltraggiata, si alza di nuovo, e continua a mimare parole che non escono. Solo allora Flavio la guarda. Solo allora, Flavio ride apertamente. Beatrice scoppia a piangere, ed esce di corsa dalla cucina, diretta in camera sua su passi che vorrebbero rimbombare senza però riuscirci.
Alessio non dice nulla.
«Non dici nulla?» gli domanda Flavio.
Alessio tiene lo sguardo basso, senza rispondere.
«Non hai proprio nulla, nulla da dire?»
Alessio non ha nulla, nulla da dire.
«Dì qualcosa!» esclama Flavio.
Alessio deglutisce, alza lo sguardo, prova a dire qualcosa. Non esce niente.
Alessio guarda sconvolto il padre, che ricambia il suo sguardo con trionfale ilarità. Alessio prova quello che hanno provato Soleri e Beatrice, la violazione del furto, e l’identica umiliazione che ne consegue. Sapendo che parlare è inutile, vorrebbe tenere la bocca più ferma possibile ma, come chi ha perso un mazzo di chiavi e, pur sapendo benissimo di non averle in tasca, continua stupidamente a frugarsi nei pantaloni, apre e chiude la bocca con insistenza sempre maggiore, quasi che sperasse che, senza ragione per cui ciò debba accadere, la sua voce torni. Smette solo quando suo padre si porta il pugno chiuso alle labbra e piega di lato la testa, pernacchiando una risata. A quel punto Alessio sa di non poter più resistere, fa per nascondersi come Beatrice.
Si ferma un attimo quando Flavio torna a trafficare con il monolito. Alessio crede di essere stato graziato e si odia per il sollievo che tale speranza gli infonde. Ma le intenzioni di Flavio sono diverse.
«SE NON VI DATE UNA REGOLATA, VI REGOLO IO».
La voce di Flavio rimbomba per la casa. Non sta più urlando, il suo viso è composto e la sua voce suona calma e autorevole, ma amplificata come se stesse parlando al microfono o forse no, l’effetto non è quello artificiale di un microfono, l’effetto è quello di un gigante, di un Flavio grande come tutta la casa, come tutta la collina, un re-gigante o un dio-gigante che vaticina e comanda.
Alessio scappa senza guardarsi indietro, non solo umiliato ora, ma spaventato.
In salotto rimangono Flavio e Rebecca, e Guido e Sandra. Quest’ultima, in tutto il fracasso che si è svolto, ha continuato a starnutire e boccheggiare, con Guido che le teneva le spalle, porgendole e tratti fazzoletti e bicchieri d’acqua.
Flavio si risiede, ignorando la suocera. Sentendosi generoso come chi ha appena placato la propria ira, prima di sedersi, ha ricalibrato il volume di Sandra, che continua a starnutire delicata come un gattino.
Guido mugugna qualcosa. Flavio lo guarda.
«Eh?» dice forte, imitando la voce del padre.
Guido ignora la perculata e ripete quel che aveva detto.
«Tu sei impazzito» gli dice.
«Lo sai, vero» dice Flavio, calmo «che posso fare la stessa cosa anche a te?»
«E che cambia, se mi metti in muto o no?» chiede Guido.
Flavio deve combattere la tentazione di abbassare il capo. Si sente il viso in fiamme, e spera che gli altri non lo notino. Perché sente questa vergogna? No, si dice, non è vergogna, si sta soltanto arrabbiando di nuovo. La sua testa ne risente, la vena torna a pulsare, sì, non è vergogna ma rabbia, e va bene che loro la pensino così. Ma la pensano così davvero, lo capiscono che Flavio è arrabbiato e non in imbarazzo? Glielo deve dimostrare. Si rialza, va al monolito. Ma prima che possa smanettare, Guido se ne va.
«Ma guarda» esclama Flavio «scappi come i tuoi nipoti, scappi come un ragazzino».
Inorridisce, quando non sente la propria voce. Agendo in fretta, ha abbassato il proprio volume anziché quello del padre. Si ricalibra, si risiede. Quando lo fa, scopre di essere solo a tavola. Rebecca è già andata a riportare i piatti in cucina, e Sandra è tornata in camera sua.
Flavio, che ha passato l’intera giornata a cucinare, avrebbe voglia di piangere di fronte al disastroso risultato di tutti i suoi sforzi, questo sabotaggio nei confronti della sua fatica. E sì che pensava di aver cucinato così bene… eppure, sui piatti di tutti – compreso quello di Soleri – quando Rebecca lì ha portati in cucina, era presente una quantità vergognosa di avanzi. Forse è quello che l’ha infuriato tanto?, si chiede.
Guarda, è avanzato pure il dolce. Rebecca ha lasciato solo quello in centro al tavolo, un silenzioso rimprovero ripieno di crema e cioccolato. Flavio considera l’idea di mangiarselo da solo, di mangiarselo tutto, il che sarebbe una vendetta più che appropriata – un’altra vendetta appropriata sarebbe silenziare Rebecca, ma non osa spingersi a tanto. D’altro canto, non ha neppure fame. Allora lo lascia lì, di modo che il rimprovero rivolto a lui si ripercuota per contrappasso sulla moglie e su tutti gli altri. Se lo mangerà domani a colazione, lui da solo, davanti a loro tutti.
Si alza e fa per andare a lavarsi, ma nell’atto di alzarsi sente che qualcosa non va. La vena della sua tempia pulsa minacciosa. Prova a convincersi che se si mette a letto, passerà. Prova a convincersi che il massaggio della doccia farà passare tutto ancor prima che lui si metta a letto. Va a lavarsi allora, ma non funziona. Sente ogni singolo, ruvido raggio d’acqua massaggiarli la tempia, ma non ne ode il brusio, e senza il brusio una doccia è una doccia a metà. Potrebbe andare da Anecho e desilenziare la casa, anche solo la zona del bagno per qualche minuto, ma teme di farlo. Stasera ha lottato per dimostrare il proprio dominio sull’equilibrio della casa; cosi, da un lato sa che modificare quell’equilibrio a proprio piacimento, fosse solo per i pochi minuti di una doccia, sarebbe un’ulteriore affermazione del proprio potere; ma sente anche che con quest’equilibrio non deve giocarci troppo, o le bestie che vivono in quest’ecosistema si indispettiranno. Stasera le ha dominate, ma non le ha sconfitte. Così esce dalla doccia, si mette il pigiama, e cerca nella tasca della giacca la scatoletta bianca e blu con le pastiglie. Domani starà una meraviglia.
Mentre giace avvilito, sperando che il sonno lo colga presto e che il mattino successivo lo trovi in una condizione diversa, un baluginio gli attraversa roseo le palpebre chiuse. Alessio lo ignora, dicendosi che finalmente sta per addormentarsi e la testa gli gioca strani scherzi. Quando il baluginio persiste, lui strizza più forte le palpebre e si gira su un fianco, fronte contro la parete della stanza. Allora qualcosa lo colpisce forte sulla schiena, e lui non può più ignorare Beatrice che cerca di attirare la sua attenzione. Si gira, e vede la sorella che gli fa segnali col flash del telefonino.
Alessio muove le mani e fa una smorfia, a dirle Mica lo capisco, il morse, cosa vuoi? Al che Beatrice si alza e gli fa cenno di uscire con lei.
No, Alessio scuote forte la testa, Papà è arrabbiato nero, meglio stare buoni fino a domani.
Beatrice si picchietta un orecchio col dito, e poi boccheggia, e sbatte forte a terra un piede che non produce alcun suono. Papà non può sentirci.
Alessio si alza riluttante e segue la sorella nel corridoio. Per lui le sortite notturne sono una cosa nuova, per cui si sente goffo nella casa buia, blunera, la cui aria è come aria dello spazio o acqua di un lago, e non può che ammirare il modo in cui Beatrice si muove sicura e leggera. Non sa che Beatrice non si sente per nulla sicura e non crede di essere leggera: per lei, pur abituata a muoversi nel silenzio relativo della casa, è nuovo il silenzio totale del suo corpo censurato da Flavio, e deve calibrare ogni passo per evitare di incespicare, e soprattuto per evitare che Alessio si accorga di quanto si sta sforzando.
A un certo punto, Alessio calibra male un passo: si trova sbandato, il suo corpo è come una barca dal timone bizzoso, così finisce contro una parete del corridoio e, incapace di rigovernarsi, capitombola a terra.
Beatrice si volta. Alessio non sa come abbia fatto – non può averlo sentito, ovviamente, e non gli pare che un’ombra o un riflesso possano averlo tradito – però, nel momento in cui il suo corpo tocca terra con un tonfo che gli ricorda improvvisamente che il suo corpo è lì, Beatrice lo sta guardando contorcersi a terra.
Dapprima prova una forte umiliazione, soprattuto perché Beatrice non risparmia di mimare una sonora risata; poi, però, la sorella gli tende una mano e lo aiuta ad alzarsi, al che lui prova un affetto che non ricorda di aver mai provato per quella sorella prepotente e imprevedibile che l’ha saputo in difficoltà senza vederlo e sentirlo. E prova affetto per la pelle della mano di Beatrice, asciutta e tiepida, che lo solleva e gli ricorda con maggior grazia del pavimento cosa significhi avere un corpo che, muto, fa finta di non esistere.
Beatrice guarda Alessio in viso, il viso quasi del tutto nero nel buio della casa, e ritira la mano, che porta al viso, sollevando con due dita le narici, a imitare un maiale. Per la prima volta, Alessio ride di fronte a uno degli insulti della sorella.
Dopo il capitombolo, tutto è più facile, come imparare a nuotare dopo aver finalmente trovato il coraggio di staccarsi dal bordo. Seguendo Beatrice, arriva in cucina, dove la torta di Flavio è ancora sul tavolo, appena brillante nella notte azzurrina che entra dalla porta vetrata. Crede di capire perché Beatrice l’abbia portato lì, e scuote la testa.
No, no e poi no. Vuoi che papà ci tenga muti a vita?
Beatrice ride in silenzio, indica la torta, e fa spallucce. Vuoi che ci tenga muti a vita per questo?
Alessio si sbraccia verso la porta della stanza di papà e mamma. L’hai visto, com’era oggi. Alessio si porta un dito alla tempia e lo fa girare. È impazzito.
Beatrice scuote la testa. Va in cucina, e quando ne esce ha con sé due piatti, due forchette e un coltello. Il coltello riflette per un attimo la luce della notte prima di affondare nella torta. In quel momento Alessio scopre di non aver poi tutta questa paura, perché è come se il coltello, non emettendo rumore, affondasse nel nulla, e nulla fosse irreparabile. Solo quando la fetta si stacca e Beatrice vi riempie il primo piatto, Alessio si spaventa di nuovo e indietreggia.
Beatrice lo prende per un braccio, e con l’altro indica tutte le stanze della casa, e poi fa di nuovo spallucce. Chi lo dice che siamo stati noi?
Alessio scuote la testa e storce le labbra. E chi altro potrebbe essere stato?
Beatrice non fa nulla. Sorride e basta. Potrebbe essere stato chiunque, vuole dire. Perché chiunque, stasera, ce l’ha con papà. Porge nuovamente il piatto ad Alessio. Alessio afferra il piatto, sapendo che se la prima fetta spetta a lui non è certo per generosità: Beatrice lo sta mettendo alla prova.
In un altro momento, Alessio avrebbe sospettato di questo gesto. In un altro momento, Beatrice avrebbe escogitato qualcosa per farlo beccare con le mani nel sacco dai loro genitori. Ma stasera, qualcosa gli dice che non è così.
La torta di papà è piuttosto buona. Nonostante i suoi denti non sbattano e la sua lingua non schiocchi, la consistenza e il sapore gli si diffondono in bocca, e Alessio ha l’impressione che quella fetta di torta sia la prima cosa vera che gli sia capitata da quando l’impianto è arrivato in casa.
Beatrice, che sta a propria volta mangiando la propria fetta, si stupisce gradevolmente quando Alessio si serve di nuovo. Allora mastica più in fretta, e chiede al fratello di servire anche lei.
Quando hanno finito, lasciano la torta quasi dimezzata sul tavolo, lavano piatti e posate, e tornano in camera. Nel corridoio, Beatrice spintona Alessio, che però non cade e anzi, quando ritrova l’equilibrio spintono a a propria volta Beatrice la quale, incredula, lo spinge di nuovo, e vanno avanti così fino a quando non rientrano in camera, mezzi asfissiati da quelle risate che continuano a eruttare mute, eppure più sonore di qualunque altra risata abbiano mai emesso.
Flavio ha ripreso a fumare. È un’abitudine che con l’arrivo dei mal di testa aveva perso, forse l’unica buona conseguenza dei mal di testa, e adesso l’ha ripresa. La casa ora è argentea e nebbiosa laddove Flavio si sofferma per più di dieci minuti, e l’odore acre e stantio del tabacco bruciato è ovunque. Rebecca lo combatte come può aprendo porte e finestre, lo contrasta accendendo bastoncini di incenso nelle varie stanze, col risultato, se ne rende conto, che la casa è doppiamente nebbiosa a causa di quello scontro di fumi, doppiamente irrespirabile.
Ciò che preoccupa Rebecca, comunque, non è la puzza, ma è il brutto vizio ripreso da suo marito. La prima volta che l’aveva visto accendersi una sigaretta, dopo l’incidente della torta, le era quasi venuto un colpo.
«Flavio, ma che stai facendo? Erano mesi che non»
Ma lui non aveva sentita, o aveva finto di non sentirla. Si stava cimentando con un nuovo esperimento, una crema pasticciera che aveva bruciato o fatto impazzire due volte prima di riuscire, al terzo tentativo, a mantenerla densa e intatta. Purtroppo il profumo di vaniglia e limone era inquinato dal fumo, guasto e asfissiante come l’umore di Flavio, e Rebecca non riusciva proprio a restargli accanto. Aveva tentato di parlargli ancora, ma lui non l’ascoltava. Aveva tentato di farsi forza e rimanere lì a dargli una mano a scolare o mescolare il latte – in caso lui se lo fosse dimenticato, lei se la cavava meglio di lui ai fornelli, ma forse era proprio questo, ciò che ha portato Flavio a respingere ogni aiuto – finché aveva deciso di uscire dalla cucina e andare sul balcone.
Era uscita anche per paura di essere silenziata, ma a questo non voleva pensarci.
Le ci è voluto del tempo, prima di abituarsi agli sbalzi sonori che separano l’interno dall’esterno, simili agli sbalzi di temperatura fra un locale ben riscaldato e il gelo dell’inverno, ma vista la necessità del caso, ha insistito, e adesso può sopravvivere in entrambi gli ambienti, sentendosi una creatura in qualche modo anfibia.
Il balcone è diventato il suo mondo e il suo rifugio, dove nessun altro osa spingersi. Il che la sorprende, perché da quando Flavio ha iniziato ad ammutolire la sua famiglia in modo selettivo, solo fuori dalle mura domestiche si è ancora liberi di parlare e sentire senza restrizioni. Ma tutti gli altri preferiscono accettare l’autorità di Flavio e le conseguenti privazioni, piuttosto che stare all’aperto più di quanto sia necessario – Alessio e Rebecca devono andare a scuola, ma Guido e Sandra, pensa Rebecca con una preoccupazione che cresce ogni giorno, non escono a sentire il mondo da settimane.
Se non altro, lì fuori è libera, e quello spazio è tutto per lei. Perfino Alessio, che nei primi giorni dell’impianto aveva preso l’abitudine di uscire sul balcone a fare i compiti, ha poi smesso, e se ne sta chiuso in camera con Beatrice tutto il giorno. Almeno questa cosa li ha avvicinati, pensa Rebecca. Ma pure in questa nuova vicinanza c’è qualcosa di sbagliato e preoccupante. Qualcosa di simile è accaduto a Guido e Sandra, ma di loro Rebecca non si cruccia molto, contenta com’è che ci sia qualcuno accanto a sua madre, visto che lei proprio non ce la fa, a starle accanto, sentendo la propria presenza fuori luogo, il reiki inutile.
Si sente male, quando pensa questa cosa. Ma si dice che in questo momento ci sono così tante cose a cui pensare in casa, così tanti cambiamenti cui far fronte, e tra tutti è Flavio quello che ha più bisogno di lei. E il fatto che lui, così cocciutamente, non dia a vedere di aver bisogno di lei, è una ragione in più perché lei faccia del proprio meglio per essergli vicina. Anche se questa vicinanza è possibile soltanto a debita distanza.
Così, sul balcone, nel primo giorno da fumatore di Flavio, Rebecca aveva chiuso gli occhi e respirato a fondo, e aveva formato nella propria mente l’immagine di Flavio. Il Flavio che le si era disegnato dietro le pupille era diverso da quello che aveva appena visto davanti ai fornelli. Era il suo corpo, ma era anche un’ombra dai colori sgradevoli, un miasma marroncino e nero-petrolio, che era l’energia che Rebecca sentiva emanare dal marito in questo momento così difficile: anche lui, ne era certa, stava lottando per trovare un equilibrio nuovo nella situazione mutevole della casa, ed era per questo che il suo comportamento era tanto scostante.
Ora Rebecca figurava se stessa, figurava la propria energia, dai colori brillanti e puliti, la plasmava in una voluta e in un canale che potesse scorrere fino a Flavio, pacificandolo e purificandolo. Si sentiva così vicina a farcela, quando una folata di vento aveva risvegliato un piccolo stormo di uccelli rumorosi, che avevano sollevato una gazzarra fra le fronde di un albero. Spaventata, Rebecca aveva aperto gli occhi. Il canale di energia si era disperso e dissolto. Rebecca aveva sospirato e richiuso gli occhi. Ma adesso, ogni volta che tentava di concentrarsi, la gazzarra di poco fa le riverberava in testa, la distraeva senza rimedio.
Allora si era alzata ed era tornata in casa, chiudendo la porta vetrata. Si era seduta sul divano. Nel silenzio, avrebbe potuto aiutare meglio Flavio. Ma non aveva fatto in tempo a richiudere gli occhi, che la voce del marito l’aveva bruscamente riscossa.
«Rebecca, cosa stai facendo?»
Flavio aveva modulato la propria voce con Anecho, in modo da risuonare tonante, come la sera in cui aveva punito i ragazzi per la prima volta.
«È proprio necessario, Flavio?»
«Cosa è necessario?» le aveva lui con un sorriso finto-tonto.
Rebecca non aveva detto nulla.
«Ah, questo» aveva detto Flavio. Era andato dal monolito e aveva trafficato distrattamente. Stava ostentando il proprio controllo sull’impianto. «Ti stavo chiamando, ma non mi sentivi. Così ho pensato»
«Va bene, va bene».
«Insomma, che stavi facendo? Non dirmi che stavi cercando di lanciarmi un sortilegio».
Flavio aveva riso, facendo dei ghirigori con le dita.
«Non chiamare così quel che faccio» aveva protestato Rebecca. «Lo sai che è una cosa che prendo sul serio».
«Anche gli sciamani prendono sul serio la danza della pioggia».
«Forse hanno ragione, a prenderla sul serio».
«Loro di sicuro credono di averne, di ragione».
«Mi stai dando della sciamana?»
«Certo che no, no». Flavio si era guardato attorno. «Non mi pare che stia piovendo».
Rebecca era rimasta in silenzio per un po’.
«Sei diventato insopportabile» dice infine.
Flavio, però, le aveva già dato le spalle per tornare in cucina.
«Scusa, hai detto qualcosa? Non ti ho sentita».
Rebecca era di nuovo sul balcone, dove il frastuono del mondo esterno le pareva più gradevole delle parole del marito.
«Potresti chiudere la porta?» l’aveva raggiunta, tonante, la voce di Flavio. «Che esce tutto il silenzio».
Il mattino in cui Flavio ha scoperto il furto della torta è stato un putiferio. Lo sapevano tutti, che erano stati Beatrice e Alessio – più Beatrice che Alessio, secondo l’opinione comune – e, anche se i ragazzi non sembravano intenzionati a confessare, sarebbe bastato che gli adulti li facessero ragionare, o comunque non li coprissero, per far finire la questione in fretta, e la punizione sarebbe caduta soltanto su quei due; severa probabilmente, ma rapida e passeggera.
Guido non si aspettava che suo figlio avrebbe osato ammutolirlo. La sera prima del furto, quando Soleri era venuto a cena e Flavio aveva fatto fare a tutti loro una figura barbina davanti all’ospite, Guido l’aveva sfidato, credendo di non poter ricevere il trattamento che Flavio aveva riservato ai suoi figli. Quando ciò che non credeva possibile era invece successo, aveva provato in prima persona la sensazione umiliante del furto vocale, la condanna vergognosissima di non poter dire nulla.
«Sei già sordo» l’aveva sbeffeggiato Flavio. «Che ti cambia essere pure muto?»
In tutta onestà, la sera in cui Flavio aveva punito Alessio e Beatrice, Guido si era posto la stessa domanda. Osservando i nipoti che facevano tutte quelle facce da lesa dignità, si era detto che se – per pura ipotesi senza possibilità di applicazione pratica – gli fosse capitato lo stesso, lui mica avrebbe fatto tante storie. Lui ci era abituato, a vivere con un volume diverso rispetto a tutti gli altri, lui portava addosso ogni giorno il peso di una anormalità. Se – teoricamente – gli fosse dovuta capitare una cosa simile, lui avrebbe mostrato a tutti cosa vuol dire essere stoici e sopportare quella che era solo l’ennesima ingiustizia della vita, l’ennesimo scherzo di cattivo gusto da parte di qualcosa a cui non si comanda. Messo male com’era, che gli cambiava essere pure muto?
Guido pensa che, per spezzare una lancia in suo onore, aveva davvero fatto prova di stoicismo quando Flavio aveva preso male ciò che lui gli aveva detto e lo aveva ammutolito. Smorfie non ne aveva fatte, lui. Ma il fatto che fosse riuscito a dissimulare, non significava che non avesse provato nulla. La sua sordità è conseguenza di un processo lungo anni, talmente graduale che Guido può viverne il trauma solamente se si concede di ripensare con nostalgia ai giorni in cui la gente non doveva urlare perché lui la sentisse, e il mondo intero era musica, e non una stazione televisiva mal sintonizzata. Il suo mutismo, invece, è stato improvviso come un calcio ricevuto a tradimento, un bel calcio nelle palle che ti spreme il fiato e le lacrime, che ti chiedi come facevi ad avere tutto quel fiato in pancia e tutte quelle lacrime negli occhi, e li rivorresti indietro, ma non c’è verso. Dovrai aspettare che tornino da sé. Ma l’azione di Flavio ti portava a farti una domanda: Torneranno? Lui lascerà che tornino?
La difficoltà più grande è stata muoversi, almeno all’inizio. Non sentire i propri passi, non riconoscere il momento in cui il piede tocca terra, il suono vagamente umido della pantofola che schiaffeggia il parquet o che spreme soffice una moquette. Dopo essere stato silenziato, dopo che tutti quei suoni gli sono stati sottratti, Guido si è reso conto che non era poi tanto sordo, prima. O meglio, lo era, ma c’era tutta una gamma di suoni che, sebbene in modo più debole rispetto agli altri, era in grado di sentire: l’ansito rauco dell’aria che si incanalava nelle sue narici stanche e folte, lo schiocco di un’articolazione, il rombo del sangue nelle orecchie. Suoni di cui si è accorto solo dopo averli persi. E quanto si è maledetto davanti a quella consapevolezza, per non aver saputo apprezzare e riconoscere il mondo sonoro che si portava dentro! Da quel momento, ha smesso di guardare la televisione, ha smesso di cercare quei rumori che gli sfuggivano e che sempre gli sarebbero sfuggiti – che razza di idea, quella sorta di allenamento a cui si era sottoposto! – per dedicarsi alla ricerca di una nuova assenza. Ha dovuto reimparare a camminare.
Guido ancora non sa che anche Beatrice e Alessio si sono dovuti dedicare a un’identica ricerca d’equilibrio. E non sa – se lo sapesse sarebbe forse fiero di sé – che per lui la ricerca è più facile: essendo abituato a sentire poco, ha sempre fatto minor affidamento sulle orecchie, per bilanciarsi. Così, i suoi tentativi non sono quelli di un neonato che deve imparare tutto da zero; si tratta piuttosto della riabilitazione di chi ha subito un incidente non troppo grave, che l’ha costretto all’immobilità per un periodo tutto sommato ragionevole di tempo.
Se Guido sapesse di avere un tale vantaggio sui nipoti, probabilmente si vergognerebbe meno e si eserciterebbe di giorno. Ma, non sapendolo, si comporta con pudore e umiltà, e ha preso l’abitudine a uscire di notte.
L’incidente della torta, pensa Sandra. Hanno preso tutti a chiamare così l’episodio, con un nome altisonante e ridicolo che si passano fra loro in silenzio, quando Flavio non è nei paraggi, che pare di parlare delle Idi di Marzo, della Congiura delle Polveri o chissà che, e invece si è trattato solo di una sfuriata, una cosa che non si può neppure chiamare lite, tanto è stata unilaterale, con Flavio che tuonava e strillava e loro che dovevano ascoltare, docili docili.
Sandra è stata la più docile di tutti. Lo sa e se ne vergogna, ma la si può biasimare? Lei che è stata la prima a essere silenziata, che per prima ha subito la vergogna del furto sonoro; non per punizione o necessità, ma per scherzo. L’ha capito, la sera in cui Flavio ha silenziato i suoi starnuti, che il genero non ne aveva davvero bisogno. Voleva sfogarsi un po’ e farsi una risata, e magari non pensava neppure di farle tanto male… o magari sì?, ché Flavio sa essere proprio una carogna se vuole, com’è tipico di tutti i frignetta a cui viene concesso un minimo di sollievo da ciò che li ha fatti frignare, e ora possono far capire agli altri come si sono – poverini! – sentiti per tutto questo tempo.
Essere docile, comunque, non le è servito a molto, visto che Flavio non l’ha comunque risparmiata. Quando le ha chiesto se fosse stata lei e lei ha detto di no, quando le ha chiesto se sapeva chi poteva essere stato e lei è rimasta zitta, le ha detto:
«Visto che non parli, non ti cambia molto non parlare ancora per un po’, giusto?»
E così eccola silenziata non soltanto per lo spazio di un pasto – cosa a cui, per brutto a dirsi che sia, lei si era pure abituata – ma per lo spazio di tutto un giorno.
«Così potete riflettere sul vostro comportamento» aveva detto Flavio a tutti loro, come se fossero dei bambini discoli a cui impartire una lezione.
Guido continua a venirla a trovare. Quella prima sera, il consuocero aveva detto d’esser passato per accertarsi di come stava, come aveva già fatto tante altre volte. Lei gli aveva assicurato di star bene, ma non per questo lui se n’era andato.
«È che voglio essere sicuro che respiri» le aveva detto lui, e lei aveva annuito.
«Che non mi crepi nel sonno» aveva detto lui stringendosi la gola e strabuzzando gli occhi, e avevano riso assieme, in silenzio, finché in silenzio Sandra gli aveva detto:
«Coglione».
La cosa incredibile era come loro due riuscivano a parlare pur senza emettere un suono. Sandra si è resa conto di come avessero parlato sempre così, loro due, capendosi nonostante la sordità di Guido, non solo grazie a una mimica labiale accentuata che usano solo quando sono soli, ma anche per via di una connessione che c’è fra loro, fatta di sopracciglia, smorfie e piccole gesticolazioni che nessun altro saprebbe interpretare.
Insomma, almeno nelle conversazioni fra lei e Guido, il mutismo non ha cambiato poi molto. È per questo che, ora, quelle conversazioni sono per Sandra più importanti che mai, poiché le danno modo di alleviare una nuova solitudine grazie all’aiuto di qualcuno per cui quella solitudine non è nuova per nulla. Le piace pensare che anche Guido la pensi allo stesso modo, ma è sempre così difficile capire quel che prova Guido, se si mette in testa di nascondere qualcosa, e si può star certi che qualunque sentimento lui provi circa la propria solitudine e il sollievo alla stessa, è il genere di cosa che ben si guarda dal mostrare.
Una sera, quando Sandra si stava riprendendo da una crisi, lui le ha preso la mano. Sandra è rimasta sorpresa mica tanto dal gesto, non insolito per loro, ma dall’intensità della stretta. Era una stretta che invitava ad alzare lo sguardo e a porre una domanda.
«Facciamo un giro» le aveva detto Guido.
«Ma un giro dove?» aveva ridacchiato Sandra. «Lascia perdere, ché sono stanca».
«Un giro per la casa» aveva risposto Guido.
«Un giro per la casa. Del tipo? Una gita nel salotto? Un’escursione termale al bagno? Un grand tour del corridoio? Ma lasciami perdere, vecchio scemo».
Guido aveva sospirato, spiegandole com’era importante imparare a muoversi nel silenzio, ché quel silenzio ti storpia come un brutto incidente e se non stai attento, poi non cammini più.
Sandra aveva tentato di protestare, ribadendo la propria stanchezza ed esaltando la stupidità dei discorsi di Guido, ma questi non si era arreso, e alla fine lei aveva dovuto cedere.
Una volta fuori, le era toccato ammettere che il consuocero non aveva mica torto. Magari si tratta del buio, a cui lei non è abituata quando si tratta di camminare, ma magari è qualcos’altro, magari è davvero il silenzio che ovatta i movimenti e lì rende così innaturali, a un tempo leggeri e goffi, da non capire davvero quando il piede tocca terra e quando invece si sta affondando nell’aria.
«È strano» le aveva detto Guido «ché, da quel che dicono, se perdi un senso, poi gli altri si rinforzano, e allora se non ci senti con le orecchie dovresti essere capace di sentire meglio col resto del corpo, ogni cosa che ti passa sulla pelle e sulla carne. E invece sei tutta intorpidita, vero? Stai come me, ché ti insegno io».
Più che insegnarle, l’aveva accompagnata, badando a che non si facesse male. Sandra era rimasta sbigottita dal divario fra la sua goffaggine e l’abilità di Guido, che non si capisce se si sia allenato, o se abbia un talento. Magari dipendeva dal fatto che lui sentiva poco già prima ed è abituato.
Hanno ripetuto quelle sortite ogni notte. Nel frattempo è successo che Flavio li ha silenziati tutti, assieme o presi singolarmente, sempre più spesso, e quanto più spesso Flavio li silenziava, tanto loro si divertivano a uscire di nascosto, come bambini.
Questa sera, una come tante, mentre vagabondano verso il salotto, nascosti nell’ombra e nel silenzio come amanti clandestini, scoprono di non essere soli. Seduti al tavolo sono Alessio e Beatrice. Stagliata nella porta del corridoio opposto, come se anche lei fosse appena arrivata, c’è Rebecca.
Si guardano tutti strano, tutti che riflettono nei rispettivi sguardi un’identica colpevolezza. Finché decidono di sedersi tutti assieme, e iniziano a mimare un discorso.
Flavio non capisce che gli è pigliato, a tutti quanti. Gli pare di avere a che fare con una manica di ragazzini teppisti e imbecilli che godono nel farsi sgridare e punire. È iniziato tutto il mattino in cui ha scoperto la torta frazionata sul tavolo della cucina.
Ancora mezzo addormentato, Flavio aveva girato attorno al tavolo, con l’impressione che la torta fosse rotonda ieri, e non un ammasso di cioccolata tagliuzzato da qualcuno che non ha grande idea di come si usi un coltello, con le fette asimmetriche come le tre lancette di un orologio. Flavio si era seduto davanti al corpo vilipeso dell’ex-dolce, e aveva tentato di ragionare sul lutto che sentiva crescergli dentro. Ieri s’era arrabbiato, ma alzandosi stamane aveva scoperto che la rabbia era sopita. Quindi, perché lasciarla rinascere adesso? Il dolce era fatto per essere mangiato, e che stupida era stata la sua idea di lasciarlo fuori per tutta la notte, meno male che qualcuno aveva iniziato a mangiarlo, altrimenti chissà quanto ne andava buttato!
Ma perché farlo di nascosto?
Ecco, ecco qui quel che lo infuriava. Non l’atto, ma il pensiero alla base dello stesso, l’affronto, lo sfregio, la sfida.
Così aveva reagito male, quel giorno. Quando tutti erano arrivati a colazione, l’avevano trovato seduto al tavolo, vuoto se non per quel che Flavio si era preparato per sé. Mentre mangiava ostinato, si era sentito addosso gli sguardi di tutti, ma non li aveva guardati a propria volta prima di aver finito di mangiare. Solo allora, con la calma di un giudice in procinto di emettere una sentenza, aveva alzato gli occhi. Poi li aveva riabbassati, deciso a giocare ancora un po’ con loro, aveva portato piatto tazza posate in cucina, aveva lavato tutto. Quand’era tornato nel salotto, erano ancora tutti in piedi, fermi e fessi. Lui aveva cercato di capire dai loro sguardi e dalla loro postura chi stesse nascondendo qualcosa, poi, visto che da questi elementi gli era impossibile capire alcunché, aveva deciso di usare la logica, e la logica gli aveva suggerito che i colpevoli dovevano essere per forza Alessio e Beatrice, i piccoli, i già puniti. Aveva rimodulato il loro volume e aveva iniziato l’interrogatorio.
Quel che l’ha infuriato non è stato tanto il fatto che i figli abbiano negato ogni accusa, quello era pure prevedibile da parte di due mocciosi. Quel che l’ha infuriato è che, al momento di chiedere l’appoggio dei restanti membri della famiglia, questi si siano dimostrati del tutto omertosi.
Così, si è infuriato. E forse ha esagerato, ogni tanto ci pensa che potrebbe aver esagerato, se non nell’alzare la voce predicando e pontificando, quantomeno nell’atto che è seguito la predica e il pontificare.
È stato forse drastico silenziare tutti, ma il gesto non è stato privo di logica: se non volete parlare, allora rimanere zitti non sarà un problema.
Flavio non può negare che gli sia piaciuto. In modo agrodolce, come possono piacere solo le trasgressioni – e se silenziare i ragazzi, punire i figli, di trasgressivo non ha nulla, silenziare la propria moglie e il padre e la suocera, imporre la propria autorità sui propri pari, quello è un altro discorso. A un certo punto ha creduto di esagerare, ha temuto la rivolta, ha dubitato della solidità del proprio potere. Ma nessuno si è rivoltato, il suo potere non ha ceduto. Sono stati tutti zitti. E che altro potevano fare?
Uno dopo l’altro, erano usciti dalla cucina, diretti verso le rispettive vite. Alessio e Beatrice erano stati i più fortunati, da un certo punto di vista: fuori dalla casa, il loro mondo tornerà normale. D’altro canto, però, questa fortuna è la loro condanna: la loro libertà altro non è che un’ora d’aria, e l’ora d’aria rende la prigione ancora più insostenibile.
Da quando in qua casa loro è una prigione?, si chiede Flavio. Davvero è così che vuole condurre casa sua, d’ora in avanti?
Sono domande che durano un istante, passato il quale Flavio prova una soddisfazione truce e vendicativa. Non sono mica gli unici, loro, ad avere ore d’aria dopo le quali devono tornare in cella. Lui, ad esempio, si sta godendo la propria ora d’aria proprio adesso, e il mondo esterno è la sua cella, tutto caos e rumori stridenti, soverchianti, assordanti, il mondo è una mola che macina rumore, e lui deve andare a farsi macinare. Non sono mica gli unici, loro, che devono soffrire. La differenza fra lui e loro, è che per lui, casa è regno e pace. E non vede l’ora di tornarci. Prima di uscire, controlla che la scatoletta blu e azzurra sia nella tasca della giacca. Adesso prende qualche pastiglia anche quando non ha mal di testa, per prevenzione. Le pastiglie lo immergono in una specie di bolla che, pur non avendo nulla a che vedere con la bolla di silenzio del monolite, almeno allevia, nella sua testa, ciò che lo circonda. Prima di uscire fa anche una carezza al piccolo monolito, manca poco che gli dica Torno a casa presto. Sospira. Esce.
Rimangono tutti seduti, uno di fronte all’altra di fronte all’altro di fronte all’altra, senza sapere cosa dire, o cosa non dire, visto che per una ragione o per l’altra sono tutti silenziati.
Dall’incidente della torta, Flavio ha trovato scuse sempre nuove per silenziare ora Rebecca, ora uno dei ragazzi, ora il padre o la suocera. La cosa strana è che nessuno di loro ha trovato la cosa poi tanto strana. Flavio, senza neanche volerlo, ha preso il sopravvento su tutti loro con il suo possesso di quell’apparecchio maledetto, tramite tanti piccoli gesti in altrettante piccole circostanze che, quando c’è stato l’incidente della torta, la piega degli eventi è parsa loro quasi naturale. Qualcuno si è ribellato ed è stato punito, certo, ma tanto la ribellione quanto la punizione erano sembrate soltanto tracce di un copione da seguire. Lo stesso è valso per tutte le circostante successive, che hanno portato al silenzio ora di qualcuno, ora di qualcun altro, a turni e intervalli quasi regolari, quasi rassicuranti. Stasera, è soltanto una rara coincidenza che li riunisce tutti assieme, tutti ugualmente muti.
Forse, se non fosse per questa coincidenza, non si capirebbero. Non si verrebbero incontro a suon di sguardi e sorrisi timidi, cosette da innamorati al primo appuntamento e alle prime armi, per sciogliere il ghiaccio prima della vera e propria dichiarazione d’intenti.
Dopo un po’ i sorrisi si spengono, ché in fondo non c’è nulla di cui sorridere. A un certo punto Rebecca si alza. Qualcuno la guarda con rammarico, qualcuno addirittura con timore, perché lei è la persona più vicina a Flavio adesso, e sai mai che non voglia andare a fare la spia. Arrivano il sollievo e la vergogna, quando Rebecca ricompare nel salotto, al tavolo illuminato dalla lampada soffusa, blu e oro, con una serie di fogli e una serie di matite. Prende un foglio e scrive:
Così sarà più facile parlare.
Ha disegnato anche due punti e una parentesi, un sorriso simpatico e sghembo.
Alessio fa per dire qualcosa, fa per alzarsi anche lui, ma Beatrice lo ferma con un calcetto sottobanco. Alessio la guarda dapprima infastidito, poi capisce, più o meno. Inutile far notare che si possono usare i telefoni. Mamma lo sa benissimo, che esistono i telefoni, ma magari non lo sanno poi tanto bene nonno e nonna, e noi vogliamo “parlare” tutti sullo stesso piano, giusto?
Ci vuole un po’ prima che qualcuno raccolga l’invito di Rebecca e porti avanti la conversazione.
Sandra scrive sul suo pezzo di carta. La carta non sfoglia quando l’afferra e la matita non sibila, ma dopo qualche secondo compaiono sul foglio, alte e magre, queste parole:
Che coglionata.
Rebecca apre la bocca in una O scandalizzata, mentre Beatrice e Alessio ridono in silenzio. Anche Guido, il più cupo fra tutti loro, sorride, e Sandra abbassa lo sguardo, mezza contenta e mezza imbarazzata, come una comica che non si aspettava una reazione positiva alla propria battuta.
Ora tocca a Beatrice, che non scrive, ma disegna. Si guarda un po’ attorno prima; guarda Guido specialmente, che fino a pochi giorni prima le era parso così inquietante, davanti al televisore muto, o vagante per i corridoi in silenzio. Adesso però crede di capirlo. In un paio di minuti produce una caricatura di Flavio; il disegno, goffo ma in qualche modo accurato, ritrae il padre in una posa solenne, da dittatore, resa però ridicola da due folli rondelle spiraleggianti al posto degli occhi. Dalla sua bocca escono cubitali le lettere che formano la parola SILENZIO, e attorno a lui, provenienti da soggetti che esistono da qualche parte all’esterno del foglio, si levano palloncini vuoti e silenziosi.
Ridono tutti di nuovo. Iniziano a scambiarsi i fogli, modificandoli in una barzelletta collettiva che tutti contribuiscono a raccontare, col risultato di una serie di caricature che hanno per soggetto Flavio, sempre più grottesco e ridicolo, ora con la testa enorme, grande tre volte il corpo, ora con le orecchie spropositate di un elefante, ora con la bocca spalancata a occupargli tre quarti del volto, con tanto di ugola visibile nel buio antro che è la gola.
La barzelletta diventa una gara, il cui vincitore risulta essere Guido, la cui caricatura di Flavio – la testa troppo grande è appoggiata a terra, pendente dal collo troppo sottile simile a uno strascico di cingomma, le mani portate alle tempie e un’espressione di comica sofferenza – conquista tutti.
A un certo punto Sandra, che siede dando le spalle alla porta vetrata e perciò può vedere il corridoio, è allarmata da una luce che si accende lì dov’è la camera di Flavio e Rebecca. Fa segno agli altri di voltarsi, ed è panico, almeno finché Rebecca non corre all’interruttore della luce e il salotto diventa buio.
Un’ombra si staglia nella mezzaluce dorata. Se Flavio li scoprisse, cosa succederebbe? Flavio comunque non li scopre – doveva solo andare in bagno – e dopo un po’ la luce si spegne di nuovo e loro possono riprendere a respirare, rendendosi conto solo ora di quanto sia stato sciocco trattenere il respiro che tanto non si poteva sentire.
È così che si rendono conto anche di qualcos’altro.
Di come sia immotivata la paura nei confronti di Flavio, che ha già fatto loro tutto quel che poteva fare e non ha alcuna nuova sorta di minaccia con cui spaventarli. E di come sia, soprattutto, irragionevole avere paura di un uomo che è solo, mentre loro sono così tanti.
Ora, però, fra il riconoscere la fragilità delle proprie paure e combatterle attivamente, c’è una bella differenza. Rimanevano tre domande belle grosse. Dovremmo fare qualcosa, allora? E se sì, cosa? E quali nei cosa decideremo di fare, come la faremo?
I fogli rimangono quieti, le matite ferme. Finché Rebecca inizia a scrivere qualcosa.
È già tanto che ci siamo trovati stasera. È già un inizio. Pensiamo tutti a qualcosa e parliamone domani. Ok?
Ci riflettono un po’ e decidono che non è una cattiva idea. Si alzano uno alla volta e tornano alle rispettive stanze. Ma prima che si allontanino, Rebecca lì richiama.
Usciamo un attimo, sì?
La proposta è accolta con dubbio e timore. Rebecca apre la porta vetrata, e nel salotto entra un vento pieno d’odore di foglie e cielo, pieno di rumore. Escono tutti con passetti d’uccello, e rimangono fuori qualche istante. Rebecca si rende conto di essere l’unica a saper stare all’esterno, ormai, e si rende conto che l’idea di portare fuori gli altri non è tanto buona. Non è il momento, questo. Il momento arriverà, ma non è questo. Sono tutti troppo assuefatti al silenzio e stanchi, e non possono permettersi di stancarsi ulteriormente lottando contro l’assuefazione.
Rientrano e si congedano per davvero.
Rebecca osserva come Guido e Sandra si tengono per mano, e un po’ rimpiange di non potersi unire a loro. Osserva anche come Beatrice spintoni da dietro Alessio che la precede, finché questi si ferma in mezzo al corridoio e si carica sulle spalle la sorella, che ride e ride mentre si aggrappa al fratello.
Beatrice e Alessio erano rimasti sorpresi quando, durante l’incidente della torta, nessuno aveva fatto i loro nomi. A ben pensarci li aveva sorpresi più questo, della reazione del padre che, per quanto spropositata, era parsa tutto sommato prevedibile, adatta al personaggio che Flavio è diventato.
Beatrice ricorda di aver guardato più volte il fratello mentre Flavio strillava e sproloquiava, cercando di coglierne l’istante di debolezza che, ne era certa, avrebbe portato Alessio a cedere, blaterando qualcosa su come era stata lei a iniziare, a trascinarlo in quel crimine, lei corrotta Eva e lui corruttibile Adamo, la solita storia ripetuta a oltranza. Ma il fratello – pure di questo Beatrice si era dovuta sorprendere – non aveva ceduto, non aveva mosso un muscolo sotto l’impeto della furia paterna. E Beatrice – ennesima sorpresa di quel mattino – l’aveva addirittura ammirato.
Se Alessio avesse potuto leggere nella mente della sorella per scorgervi quel sentimento di ammirazione, avrebbe saputo di non esserselo meritato. Perché, se non aveva agito e parlato e tradito, era solo per paura. Paura del padre, che gli impediva qualunque gesto parola tradimento, e paura della sorella, che chissà cosa gli avrebbe fatto dopo. E poi c’era la vergogna: ché quando nessuno aveva parlato, nessuno fra mamma nonno nonna che nulla c’entravano con questa storia aveva ritenuto opportuno parlare per evitarsi la strigliata e la punizione, lui che poteva fare, essere la pecora nera in quel manipolo di impavidi? Ma poi, si sarebbe forse detto che, in fondo, era il risultato che contava, ché c’era da andar fieri pure di aver agito coraggiosamente per vigliaccheria.
Sono nella loro camera e fanno i compiti. Ogni tanto Beatrice alza lo sguardo su Alessio, che le dà le spalle. È da un po’ che il fratello non esce più sul terrazzo a studiare, e questo confonde Beatrice, perché avrebbe più senso che mai, adesso, se lui volesse uscire all’aria aperta quando può, nel mondo in cui la sua voce e i suoi suoni ancora gli appartengono. E invece eccolo qui, a occupare lo spazio di lei. E lei scopre che la cosa non le dispiace mica. Non è male essere prigionieri con qualcuno che condivide un destino simile al proprio. Così, a un certo punto, Beatrice si alza dal letto sul quale sfoglia pigra un libro di testo, e va a sedersi accanto alla scrivania di Alessio.
Alessio si spaventa, di uno spavento che non passa quando cessa la sorpresa del corpo silenzioso accanto al suo. È da un po’ che non sente più il bisogno di strofinarsi addosso le mani per essere certo di avere ancora un corpo, si è abituato alla propria consistenza nel silenzio. Ma adesso avverte di nuovo quell’urgenza, e deve combatterla con ogni centimetro di volontà che la sua pelle possiede.
«Porco» dice afona Beatrice, quasi gli avesse letto nel pensiero. Ma Alessio non sta guardando le sue labbra, sta con gli occhi spalancati e le labbra serrate sul libro. E Beatrice, quand’è che ha smesso di sentirsi a disagio col fratello? Quand’è che lo spazio a sua disposizione ha smesso d’essere sempre troppo poco, sempre troppo stretto come un vestito troppo piccolo di qualche taglia, così scomodo e rivelatore? Da quand’è che il bisogno di solidarietà in quel momento così strano l’ha portata a mettere da parte questo disagio?
Il ritorno di Flavio ai fornelli ha vita tutto sommato breve. Tra i tanti video di ricette e recensioni che si è divertito a guardare in questi giorni, ce n’è uno che l’ha colpito nel profondo: nel video, uno chef di fama internazionale osserva l’operato di un piccolo ristoratore brusco e nervoso finché, all’assaggiare il piatto del ristoratore, all’elencarne tutti i difetti e le carenze, lo chef dice che quel piatto difettoso e carente è il risultato che si ottiene quando si cucina in preda a cattivi sentimenti.
Lo chef usa proprio queste parole: cattivi sentimenti.
Quali sono i sentimenti di Flavio, in questi giorni? Sentimenti che l’hanno portato a produrre una bavarese liquidina e piena di grumi, acidula e dolciastra, roba che neanche i preconfezionati del supermercato.
Tra una cucchiaiata e l’altra, sempre più svogliato e avvilito, sempre più depresso dopo ogni boccone che si sforza a ingoiare giusto perché non vuole che agli altri rimanga qualcosa di questa seppur scadente bavarese, Flavio decide che i suoi giorni da cuoco sono finiti. Quando non ce la fa più, sciacqua la bavarese nel water e pulisce la cucina.
È metà mattina del suo giorno libero e la casa è deserta. A quest’ora è normale che i ragazzi siano a scuola, ma Rebecca, Guido e Sandra dovrebbero essere in casa. Sono in casa, ma chissà dove. È qualche giorno che hanno preso l’abitudine, se non proprio di nascondersi, almeno di farsi elusivi, come animali notturni. Flavio riflette su come, svegliatosi un paio di volte a notte fonda per andare in bagno, non ha trovato Rebecca al proprio fianco. Lì per lì non se n’è dato peso, ma non è forse strano? Scrolla le spalle; ha altro a cui pensare, adesso: se intende mettere da parte ogni velleità culinaria, con cosa potrà occupare il tempo?
Le riunioni notturne si susseguono regolari. Forse stare alzati fino a tardi non è l’abitudine più sana con la stanchezza al mattino che si fa sentire e le occhiaie pesanti come catenacci affissi alle palpebre, ma ognuno di loro pensa che questa è proprio una bella stanchezza. Alessio e Beatrice la paragonano a una stanchezza da gita scolastica, dopo una notte passata in veglia a fare una quieta caciara nella stanza d’albergo di qualche amico. Guido e Sandra, che di gite scolastiche non sanno molto, paragonano la sensazione alle notti insonni di scorribande amorose, e alla fine la differenza è poca.
Rebecca si domanda se non sia un comportamento da cattiva madre, il suo: lasciare che i ragazzi facciano le ore piccole e che a scuola se la vedano con quella spossatezza di cui i loro voti certo risentiranno… ma si dice che, nella situazione in cui si trovano, questa sorta di interregno, ai ragazzi e a chiunque altro farà bene perdere qualche ora di sonno a discapito delle prestazioni diurne, molto più che dormire e vivere normalmente, come se qualcosa di normale, nella loro situazione, ci fosse davvero.
Dopotutto, stanno progettando di sabotare il potere.
Anche se, a ben vedere, Progettare è un verbo troppo rigoroso per ciò che cercano di fare loro. Non hanno in mente una linea d’azione precisa e non sanno a che cosa le poche idee che hanno in testa li potranno portare. Tutto ciò che desiderano è rendere la vita difficile a Flavio, come lui la sta rendendo a loro.
Quando Flavio ha smesso di cucinare, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Non perché cucinasse male, ma perché cucinava solo per sé. E quindi, non perché il cucinare da Flavio per Flavio pesasse sulla loro fame, ma perché le facce che l’uomo faceva quando portava in tavola qualcosa, o quando andava in giro col piatto affacciandosi sulle loro stanze casualmente ma con insistenza, a recriminare l’incidente che aveva dato l’inizio a tutto, erano di un irritante, ma di un irritante, che bisognava vivere sbarrati in camera per avere un minimo di pace mentale. E se poi gli sbattevi la porta in faccia, lui ti faceva la predica a cena, quando, di nuovo, portava in tavola qualcosa su cui aveva trafficato quel mattino se aveva la giornata libera da lavoro, o la sera precedente. Senza contare che, cucinando di sera, Flavio rimaneva alzato fino a tardi, così che era lui a sabotare i suoi famigliari e le loro riunioni clandestine.
È stato, quindi, un sollievo. Solo che poi sono arrivate le piante.
Flavio era tornato un giorno con le braccia cariche di vasi strabordanti foglie verdi come smeraldi e grandi come teste di coccodrillo, che aveva depositato oltre la soglia appena aperta, dalla quale entrava non solo l’odore umido di terra e clorofilla, ma anche una brezza di suono che aveva fatto uno strano effetto a tutti. Dopo aver posato a terra i vasi, Flavio era sparito, per poi tornare con altri vasi, grandi e piccoli, con altre piante dalle foglie grandi e piccole, a forma di puntadilancia o di codadigallo, verdi e gialle, e alcune fiorite di rosso, e pistilli.
«Questa» aveva detto Flavio come a presentare una persona «è una chamadorea. E questo è uno spatifillo. Di potus – questi qui, forse il plurale è poti? – ne ho presi tre, ché il fioraio mi ha detto che sono belli resistenti e vanno bene per i principianti. Beh, anche la chamadorea e lo spatifillo sono resistenti, ma il potus è proprio bellino, vero?, così ho deciso di prenderne tre, e poi».
A quel punto, Flavio si era accorto che nessuno rispondeva e si era ricordato che erano ancora tutti muti. Così era corso spazientito – spazientito come fosse colpa loro! – al monolito, e aveva desilenziato la famiglia.
«Allora, che ve ne pare?»
Poi, visto che nessuno rispondeva, aveva detto stizzito:
«Ok, visto che non avete niente da dire, mi sa che»
Nessuno aveva voglia di parlare, e a nessuno importava davvero del proprio mutismo, a questo punto. Ci avevano fatto l’abitudine. Ma quelle parole così simili a quelle con cui Flavio li aveva silenziati in seguito all’incidente della torta, avevano acceso in loro un istintivo panico. Così si profondono in complimenti e panegirici su quanto erano belle le piante, e meno male che Flavio aveva avuto quest’idea, come avevano fatto finora a vivere in una casa così povera di verde?
Ma perché abbiamo fatto i lecchini così? avrebbe scritto Beatrice quella sera.
Nessuno avrebbe risposto, ma sui volti di tutti si sarebbe stampata, nella penombra della lampada notturna, un’identica vergogna.
Nei giorni successivi, Flavio ha portato nuove piante in casa. Ciclamini da lasciare alla finestra, orchidee in vasi pieni di ciottoli, un piccolo limone così poco adatto al clima collinare, e un ficus senza dubbio molto prestante, di notevole presenza, ma la cui altrettanto considerevole stazza, che Flavio ha deciso di piazzare a un lato della porta d’ingresso, rende la vita difficile a tutti. E guai a urtarlo, guai se anche una sola, singola adamitica foglia finisce sul pavimento!, che lì son sfuriate, con Flavio che accusa questo o quella di volergli sabotare pure questa cosa qui, questa sua nuova passione, come gli hanno sabotato quella per la cucina. Obiezione insensata, alla quale nessuno si sogna però di protestare.
A dire il vero, Flavio non usa la parola Passione. Raison d’ètre, dice lui, che orfano delle velleità culinarie e non pago delle piante come compensazione alla perdita, ha deciso di seguire delle lezioni di lingue online, specializzandosi in francese.
Il resto della famiglia pensa unanime che, fra tutte le lingue possibili, quella francese è la peggiore che potesse capitare, come una fisarmonica è il peggiore, più ammorbante strumento nelle mani di qualcuno che si è messo in testa di imparare a suonare. Non per il francese in sé – nessuno, nella famiglia, pensa di avere alcunché contro il popolo francese e la sua lingua – ma perché in bocca a Flavio ogni parola si colora di una supponenza insostenibile, resa forse più fastidiosa dalla generale, male-ammessa invidia da parte di tutti per l’unico uomo in casa ad avere ancora libertà di parola ed espressione in tutte le sue forme. Così Flavio si prende cura delle piante in francese, è tutto un arroser e pruner e donner l’insecticide e parler avec les plantes est très important savez-vous, c’est bon pour eux.
Le piante non hanno nomi latini o greci o qualcosa del genere? scrive una sera Guido. Perché non impara latino o greco e ci lascia in pace?
Perché non ce la fa neanche se vuole, col latino e col greco, scrive Beatrice che il latino e il greco li studia, e giù tutti a ridere.
A un certo punto Beatrice, forse ringalluzzita dal successo della battuta, fa una faccia dispettosa, più cattiva che dispettosa a ben vedere, e si alza e si avvicina alla pianta più vicina a loro, una dracena dal sottile tronco tigrato e dalle foglie affilate che pendono in modo un po’ triste. La guarda a lungo, dall’altinbasso, poi guarda gli altri, sempre con lo stesso sorriso da diavola, e va in cucina. Torna con un bicchiere pieno d’acqua. Versa l’acqua nel vaso, dove la terra si bagna e assorbe con uno spumeggiare bruno.
Che fai, adesso gli dai una mano? scrive Alessio corrucciato.
Beatrice torna al tavolo, dà un pizzicotto muto al fratello, quindi scrive a propria volta:
Ogni quanto bisogna dare da bere alle piante?
La guardano tutti confusi, finché Sandra scrive:
Dipende dalle piante. Quando avevo il mio bel giardino, a casa mia
Ma Beatrice la interrompe, ponendo gentile la propria mano su quella della nonna.
Quanta acqua di vuole per affogare una pianta?
Nessuno risponde.
Come fai a capire se una pianta è morta affogata? scrive ancora.
Quando capiscono, sui volti di tutti ombreggiano, dapprima timidi, sorrisi malevoli come quello di Beatrice. Zampettano in cucina, ognuno si arma di un bicchiere o di una caraffa, fanno a turno per riempire il proprio recipiente, e si disperdono nella casa.
«Era un po’ che non ci vedevamo».
«…»
«Pensavo di non piacerti più».
«…»
«Era una battuta. Puoi ridere».
«Non ho tanta voglia di ridere. Non sono venuto per ridere. Sono venuto perché mi fa male la testa».
Soleri si sporge sulla poltroncina all’altro lato del tavolo che lo separa da Flavio. Il cigolio strappa a Flavio una smorfia. Soleri osserva che il suo paziente ha proprio una brutta cera, pallida al punto che si capisce perché si parli di cera quando ci si riferisce alla faccia di una persona, e gli occhi sono blu e rossi, a seconda di dove si insaccano le occhiaie e di dove Flavio li ha strofinati con le dita.
«Quindi, neanche Anecho ha funzionato. Del resto, è un aggeggio sopravvalutato. Ci credi, mi trovo molto meglio da quando me ne sono sbarazzato. Potresti considerare»
«Non è che non funziona» lo interrompe Flavio, che di disinstallare il monolito non vuole neanche sentir parlare.
«È che non può fare miracoli» dice Soleri.
«Ma ne ha fatti di miracoli» sbotta Flavio, chiudendo subito gli occhi in una smorfia di dolore.
«Ne ha fatti di miracoli» più piano, ora. «Ma ogni tanto capita ancora, e quando capita capita e io ho bisogno di qualcosa che mi faccia star meglio, quando capita».
«Ma tu perché credi che capiti ancora?» chiede Soleri.
«Non ha importanza. Dammi la ricetta».
«Abbiamo capito che non dipende dal rumore, giusto? Perché di rumore ce n’è ben poco in casa tua, giusto?»
«Ma ce n’è tanto fuori. E quello non posso evitarlo, no?»
«Ma credo, stavolta come tante altre e una volta per tutte, che la causa non sia il rumore in sé».
«La ricetta».
«È una cosa psicosomatica».
«Psicosomatica. Sei uno psicologo, tu?»
«Riconoscere una patologia psicosomatica rientra nelle mie competenze».
«Se dici che i mal di testa non dipendono dal rumore, perché mi avresti consigliato l’impianto?»
«Non ti ho consigliato l’impianto per offrirti il silenzio. Ma per offrirti la quiete».
«La ricetta».
«Non te la do, la ricetta»
«Ma non puoi»
«se non mi dici perché, secondo te, i mal di testa sono tornati, forti e frequenti».
«Non ho detto che siano forti o frequenti».
«Allora non ha senso che ti dia la ricetta».
Soleri fa dondolare davanti al naso di Flavio la scatoletta bianca e blu vuota che Flavio ha portato. Flavio bestemmia fra sé. Quindi, fa a Soleri un resoconto delle ultime settimane, senza risparmiare i dettagli della sua avventura culinaria e di come i suoi famigliari gliel’abbiano boicottata
«Peccato» lo interrompe Soleri. «Promettevi bene».
e di come la sua recente esperienza botanica abbia subito una sorte simile, un destin bien triste.
«Chiedo scusa?»
«Sto imparando il francese».
«Non nel mio studio».
Flavio sospira e, cercando di evitare i francesismi, racconta con dolcezza e con una tristezza che sorprende Soleri delle belle piante che aveva portato in casa. Parte elencandone i nomi, finché il medico gli fa capire che con la botanica ha ancor meno pazienza che con il francese, esce dalla digressione, limitandosi a decantare la meraviglia della casa verde in ogni angolo, e colorata, e profumata, che pareva di essere dal fioraio, finché le piante hanno iniziato a morire. Una dopo l’altra, nonostante le cure che Flavio dava loro, e acqua e insetticida e cambio di terra e concime, deperivano come maledette da Dio e finivano sterminate.
«E che c’entra la tua famiglia?» chiede Soleri.
«C’entra che sono sicuro che son stati loro».
«Ad ammazzarti le piante».
«Ad ammazzarmi le piante».
«…»
«Me le affogavano di nascosto. Gli davano acqua di nascosto, in eccesso, trop d’eau»
«Per cortesia».
«Non mi credi? Guarda che li ho beccati».
«Ma va’!»
«Ho beccato mia moglie, di notte, che dava bicchierate al mio ficus, ma bicchierate su bicchierate, come si ingozza un’oca per farci il foie gras».
«Forse voleva solo darti una mano. Magari aveva visto che la pianta aveva sete, e»
«Nel cuore della notte?»
«E tu che ci facevi in giro nel cuore della notte?»
«Dovevo andare in bagno».
«Ti capita spesso di dover andare in bagno di notte?»
«Una o due volte a notte».
«È uno degli effetti collaterali» Soleri scuote la scatoletta vuota. Dentro il cartoncino, il dispenser di alluminio spoglio e stropicciato fa un suono di cartoccio.
«Lo dici solo per non darmi la ricetta».
«Lo dico per il tuo bene. Hai ripreso a fumare?»
Flavio abbassa un po’ la testa. È sempre difficile ammettere il proprio tabagismo davanti a un medico; è come trovarsi davanti a un prete nel confessionale e dover rispondere alla domanda Quando ti sei confessato l’ultima volta? Si annusa le dita.
«Si sente tanto?»
«Altro effetto collaterale».
«Torniamo al discorso delle piante?» implora Flavio.
«Dicevi che ti sabotano».
E qui Flavio riparte con furia, dicendo che anche sua moglie, quella notte, ha giustificato il proprio gesto, l’omicidio, l’assassinée, con l’intento di dar da bere a quel povero ficus così secco e stanco, ma Flavio non ci ha mica creduto, anche se in quel momento ha finto di sì. Ha perfino desilenziato Rebecca, per cercare di capire se dalla sua voce traspirasse un minimo alito di sincerità, senza però trovarne alcuna.
«Stai ancora silenziando la tua famiglia?»
Flavio nota nella voce e nella mimica del medico un certo stupore e un malcelato disgusto. Soleri ha addirittura alzato la voce in una nota stridula che ritira appena si rende conto di aver ferito la testa già dolente di Flavio. Questi sente di poter trarre vantaggio dalla reazione di Soleri.
«Certo che li sto ancora silenziando. Faccio forse male?»
«Ma direi! Ti pare normale che»
«E cos’altro devo fare? Se i miei mal di testa sono davvero psicosomatici, immagino che la causa sia in chi mi sta attorno».
«Magari al lavoro» tenta Soleri, poco convinto, senza rendersi conto di aver contraddetto quanto sostenuto poco fa.
«È la casa, il problema. La mia famiglia che mi perseguita».
«Un altro effetto collaterale potrebbe essere la paranoia…»
«E mi sa tanto che, se il mio medico mi toglie la mia principale fonte di sollievo, il silenzio della mia famiglia sarà sempre, sempre più»
«Questa» dice Soleri scuotendo la scatoletta «non è la soluzione».
«Ma mi aiuterà a guadagnare tempo e trovarla, la soluzione».
I due rimangono in silenzio per un po’. Quindi Soleri prende un pezzetto di carta, ci scrive sopra qualcosa di incomprensibile e lo porge a Flavio.
«Questa è l’ultima volta. Farai meglio a trovare una soluzione prima che sia finita. In quanto tuo medico, mi sento in dovere di consigliarti ancora una volta di visitare uno specialista che»
«Non mi fido dei tuoi specialisti».
«È l’ultima volta, Flavio».
Flavio osserva il foglietto.
«Siamo sicuri che mi hai dato la ricetta giusta? Non si capisce niente».
«Perché dovrei darti una ricetta sbagliata?»
«Ah, je ne sais pas».
«…»
«Posso usare il bagno?»
«Flavio» dice Rebecca. «Sono preoccupata».
Flavio la guarda strano, come se non capisse le sue parole, o come se non la riconoscesse. Quindi ride.
La risata può voler dire molte cose. La risata ridicolizza l’espressione di Rebecca, che quand’è preoccupata si piega un po’ su sé stessa e aggrotta le sopracciglia in due virgole capovolte e fa boccuccia col labbro superiore, in quella che è, involontariamente, la parodia di una faccia preoccupata. Ridicolizza il fatto stesso che Rebecca si preoccupi, perché Flavio sta benone, mentre è lei, Rebecca, quella che pare star male. E ridicolizza, infine, la sincerità della preoccupazione, sincerità inesistente da parte della persona che è la causa dei mali di cui ora pare così preoccupata.
La risata, Flavio se ne rende conto, gli esce male, partendo labiale e gutturale, una specie di muggito, per poi dilungarsi in un ansito acuto e raspante, simile ad alcuni starnuti di Sandra. Pensare agli starnuti di Sandra lo fa ridere ancora di più, tanto che Rebecca, dapprima offesa, sembra ora spaventata – va da sé che l’espressione spaventata strappa a Flavio un altro accesso di risa – e blatera qualcosa circa chiamare Soleri o addirittura un’ambulanza. A quel punto Flavio cerca di darsi un contegno e ferma la moglie, dicendole che non c’è bisogno, che ci sarà mai da chiamare medici e ambulanze perché uno si fa due risate?
«Ma non è perché ridi, che mi preoccupo».
«Ah! E io pensavo che fosse proprio quello, perché io posso ridere quando voglio, e tu no».
«Flavio» dice Rebecca dopo un po’. «Ma che ti succede?»
«In questi giorni mi è tornato il mal di testa».
«Fumi come un turco».
«Fumo come un turco perché mi è tornato il mal di testa».
«Non ha senso. Fumare se si ha mal di testa è»
«Voglio dire: fumo come un turco perché voi mi avete fatto tornare il mal di testa. Fumo come un turco perché voi mi avete tolto la mia cucina e le mie piante e il mio francese».
«Nessuno ti ha tolto il francese. Ti sei stancato da solo perché non sei capace».
«Però non neghi di avermi tolto il resto, eh? J’accuse!»
«Ma tu ci hai tolto la voce, Flavio!»
Rebecca, che fino a questo punto aveva parlato piano, alza finalmente la voce. Flavio si porte le mani alla testa, facendo Oi oi oi, e cerca la scatoletta bianca e blu. Rebecca capisce le sue intenzioni dal rimestare di dita compulsive nelle tasche, e afferra le mani di Flavio.
«Flavio, devi smetterla».
Flavio si divincola.
«Smettila, Flavio, mi sembri un drogato!»
Flavio emette un urlo acuto, simile anche questo, pensa, agli strilli di Sandra, e che ironia visto che sono stati quegli strilli, più di tutto il resto, quegli strilli così innocenti e indesiderati, a iniziare, se così si può dire, tutto. Strappa le mani da quelle di Rebecca, se le riporta alle tempie, pare tema che la testa gli cada, anche se lui si sente come se – magari cadesse! – le tempie, la tempia sinistra anzi, quella di sempre, la sua nemica giurata, potesse a un tempo scavargli il cranio fino a mangiargli il cervello come una termite, e scoppiargli fuori dalla testa.
Quando le fitte gli concedono un attimo di pace ma Rebecca no, Rebecca continua a parlare e cigolare come se non credesse o non capisse – parla di reiki, Rebecca, parla di stronzate che a suo avviso, se seguite bene, lo beneficerebbero più delle medicine e più dell’impianto, Quel maledetto impianto, lo chiama – Flavio trova la forza di parlare.
«Cos’è che dicevi? Che vi ho rubato la voce, io? Ma mi pare che tu parli eccome, invece».
E arranca fino al monolito, e silenzia Rebecca. Osserva la moglie mentre le parole che prendono forma nella sua bocca scompaiono come cancellate a deboli ma costanti colpi di gomma; osserva la reazione di Rebecca, cercando nella sua costernazione un po’ di sollievo, di soddisfazione truce. Ma non si sente sollevato o soddisfatto, perché la faccia di Rebecca non tradisce nulla, pare non essersi neppure accorta che la voce le è stata tolta di nuovo.
Confuso, Flavio rialza il volume della moglie, che riprende il discorso come se nulla fosse. Flavio alza e abbassa il volume più volte, gli viene il dubbio che l’impianto non stia funzionando, che forse è lui a immaginarsi di modulare la voce di lei. No, si dice, questo non è possibile, so quel che sento, è lei che per qualche ragione non se ne rende conto.
«…credo proprio che… finisci… nterai matto, Fla… capisci…»
E Flavio sorride e poi ride di nuovo, davanti a Rebecca che continua a sproloquiare impassibile, come una giornalista televisiva inconsapevole dello spettatore annoiato e dispettoso che regola il volume col telecomando.
«Mi sa che è per te, che dovresti preoccuparti» le dice. «Mi sa che sei tu che stai diventando matta. Vedi se il tuo reiki ti aiuta con questo».
Poi la lascia in silenzio, mentre lei continua a dire cose che lui non può sentire, come se potesse sentirle.
Com’è andata? scrive Guido.
Piuttosto bene, credo. risponde Rebecca. Mi pare che abbia notato qualcosa.
Adesso bisogna solo continuare. scrive Sandra.
Sono comunque preoccupata. scrive Rebecca.
Appunto, dobbiamo insistere. Secondo me così lo aiutiamo. scrive Beatrice.
Alessio non scrive nulla. Beatrice gli dà un calcio sottobanco, con gentilezza.
Lo facciamo davvero per aiutarlo? domanda infine Alessio.
Beatrice sbuffa. Rebecca accarezza il capo del figlio.
Gli stiamo dando una lezione. scrive Guido. Le lezioni aiutano.
Alessio non è del tutto convinto, così Beatrice gli molla un altro calcio, delicato come una carezza. Alessio si passa la mano destra sul braccio sinistro e poi sul petto, stropicciandosi il pigiama, uno di quei gesti che Rebecca non sa come interpretare; ha pensato che il figlio potesse avere una qualche irritazione cutanea, sebbene sulla pelle del ragazzo non fossero mai visibili i segni dell’irritazione, così ha spesso provato a incanalare su di lui qualche flusso di energie benefiche. Apparentemente senza risultato.
Passano ancora un po’ di tempo sul tavolo, scrivendo e tergiversando. A un certo punto Sandra inizia a starnutire, e tutti distolgono gli occhi in silenzio, porgendole a turno dei fazzoletti, sempre senza guardare direttamente ma indovinando con la coda dell’occhio quando la donna ha bisogno di soffiarsi il naso.
Nella casa aleggia un odore di serra trascurata, sostituitosi con stantia umidezza alla stantia freschezza floreale dei primi giorni di Flavio giardiniere. Il ficus è sopravvissuto. Non che se la passi bene, con le foglie appassite e offese e il terriccio scuro e umido come caffè usato lasciato nella moca, ma pur essendo stato la prima vittima della rappresaglia, ha resistito più di tutte le altre piante: vivo per poco ma indubbiamente, ostinatamente aggrappato alla vita in mezzo alle decine di suoi compagni di sventura morti e lasciati lì da Flavio, che non si capisce se questi non abbia voglia di gettarli o se non abbia cuore di gettarli o se intenda lasciarli lì per risentita vendetta nei confronti della famiglia. Forse aspetta che siano loro a gettare via le piante, al solo scopo di avere una scusa per attaccar briga. Loro non intendono cascarci, sebbene pure lasciare lì i cadaveri possa offrire a Flavio un pretesto per litigare. La verità è che loro aspettano che lui litighi con loro – è indispensabile per la riuscita del loro piano, che si convincono debba trattarsi di un piano di salvataggio – ma non hanno il coraggio di fare una prima mossa attiva per scatenare l’evento. Se lo facessero, pensano, forse non sarebbero del tutto nel giusto.
Flavio risparmia loro la fatica e l’attesa, comparendo in salotto.
«Che cosa state facendo?»
Pare dapprima insonnolito e confuso, come se si fosse appena svegliato. Ma si rendono conto che sta facendo finta, come se si vergognasse ad ammettere di essere sveglio già da chissà quanto, e di non averli scovati per caso. È la prima volta, del resto, che Flavio si alza di notte senza prima accendere, rivelatrice, la luce del corridoio.
«Cosa fate tutti qui fuori, a quest’ora?» chiede di nuovo.
Chissà da quanto li stava spiando, chissà da quanto aspettava il momento di fare il proprio ingresso.
«Allora è così, eh? Da quant’è che va avanti questa storia? Eh?»
Si chiedono se si sia dimenticato che non possono parlare, o se continui a fare queste domande per il puro gusto della retorica, della supremazia e del controllo.
«Quindi è così che mi avete ammazzato le piante, vero? Mentre dormivo, voi vi alzavate e, incapaci di fare del male a me, ve la siete presa con quelli che non potevano difendersi!»
Flavio va ad abbracciare il ficus, cocciutamente ritto nel suo terriccio di caffè usato. Lo abbraccia e li guarda, cercando forse nei loro volti tracce di senso di colpa o di diniego. Ma se anche sta cercando questi segni, non sembra dar loro molto peso, visto che si stacca ben presto dall’albero – una foglia, una delle poche ancora appese ai rami, si stacca e cade muta, molto più rapida di quanto ci si potrebbe aspettare, come esausta, sul pavimento – e torna a fronteggiare la sua famiglia, che come il ficus è immobile nel proprio vaso, siede di pietra attorno al tavolo.
«Non avete nulla da dire?» chiede di nuovo, e allora lo capiscono che sta facendo apposta, c’è troppa enfasi in quel Dire, troppa stortura nella smorfia dietro la quale Flavio cerca di nascondere un sorriso.
«Forse posso aiutarvi io, a dire qualcosa».
Flavio passa accanto al tavolo, osservando le teste che lo osservano girando sui colli, mentre lui si avvicina al monolito e traffica. Si gira a guardarli ancora, ogni due o tre secondi, che pare voglia dar loro un’altra possibilità di parlare, o magari si gira solo per godersi lo spettacolo di ciò che sta per accadere.
Non se ne accorgono subito. Non è come sentire il primo suono dopo anni di sordità. Per tutto questo tempo, di suoni ne hanno sentiti, solo non quelli che erano loro a produrre. Così ci vuole un po’ prima che si rendano conto dello scorrere del sangue nelle orecchie – questo è ciò che notano per primo – e poi del respiro dei loro polmoni, del fischio sordo che ha l’aria quando si fa strada nel naso. E poi la saliva rimestata in bocca e schioccante quando scende in gola, e il cigolio umido delle vertebre del collo quando il collo gira.
Non se ne accorgono subito, ma quando se ne accorgono, vorrebbero che smettesse, e lo vorrebbero così tanto da non accorgersi neppure quanto sia ridicolo tale desiderio, con tutte le volte in cui hanno invece sperato di poter parlare e sentirsi presto, il più presto possibile, che Flavio togliesse loro il peso di questo castigo, e invece adesso eccoli lì a tapparsi le orecchie inutilmente, non è il tipo di suono che si possa scacciare, questo; e a urlare e gemere per sentire solo la propria voce sopra questo insieme di rombi e ronzii e cigolii alieni, salvo rendersi conto che la propria voce è, fra tutti i rumori, quello più intollerabile. Flavio li guarda, mentre alza i loro volumi e loro si lancinano come bambini che per la prima volta aprono gli occhi e scoprono quanto tutto è abbacinante fuori dalla bolla sicura e calda e buia che li ha contenuti finora. La cacofonia di tutti quei suoni, a cui lui per primo si era disabituato, lo lacera, ma lui non smette di sorridere. Estrae dalla tasca la scatoletta bianca e blu, scarta un paio di pastiglie con un delicato crocchiare di petardo, e le ingolla. Quando si stanca dello spettacolo, torna a letto.
Sandra non fa in tempo a comprendere quanto il suono la sconvolga, che i bronchi le si stringono. Non fa in tempo ad annaspare in cerca d’aria, che il suo apparato respiratorio si ribella alla costrizione e cerca da sé il modo di liberarsi. Il naso inizia a pizzicare. Gli starnuti nascono. Lei prova a trattenerli, perché già presagisce come stavolta tutto sarà più doloroso, più terrificante di quanto non sia mai stato. Ma il suo naso è più veloce del suo pensiero, certo più veloce delle dita che arrancano troppo goffe a otturare le narici. Qualcosa esplode, e lo strillo segue raschiando e trillando nella sua gola prima che lei possa rendersene conto, risultato di un’abitudine che mai come adesso rimpiange di aver preso.
Tra uno starnuto e l’altro, trova il modo di rammaricarsi di quanto gli altri stiano soffrendo a causa sua. Si alza, arranca oltre il tavolo, fuori dal salotto, verso la propria stanza, dove sarà forse abbastanza lontana da limitare i danni. Ma prima che possa uscire, Guido le afferra il polso, e la accompagna. Lei cerca di dissuaderlo, ma lui sorride, nonostante tutto ciò che gli entra in testa attraverso le orecchie, e la scorta in camera. La aiuta a sedersi, le porge uno dopo l’altro una serie di fazzoletti che lei trivella e straccia per poi lasciare, umidi e sbrindellati, sul pavimento.
«Lascia perdere, davvero» riesce a dirgli appena ha abbastanza fiato.
«Neanche per idea» risponde Guido.
E lei si sorprende, perché nonostante il legame che c’è fra loro, la capacità di comunicazione al limite della telepatia che condividono, come fa Guido a capirla oltre il labiale nascosto dai fazzoletti, oltre la mimica del corpo distrutta dagli spasmi? Così si rende conto che Guido può sentirla. Assuefatto al silenzio più totale, per lui il volume ritrovato è ciò che per una persona normale è un normale livello sonoro. Come chi vede perfettamente al buio dopo aver tenuto gli occhi chiusi, Guido sente senza dolore e sforzo. Guido è l’unico che possa starle accanto in questo momento, e lo sa, ed è lì con lei e per lei.
«Vecchio coglione» rantola Sandra.
«Cerca di non soffocare» dice Guido.
Sandra cerca di ripetere ciò che ha appena detto, cerca di sorridere mentre lo fa, ma nuovi starnuti e ansiti glielo impediscono, e si accontenta, nell’unico gesto di gratitudine che le è possibile in questo momento, di stringere la mano di Guido, prima che il suo naso le imponga di portarsi di nuovo le mani al viso.
Il letto è assordante. Le lenzuola rombano come un mare in tempesta, e lì sotto Beatrice trema come se avesse la febbre, per quanto tremare non faccia che rendere la situazione peggiore, con ogni tremito che fruscia e gratta un rumore ispido nelle sue orecchie, il che dovrebbe indurla a smettere, o almeno tentare, ma che invece provoca altri tremiti che provocano altro rumore che provoca altri tremiti.
All’altro capo della stanza, nel suo letto, Alessio è fermo. Beatrice sa quanto questa immobilità gli costi, sa che il fratello cerca come lei di non sentirsi – e com’è invidiosa che a lui ciò riesca meglio, che almeno lui non tremi – e crede lui cerchi di non farsi sentire, per non darle fastidio. Questo pensiero la fa sentire commossa e sola. Quel che Beatrice non sa è che lo sforzo maggiore del fratello, almeno all’inizio, è la soppressione dell’istinto di toccarsi, di passarsi addosso la mano e sentire la propria pelle, sentire tutto come le sue orecchie sentono ora, di tutto, fin troppo.
Alessio nota come la sua mano, senza che lui se ne renda conto, prima tesa accanto al suo corpo, si è già sollevata e posata sul suo corpo. Ma che razza di vizio gli è preso, questo tic capriccioso in balia del suono? Si maledice, trattiene il respiro. Cosa penserà Beatrice, ora che può sentirlo? Lo deriderà come lo hanno deriso per giorni i suoi compagni di classe? O magari ne sarà disgustata, riprenderà la tiritera dei suoi Porco, porco, riprenderanno i pizzicotti dati con intento malevolo, i calci sferrati con autentica violenza? Terminerà la tregua, si spezzerà quella vicinanza tra fratello e sorella che, per Alessio, è stata così simile alla parola Felicità, quanto più simile alla felicità ricordi di aver mai provato in quella casa?
Alessio non sa che Beatrice non può sentirlo. Come lui, anche lei è talmente presa dai propri, di rumori, e dalle proprie preoccupazioni circa quanto i rumori la rendano vulnerabile, che se Alessio si mettesse a picchiare la testa al muro, lei neanche se ne accorgerebbe. E Alessio non sa che quel periodo che lui definisce di tregua, è stato felice anche per la sorella.
Così sono entrambi confusi quando, a un tempo, si alzano e si trovano, in piedi, al centro della stanza. Adesso sì che si odono a vicenda, una di fronte all’altro. Il respiro di lei leggermente più dolce, quello di lui roco com’è roca la sua voce.
«Che fai in piedi?» sussurra Alessio.
Ovviamente un sussurro è un tuono al quale entrambi trasalgono, e Alessio non ricordava certo che la sua voce fosse così, roca appunto, sgraziata e gracchiante, una voce di cartone stropicciato e cardini forzati.
«E tu, piuttosto?» controdomanda Beatrice, mollandogli un calcio sullo stinco che rintocca di campana e strappa ad Alessio un singulto di sorpresa e autentico dolore.
Beatrice si sorprende non tanto del rintocco, quanto del dolore nella voce del fratello. Nei lunghi giorni di silenzio, le pareva che i suoi calci e pizzicotti e spintoni si fossero addolciti; ma era davvero così, o la sensazione dipendeva solo dall’impossibilità di udire il colpo e il suo risultato?
«Scusami» dice Beatrice.
«Eh?» dice Alessio. Più che dirlo lo grida, e il suono echeggia per tutta la stanza, forse anche oltre.
Beatrice mette una mano sulla bocca del fratello, soffocandone ogni protesta.
«Ma che ti strilli, si può sapere?»
Alessio, a cui pare che Strillare sia una parola un po’ forte, si è sorpreso perché mai, mai ricorda di aver ricevuto delle scuse da parte della sorella. E lei ora lo guarda, dietro quella mano che copre la sua bocca e gli fa spuntare sulle labbra e sulla pelle circostante piccolo spilli di condensa simile a rugiada, con un luccichio divertito e spaventato negli occhi, che lui non sa spiegarsi come, ma gli dà una vaga idea di quella condensa invisibile che cresce fra il suo viso e la mano di lei, e mai come ora sa che cosa significhi avere una pelle, a mano che mai avrebbe bisogno di muovere la propria, di mano, a cercare il contatto col proprio corpo, e mai più di ora ha dovuto frenare il desiderio che il suo corpo ha di sollevare il braccio e far trovare alle dita ogni poro della pelle, ogni piega del pigiama.
Beatrice osserva il fratello, il viso bluastro nella penombra notturna, bluastro e dimezzato dietro la maschera che la sua mano gli calca sul viso. Si rende conto che, per un istante, ha smesso di pensare al rumore emesso dal suo corpo. A un certo punto si accorge che la sua mano è sul viso di Alessio da troppo tempo; si accorge che lui non protesta; si accorge dell’umidore tiepido che le puntella il palmo e le dita, e stacca la mano.
Porco, vorrebbe sussurrare, ma non lo fa, e forse è per paura che la sua voce risuoni troppo forte nella notte, e forse no.
Flavio non emette un suono. Oppure sì, pensa Rebecca mentre lo osserva dormire sereno. No, non sta dormendo sereno, sta facendo finta. Come potrebbe essere altrimenti, con tutto questo rumore? Magari il rumore lo sente solo lei, ma è possibile?, visto quant’è forte, forte, forte…
Magari per Flavio non è così tanto forte, ma lui che è tanto sensibile, delicatino come direbbe, non senza ironia, Sandra, come fa a dormire così bene nonostante questo sbalzo? Poi, capisce. Le passa davanti agli occhi l’immagine della scatoletta, bianca e blu quasi fosforescente nella sua mente a dispetto del buio della camera da letto. Prima lo fa alzare tre volte a notte per i bisogni, poi lo rende narcolettico… ma gliel’ha prescritta Soleri, quella roba? Ma che razza di medico!
E a questo punto, quasi tutto ciò che è accaduto non fosse colpa di Flavio, il rancore di Rebecca svanisce. Vuole abbracciare il marito, vuole stargli vicino… ma appena lei si muove fra le coperte, lui mugugna:
«Potresti muoverti un po’ più forte? Così mi svegli del tutto».
Al che Rebecca si alza ed esce, sbattendo la porta e godendosi l’imprecazione di Flavio che, ricorda solo ora, è l’uomo che l’ha prima privata della parola e ora, quando il silenzio era diventato una sicurezza, l’ha privata pure di quello, lei e tutti gli altri.
Fuori nel corridoio e poi in salotto, quasi si aspetta di trovare tutti. I suoi figli, sua madre, il suocero. Quasi ci spera, come in quelle nottate ormai perdute che, si sorprende, chiama nella propria testa Bei tempi. Il salotto, però, è deserto, e a Rebecca non resta che vagare a vuoto, chiedendosi cosa fare. Poi, vede Anecho.
Il monolito, sopra il televisore, è l’unica cosa a non essere mai mutata in quelle settimane. La causa di tutte le mutazioni è rimasta uguale a sé stessa, e osserva Rebecca col suo occhio nero e immobile. Rebecca ha la tentazione di toccarlo, di giocarci come ha fatto Flavio. Non sa come fare, ma potrebbe divertirsi a giocare. Le sue dita si avvicinano, esitanti come se temesse che l’occhio si apra, che le palpebre si spalanchino dentate e mordaci. Dopo un po’, mentre ogni suo respiro le costa la fatica di non renderlo troppo forte e ovvio, poggia un polpastrello al simulacro del potere di Flavio. Vuole capire come si è sentito suo marito mentre, per gioco e per sfregio, ha esercitato quel potere su di loro.
Non sente niente, è come toccare lo schermo di un televisore spento. Qualunque cosa Rebecca si aspettasse di attivare, rimane inerte. Quindi le viene in mente la valigetta col libretto delle istruzioni. Quello no che non può toccarlo adesso, non mentre Flavio è in casa. Così, mentre si dice che dovrà aspettare, le si apre sul volto un sorriso così simile a quello che aveva Flavio quando giocava con la sua voce, col suo silenzio, con tutto.
«Un’altra».
«Flavio. Flavio. Cosa ti avevo detto l’ultima volta?»
«Un’altra. Assolutamente un’altra».
«L’ultima volta, Flavio ti avevo detto che»
«Un’altra scatoletta. Il mio regno per una scatoletta».
«No e poi no. Guarda il bilancio efficacia/collateralità. Diosanto, non avrei mai dovuto prescriverti questa roba… ti sei visto allo specchio?»
«Una scatoletta, una».
«Sono un fallimento, come medico».
«Ma insomma, ho bisogno di quella scatoletta, sto esplodendo, mi sento morire».
«Una volta mi dicevi che ti sarebbe piaciuto esplodere, ti immaginavi il sollievo».
«Ti rendi conto che se esplodessi davvero, dico, se mi facessi esplodere questa testa che implode, mi avresti sulla coscienza?»
«Non mi piacciono le implicazioni di quello che dici, Flavio».
«Se lo facessi – non dico di volerlo fare, me se lo facessi – credo proprio che lascerei una lettera».
«Flavio».
«Se dovessi fare questa cosa che vorrebbe proprio dire che il dolore è diventato insopportabile e il mio medico non mi ha creduto e non mi ha aiutato, se»
«Flavio, mi preoccupi».
«Anche mia moglie mi ha detto una cosa del genere. E mi ha ammazzato tutte le piante. Siete tutti dei Giuda, siete tutti dei»
«Se non ti do la tua scatoletta – che, renditene conto, vieni a implorare come un tossicodipendente – è perché credo fermamente che»
«Dottore oh dottore, tu quoque?»
«Hai almeno provato a fare qualcosa per la tua condizione, dopo il mio ultimatum?»
«Ma certo! Ho… ho iniziato a visitare uno psicologo».
«Uno psicologo o uno psichiatra?»
«…»
«…»
«chiatra?»
«Come, scusa?»
«…»
«Ok. E come si chiamerebbe questo psichiatra?»
«…»
«Flavio, perché mi prendi in giro?»
A questo punto, Flavio fa qualcosa che nessuno dei due si aspetta. Scoppia a piangere.
Soleri si intenerisce, o forse più che intenerirsi si allarma, e porge a Flavio un pacchetto di fazzoletti. Flavio si illumina per un attimo, poi si rende conto che ciò che Soleri gli sta passando non è la scatoletta di pastiglie – la confezione di fazzoletti è un identico parallelepipedo: identicamente, crudelmente bianco e blu – e piange più forte.
«Su, su» dice Soleri.
«Ma che razza di scherzo, che razza di scherzo».
«Ma che scherzo e scherzo» dice Soleri, che tira fuori un fazzoletto, lo lascia accanto alla testa di Flavio, sobbalzante e gorgogliante sul tavolo, e nasconde il resto del pacchetto. «Lo sai che tra le controindicazioni delle pastiglie ci sono anche dei violenti sbalzi d’umore?»
Flavio si solleva e lo guarda accigliato.
«Ma che razza di roba mi hai dato, Soleri? Ma a che razza di roba mi hai reso dipendente-ee», le ultime parole strascicate in un nuovo attacco di pianto umido.
Soleri non risponde. Gli piace aver ragione sui pazienti e sul loro dolore, ma deve ammettere che stavolta il responsabile del dolore è lui.
«O magari non stai piangendo per gli sbalzi d’umore? Magari stai piangendo perché ti fa proprio tanto tanto male?» tenta vigliaccamente.
Flavio solleva di nuovo la testa. Ha gli occhi rossi e blu e il naso moccolante, e un mezzo sorriso con le punte degli incisivi che spuntano, roditori speranzosi, dalle labbra. La visione è così deprimente che Soleri si rimangia tutta la propria vigliaccheria.
«No, no, che dico. È perché questa roba ti scombussola, che stai piangendo. Non puoi averne più, Flavio. E non guardarmi così, no. Ascolta. Ascolta, ti dico, tappati le lacrime per un attimo e ascolta. Non sono tuo nemico, Flavio. Sono tuo amico, ed è in quanto tale che»
«Con amici così non servono nemici, eh.»
«in quanto tale che non posso darti quelle pastiglie. Non più, mai più. Ti stanno distruggendo».
«I mal di testa mi stanno distruggendo. Perché? Perché il monolito non funziona più?»
«Il monolito? Ah, vuoi dire Anecho».
Soleri ci pensa su.
«È semplice. Ti sei assuefatto. Come ti sei assuefatto alle pastiglie, il silenzio di Anecho non ti basta più. E ti ricordo» Soleri schiocca le dita in faccia a Flavio, che a sentire nominare le pastiglie ha assunto un’aria assente «che le pastiglie sono tue nemiche».
«Allora, seguendo questo ragionamento, anche il monolito è mio nemico?»
«Immagino si possa dire di sì» lo accontenta Soleri. «E se avessi saputo che ti avrebbe fatto quest’effetto, non te l’avrei mai consigliato».
«Ma non è il monolito a farmi quest’effetto» dice Flavio. «Sono loro».
«Loro? Vuoi dire la tua famiglia?» fa Soleri, incredulo. «Rebecca e i ragazzi e»
«Sì. Ci credi che ho meno mal di testa quando sono fuori casa? Al lavoro, che pensavo fosse la causa di»
«Flavio, ma è assurdo. È la tua famiglia».
Flavio scuote la testa, ma smette subito quando il sangue gli sciaborda fra le tempie, nauseandolo.
«Sono fuori controllo. Sono miei nemici».
«Flavio».
«Ma li ho desilenziati, sai? Te lo giuro, Soleri. Dammi le pastiglie».
«Li hai desilenziati».
«Sono stato bravo. Non è servito a nulla, ma sono stato bravo. Scrivi la ricetta, Soleri».
«Flavio. No».
«Uuuuhh».
«Smettila, Flavio. Non hai bisogno delle pastiglie, né di Anecho . Hai bisogno di vedere qualcuno che ti aiuti a risolvere il problema alla radice. Visto che mi sento responsabile – non sono sicuro che dovrei, ma per qualche ragione è così, sarà che sono un buon medico dopotutto – mi occuperò io di trovartene uno. Ora, tu promettimi che… Flavio? Flavio!»
Soleri non riesce a farsi promettere un nel niente, perché Flavio è già uscito dallo studio, tenendosi la testa come se potesse staccarsi dal collo e sfracellarsi a terra, o come se volesse staccarsela e sfracellarla al suolo di propria mano.
Flavio deve tornare a casa. Sa di doverlo fare mentre la testa gli sussurra ogni singola crepa che gli si sta aprendo sulle tempie, a partire da quella sinistra, familiare ipocentro il cui sisma si espande ondulante e frastagliato sulla fronte, fino a raggiungere l’altra tempia, che rintocca al riverbero delle onde e delle crepe; sa che se non torna a casa tutto quel rumore lo ammazzerà. Ora, non ci sono forse stati momenti in cui si è augurato che la sua testa lo ammazzasse? Certamente, ma è stato quando si trattava di un ammazzare figurativo, nulla più. Non ha forse desiderato in più di un’occasione porre fine personalmente al dolore, con la lametta che incide la tempia in modo da farla sfiatare come un termosifone? Assolutamente sì, ma per gioco!
Il fatto è che adesso Flavio è certo che tutto quel rumore che gli entra in testa lo ammazzerà, e che tanto il rumore quanto la sua testa hanno diversi modi di farlo. Potrebbe fermarglisi il cuore, ad esempio – non è così improbabile che il suo corpo non regga alla pressione di tutto il mondo che sembra essersi messo d’accordo per suonargli una fanfara infernale, miliardi di trombe distorte e stridenti, nelle orecchie. Oppure, quella macina che sente spremergli il cranio potrebbe costringerlo a chiudere gli occhi, cosa alquanto pericolosa quando si guida. Oppure, oppure…
Così, tornare a casa – sempre che ci arrivi – dovrebbe essere la più logica fonte di sollievo. Ma non è così. A casa, lo aspettano loro, e loro sono addirittura peggiori di tutto il resto del mondo che gli stride e farnetica fanfare nelle orecchie. Loro, che ha voluto tenere al massimo volume in seguito a una decisione punitiva che, a ben vedere, lo sta portando agli antipodi di qualunque risultato positivo avesse sperato di ottenere installando il monolito.
A un certo punto, Flavio sente un pensiero lucido farsi strada nella sua testa, con la fatica di chi arranca in una folla. È forse il primo pensiero lucido che lo visita da – da quanto?, non lo sa neanche lui! – e sarebbe un peccato perderselo.
Così Flavio accosta, posteggia, spegne l’auto. Fa caldo, in macchina, l’aria è poca, ma non è proprio il caso di far entrare il mondo dal finestrino. Con la testa annebbiata dal fiato che si autorespira e autoricicla, Flavio cerca di aiutare il pensiero a prendere posto lì dove lui potrà ascoltarlo come merita.
Il pensiero è tanto semplice quanto assurdo. Fare pace con la sua famiglia. Ristabilire l’equilibrio che aveva cercato di creare quando aveva portato il monolito a casa, usandolo solo per regolare il rumore in eccesso e avere pace. Certo, quell’equilibrio non era stato davvero democratico – suo padre ne aveva risentito – ma bisogna pure scendere a compromessi. Avrebbe riportato tutti sullo stesso piano, il monolito non avrebbe più dovuto essere uno strumento di controllo, ma di armonia.
Ecco, forse non si sarebbe proprio scusato, non credeva davvero di doverlo fare con quella manica di pazzi che gli avevano avvelenato la passione di cucinare, che gli avevano ammazzato le piante e tolto la voglia di arricchirsi imparando una lingua nuova, che gli avevano ri-causato quei mal di testa che gli avevano pure tolto il piacere dell’innocente vizio del fumo. Scusarsi, proprio no. Ecco, se l’immagina così, la scena. Tornerà a casa quieto, con un sorriso che gli costerà lo sforzo di ogni fibra del volto a dispetto del dolore, e pure loro capiranno quanto gli costi sorridere. Sorridendo e soffrendo e facendosi capire, andrà dal monolito e cambierà le impostazioni. E loro gli saranno grati. E saranno felici. E lo sarà anche lui, e i mal di testa torneranno a un livello sopportabile, e se non lo faranno lui tornerà da Soleri, giurandogli di aver fatto tutto il possibile, che gli dia la ricetta, senza scuse – previa promessa che non ne abuserà, cosa della quale del resto non avrà bisogno.
Ecco, già pensare in questo modo, già trovare nel pensiero non più un mare in tempesta ma una rotta navigabile, lo fa stare un pochino meglio. Il dolore è appena più quieto, e sta a vedere che Soleri aveva ragione – magari non del tutto, magari ha un pochino semplificato tutta la questione, ma almeno un po’ aveva ragione – a dire che il problema era psicosomatico. Magari aveva ragione, se non altro, a dire o implicare che il problema è risolvibile, cosa a cui Flavio ha smesso di credere da un po’.
Flavio riparte, casa è vicina, e contrariamente a pochi minuti fa non vede l’ora di arrivarci, togliersi il peso che lo opprime, risolvere il problema, ricominciare.
Succede quando parcheggia l’auto, succede quando smonta e annusa con naso e orecchie la quiete della collina lontana dalla città e dal traffico e dall’ufficio e da Soleri, lontana dal suono fino a poco fa desiderato della scatoletta bianca e blu scartata e ingollata, e si aspetta già una prima boccata di pacificante ristoro; succede che qualcosa non va.
Tutte le volte che è tornato a casa dopo l’arrivo del monolito, ha avuto l’impressione che avrebbe potuto riconoscere casa a occhi chiusi, sentendo il non-suono della casa, la spugna sonora della scatola d’uova che iniziava ad attutire i rumori esterni ancor prima d’entrarci. Come un pipistrello i cui ultrasuoni riverberano in soccorso agli occhi ciechi, disegnando nel buio i contorni e i volumi di oggetti, prede e predatori. Stavolta è diverso. La casa è diversa, ciò che i sonar di Flavio captano è alieno. E Flavio rimane appeso alla portiera dell’auto, intontito come ubriaco, cercando di capire cosa sia quella scatola aliena che gli si para di fronte, quella grancassa rimbombante fra gli alberi. La porta vetrata che dà sul balcone è aperta, e dall’apertura sgorga musica come sangue da una ferita.
Flavio si precipita all’ingresso, ogni bel pensiero cancellato dalla confusione, da paure indistinte che si traducono, per quanto lui le dica infondate – ma come fanno a essere infondate, se il risultato dell’evidente manomissione gli si infrange nelle orecchie in quel momento? (ma d’altro canto, com’è possibile che una manomissione sia avvenuta, se lui è l’unico, l’unico…) – nella sua furia di entrare a vedere che succede.
E li trova tutti in salotto. Il salotto dove hanno saccheggiato il suo cibo, annegato le sue piante, ammazzato la sua voglia di essere migliore, sabotato i suoi tentativi di avere il controllo su una vita che, guasta nel pannello di controllo che è la testa, Flavio sente fuori dalla propria portata giorno dopo giorno. Stanno ballando e berciando, starnutendo e prendendosi a calci e pizzicotti, raccontandosi barzellette e, a volte uno e a volte l’altra, imitando pose ridicole di qualcuno che si tiene la testa fra le mani come sé quella testa dovesse cascare da un momento all’altro, o come se il proprietario di mani e testa stesse cercando di staccarla come si strappa una rapa dalla terra.
«Cosa sta succedendo?» urla Flavio, cercando di farsi valere sul rumore. «Cosa sta – oddio…»
Urlare ha riacceso il dolore fra le sue tempie, che si alternano pulsazioni quasi stessero giocando a tennis col suo sangue.
«Non si riesce a capire nulla… ma siete impazziti? Ma vi volete calmare?»
Alessio e Beatrice si stanno rincorrendo per il salotto in preda a scalmane più adatte a mocciosi che a ragazzi della loro età. Flavio cerca di afferrarli, ma loro evitano facilmente le sue goffe e lente mani.
«Ma cosa state facendo» mormora Flavio. Cerca il monolito. Lo immagina distrutto, solo così possono essersi sbarazzati delle impostazioni, ma il monolito è lì. Flavio vi si avvicina. Che sia staccato, scarico, che i filtri siano stati rimossi o manomessi? No, sembra tutto a posto.
«Ma come avete fatto?» sussurra.
«Ma come avete fatto!» grida poi, ignorando il dolore che il grido gli accende e che un altro grido, di dolore, richiama. «Oh, adesso basta».
Flavio si mette a trafficare con il monolito, ma si accorge ne presto che qualcosa non funziona: la superficie che era abituato a sapere responsiva ai suoi tocchi, un’estensione dei suoi polpastrelli e dei suoi pensieri, rimane fredda ed ermetica come un guscio d’uovo. Allora è davvero spento?, si chiede Flavio. No, riconosce le vibrazioni elettriche che corrono sotto il guscio, gli pare proprio che
«Ma volete star zitti un attimo?» sbraita, pur sapendo che nessuno lo ascolterà.
Il monolito è attivo come del resto già sapeva, ma allora come?
Si volta, cercando fra i presenti il colpevole di quel gesto che ancora non comprende. Fra tutti gli sguardi che, volenti o nolenti, lo evitano – Alessio e Beatrice sono ancora presi da quel loro gioco spastico, Guido sta aiutando Sandra che pare in preda a uno dei suoi attacchi – solo Rebecca risponde al richiamo dei suoi occhi. E sorride, e lo sfida.
«Cos’hai fatto?» strilla Flavio avvicinandosi alla moglie. «Cos’hai combinato? Ma non senti che disastro, forza, qualunque cosa tu abbia»
Rebecca apre la bocca, e dalla bocca esce una voce riverberata in mille caverne che atterrisce le orecchie ipersensibili, ultrasoniche di Flavio.
«COME DICI, FLAVIO? NON TI SENTO».
Annichilito, manca poco che Flavio cada. Prova a parlare, ma la voce non gli esce. La voce non gli esce! Si porta le mani alla gola, quasi volesse esser certo che ci sia ancora, una gola, fra il mento e il petto. La voce non gli esce! O magari è solo che non riesce a sentirla, in mezzo a tutto quel casino… no, no, i polmoni spolmonano e le corde vocali vibrano, ma la voce proprio non esce.
«Ma come hai fatto?» domanda Flavio, per la prima volta, in silenzio. «Come hai fatto?»
I ragazzi sono rimasti a scuola. Rebecca ha concesso loro questa straordinaria assenza per celebrare tutti assieme la loro imminente vittoria contro Flavio. Quando questi è uscito per andare a lavoro, Rebecca è andata al balcone, guardando l’auto che si allontanava col pretesto di accertarsi che lui fosse ben lontano mentre lei, mentre loro tutti mettevano a punto il loro piano; la verità, però, è che Rebecca voleva concedersi il diritto di cambiare idea, di provare pena nel guardare Flavio che si addentrava da solo, coi suoi dolori, nel mondo grande e rumoroso e doloroso e rinunciare al piano. Ma mentre l’auto spariva alla vista, trascinandosi dietro il borbottio del motore e il macinio di ghiaia e asfalto sotto le ruote, lei non me provava punto, di pena, e la sua idea non vacillava.
Ora sono tutti in salotto, e la guardano come guardavano Flavio quando questi aveva fatto entrare in casa Anecho, il monolito, l’aggeggio infernale, e imparava a usarlo e dominarlo, e con esso le loro vite.
Rebecca ha già recuperato la valigetta che, nera e minacciosa, li osserva dal centro del tavolo, simile a un occhio gemello a quello che è il monolito. Quando apre la valigetta, Rebecca si aspetta che essa opponga una qualche resistenza, ermetica come il monolito è stato inaccessibile al suo tocco. Ma la valigetta è una valigetta e basta, e basta uno scatto della piccola serratura. Lo scatto, però, è una bomba sotto le dita amplificate di Rebecca, e tutti trasalgono al rumore. Cercando di fare più attenzione possibile, Rebecca estrae il manuale d’istruzioni – la carta gracchia e scroscia, spingendoli tutti a portarsi le mani alle orecchie (perfino Guido fa una smorfia di fronte al rumore tanto forte) – al punto che Rebecca deve lasciare la presa sulla carta che, distante dal suo tocco, diventa di nuovo silenziosa.
«Mamma, sbrigati» la implora Beatrice, cercando invano di sussurrare.
«Sarà come scartare una caramella» la avverte Rebecca. «Bisogna farlo tutto di scatto, per cui fa un bel casino giusto per un momento e poi è tutto finito. Siete pronti?»
Annuiscono tutti, e Rebecca inizia a sfogliare. L’effetto-caramella purtroppo non è istantaneo come Rebecca voleva far credere, perché bisogna cercare la pagina giusta, e ciò richiede tempo.
«Forse capisco un po’ come si sentiva tuo marito» dice S’andrà a Rebecca. «Il rumore dà davvero il mal di testa».
«Ma lui mica sentiva più rumore di tutti gli altri» dice Guido. «E mal di testa o no, non c’è giustificazione per come si è comportato».
Rebecca è sotto-sotto grata per le parole del suocero, che le tolgono ogni dubbio su ciò che va fatto e sulla necessità di farlo. Posa una mano su quella di Sandra – pelle giovane e vecchia sfrigolano toccandosi – e riprende la ricerca.
«Resistete ancora un po’. Vedo di sbrigarmi».
«Fai ciò che devi, tesoro» dice Sandra. «Fai ciò che-ee»
Le ultime parole si allungano e slabbrano, annunciando un accesso di starnuti. Sandra capisce che deve andarsene ora, che non si tratta più di sopportare quel che sopportano gli altri, ma di evitar loro qualcos’altro da sopportare. Guido fa per trattenerla, ma Rebecca afferra di nuovo, per prima, il polso della madre.
«Resta qui. Non ci vorrà molto».
Si potrebbe pensare che Rebecca abbia agito in questo modo perché gli starnuti di Sandra copriranno il rumore delle pagine, e con esse il disagio di Rebecca. Ma forse non è così. Forse Rebecca ha trattenuto la madre per non abbandonarla, un’altra volta, a una difficoltà che ritiene giusto condividere.
Così iniziano dei lunghi minuti di gran frastuono. All’inizio sono solenni, ma poi tutti iniziano a scherzare. Rebecca accusa la madre di averle fatto perdere il segno, soffiando un uragano sulle pagine con i suoi starnuti, e Sandra la implora di non farla ridere, ché è già abbastanza difficile così.
«D’accordo» dice infine Rebecca. «D’accordo, ci siamo. Ci siamo».
Tutti la guardano in silenzio.
«Vogliamo provare?» domanda Rebecca. La domanda non è del tutto retorica.
Nel silenzio che segue, con un occhio sempre sul manuale, Rebecca punta il telecomando contro il monolito, che cerca di assoggettare alla propria volontà.
«Smettila, Rebecca! Sme»
Flavio sente la propria voce sparire un’altra volta, quando la moglie lo ammutolisce nuovamente dopo che lui, aggrappato ad Anecho come un naufrago a una boa, cercava di sistemare le cose.
Flavio non sa più cosa fare. Il volume delle voci, dei passi, dei vestiti fruscianti, addosso a lui e addosso agli altri, è in preda a un’epilessia collettiva che lui non può gestire. Ogni volta che Rebecca combina qualcosa con quel telecomando della cui esistenza chissà come si è ricordata, lui deve cercare di riparare al danno, con lo svantaggio di dover stare lì, addosso ad Anecho, mente la moglie a un certo punto si è pure stravaccata sul divano, dal quale continua a fare il diavolo a quattro con suoni e rumori, mentre chiude gli occhi e medita e fa tutte quelle cose assurde che le competono.
«Mamma, potresti abbassare un po’ il volume di papà?» chiedono Alessio e Beatrice dalla loro camera. «Stiamo cercando di studiare».
«Ma certo, tesori, ma certo». Risponde lei.
«Flavio» dice poi. «Ti dai una regolata da solo, o ti regolo io?»
Flavio ulula, e Rebecca sbuffa mentre preme pigra un pollice sul telecomando. Flavio guarda verso il divano, dove Sandra ha ripreso a starnutire. In silenzio, perché si sente più a suo agio, dice. Tanto c’è Guido lì con lei, che le fa tutte quelle moine mentre si prende cura di lei, labile scusa ai sentimenti che, Flavio ne è certo, il vecchio prova per la vecchia, e lui mica se n’era mai accorto!, ché tutte queste cose le facevano di nascosto prima, in camera di Sandra, e guardali ora invece, e che senso, ma si può vedere un’indecenza del genere, si può vedere il proprio padre che fa la crocerossina cascamorto?, e invano Flavio cerca aiuto lì, non ne avrà e sa di non meritarselo, o meglio sa che loro credono che lui non se lo meriti. Ma a un certo punto gli starnuti di Sandra peggiorano, seguono quegli ansiti che fanno tanto più impressione quando sono silenziosi e uno può guardare quelle smorfie senza volume; Rebecca se ne accorge e si avvicina alla madre, così Flavio crede che sia il momento giusto per sottrarle il telecomando, ma lei si accorge pure di questo e alza il volume dei passi del marito, e i passi gli rimbombano nelle orecchie, troppo forti per il mal di testa che è tornato più intenso che mai e che gli lancina prima una tempia e poi l’altra.
Così Flavio ulula di nuovo, ma Rebecca deve aver previsto la sua reazione, perché lo silenzia in tempo e l’ululato esce muto. Sconfitto, Flavio si accascia, aggrappandosi ancora al monolito, e rimane lì, senza quasi la forza di tenere gli occhi aperti, senza quasi la forza di chiuderli perché la pressione delle palpebre gli accende nuove fitte roventi attorno alle tempie, lungo la fronte che gli pare coronata di ferro; e non gli rimane che ritirarsi, correre in camera, gettarsi sul letto le cui lenzuola si fanno presto troppo calde per lenire il suo dolore, e poi fredde per via del suo sudore che vi cola attraverso, che è un freddo che non porta beneficio.
Alessio e Beatrice studiano. Seduti alle rispettive scrivanie, si danno le spalle. Il volume nella cameretta è normale, o quantomeno è tornato, grazie a Rebecca, agli standard di normalità precedenti alla follia di Flavio: suoni attutiti da acquario, pagine che sfogliano quiete, respiri che non attraversano tutto lo spazio della stanza, svanendo come vapore sottile a pochi passi da chi li emette.
Ogni tanto, Alessio si volta verso Beatrice, la quale pare non voltarsi mai verso di lui. Alessio è convinto che, quando lui non guarda, lei si volti, ma non può saperlo davvero. Non si sono scambiati quasi una parola da quando si sono messi a studiare, nessuno dei due ha parlato dopo aver chiesto a Rebecca, in sincronia, di far tacere Flavio. In quel momento si sono guardati, hanno sorriso, ma distanti, quasi per reciproca cortesia, e si sono rimessi a studiare.
Sulla sua sedia, Beatrice respira piano. Teme a tratti che il fratello si volti a guardarla, a tratti sente che è così, e respirare le viene difficile, le viene da nascondere il movimento che il respiro solleva nel suo petto. A un certo punto, si alza ed esce.
Alessio guarda la sorella che esce dalla loro stanza con i libri sottobraccio. Non sa bene cosa pensare. Chissà cosa le sta capitando, si chiede. Ma in fondo, non ha bisogno di chiederselo, non ha bisogno di interrogarsi sulla distanza fredda e dolorosa come un’anestesia mal riuscita che si crea fra due persone quando la forza che le ha unite diventa debole.
Lungo il corridoio, Beatrice trova semiaperta la porta della stanza di Sandra – la stanza che era stata sua, pensa – e non può fare a meno di dare un’occhiata. Dentro non c’è nessuno. Non sarebbe la prima volta che, sbirciando nello spiraglio, vede i nonni che si fanno mille smancerie, con la scusa che una sta male e l’altro le vuole stare accanto. Visto che non ci sono, pensa, e visto che lei ha bisogno di un posto tranquillo, potrebbe approfittarne e impossessarsi di nuovo, anche solo per poco, della sua stanza. Ma appena entra, appena si siede sul letto, scopre che quel letto non è suo. Scopre che la stanza non è sua, si scopre intrusa in uno spazio che non obbedisce alle sue regole, ma alle cui regole lei dovrebbe obbedire, come fanno gli ospiti, anzi già si immagina a dover giustificare la propria presenza lì – al solo pensiero le viene il fiato grosso e deve controllare il petto che si alza e si abbassa – e andarsene vergognosa.
Alessio trova Beatrice ferma in mezzo al corridoio, ritta e verticale ma come in bilico, gli pare in qualche modo inspiegabile, fra il corridoio e la stanza della nonna, quasi anziché in piedi Beatrice fosse appesa e minacciasse di cadere nella stanza, non più davanti a lei, ma sotto.
Non fa in tempo a raggiungerla che lei si allontana, diretta verso il salotto. Alessio la spia mentre lei esce sul balcone e lì rimane, libri e tutto, concentrata sotto il sole che abbacina la sua pelle troppo pallida per tutto il tempo che ha passato dentro, nascondendosi alla luce quanto si era nascosta, finché era stato possibile, al rumore, e sotto il sole quei respiri che lei aveva tanto temuto la esponessero nell’apertura del petto e delle spalle che lei credeva troppo evidenti nella stanza che condivideva con lui, lui che chiamava Porco porco – e che nostalgia quelle parole offensive dette ora con cattiveria, ora con affetto! – quei respiri insomma, ora sono liberi, quasi che il sole li pulisse come pulisce la pelle come pulisce una coperta rimasta al chiuso troppo a lungo, esposta ora alla luce e al vento, pronta a tornare dentro linda e profumata, quasi diversa, quasi nuova.
Alessio invidia il sole e il vento a cui Beatrice si espone, vorrebbe uscire e averne la sua parte, ma sa che il tempo della condivisione è finito. Faranno a turni, ora, e lui deve aspettare. Si sente stranamente fermo, come un orologio con le lancette bloccate. Si rende conto che la sua mano non cerca il familiare contatto con l’estranea pelle e l’alieno tessuto; se volesse riprendere quel vizio che tanto gli ha tenuto compagnia e l’ha aiutato a conoscersi tenendo traccia di sé, dovrebbe forzare il movimento. Ma non avrebbe senso.
Alla fine si fa coraggio, ed esce anche lui sul balcone. Beatrice lo guarda e sorride, di nuovo con cortesia, di nuovo con distanza. Poi abbassa lo sguardo sul libro. Non lo rialzerà più per tutto il pomeriggio.
«Non potere smetterla?» implora Flavio. «Non possiamo tornare dentro?»
Nessuno risponde. Qualcuno mastica addirittura compi maggiore impegno, qualcuno scava col coltello stridente sul piatto senza alcun bisogno di farlo. Flavio geme. Tra le colline, il vento soffia, sfoglia gli alberi come un lettore frenetico, e il vento arriva, frastornante e odoroso, sul terrazzo, fra i capelli di Flavio, nei padiglioni auricolari, dove turbina e romba come uno sciacquone.
«Ti devi disintossicare, Flavio» dice Soleri. «Credo sia la cosa migliore. Hai contattato lo specialista?»
«Che specialista?» vuole sapere Rebecca.
«Vedi, Rebecca, credo che i problemi di tuo marito – è una cosa di cui abbiamo discusso, le ultime volte che ci siamo visti, non te l’ha detto? – dipendano in gran parte da»
Rebecca ascolta con interesse la spiegazione del medico. Ciò che questi racconta non la sorprende più di tanto, né tantomeno la sconvolge. Si può dire che non la interessi, punto.
Ha avuto lei l’idea di invitare Soleri a cena. Non perché il medico potesse dare un’occhiata alle condizioni di Flavio, ma per rimediare all’ultima volta in cui l’uomo è stato loro ospite a cena e – in qualche modo – per punire Flavio. Allo stesso modo, ha avuto l’idea di portare la cena sul balcone. Farà bene ai ragazzi, a Guido e Sandra. Anche se lì fuori non serve, Rebecca tiene il telecomando a portata di mano, in bella vista. Ogni tanto, Soleri guarda l’oggetto con preoccupazione, e ciò le dà piacere; non quanto le dà piacere sa gli occhi di Flavio – che lei si ostina a non guardare – puntati sul telecomando, come si sanno gli occhi di un cane che spia ingordo una portata di carne a cui non avrà accesso.
«Uno specialista, eh?» mormora Rebecca. Si concede un unico istante di preoccupazione nei confronti del marito, ma lo scaccia con uno sbuffo. Durante la cena, Soleri ha usato almeno quattro volte la parola Psicosomatico, e lei è d’accordo. Nessuna premura eccezionale per Flavio: conviverà con questo volume, e se non riuscirà a conviverci, forse sarà finalmente il momento buono in cui, da persona matura, ammetterà di aver bisogno d’aiuto e si rivolgerà allo specialista di cui parla Soleri. Rebecca sa di avere il potere di costringere Flavio a farlo, ma il potere di non doverlo costringere, di lasciare che il marito prenda le sue decisioni e paghi in ogni momento il prezzo di quelle sbagliate, le pare molto più interessante. Potrebbe incanalare le sue energie, Rebecca, verso il marito, e vedere se magari adesso che lui è così disperato da darle ascolto senza alcuna barriera di scetticismo, il reiki funzionerà. Potrebbe farlo, ma si dice che aspetterà ancora un po’.
La cena procede tutto sommato liscia. A un certo punto, ovviamente, Sandra inizia a starnutire. La crisi è particolarmente tenace, e la donna guarda con insistenza Rebecca e la porta che conduce al salotto e al silenzio. Anche Flavio, che ha l’aria di uno straccio, uno straccio bagnato visto il sudore che gli imperla la fronte e le lacrime che gli colano dagli occhi arrossati, simili agli occhi di uno di quei cani dal muso pendente e floscio, guarda Rebecca con identica implorazione.
«Abbi pazienza, mamma. Passerà. Dopo ti faccio una seduta».
«Seduta?» si informa Soleri. «Parli del tuo… reiki?»
«Immagino che a un medico una cosa simile sembri un mucchio di» si schernisce Rebecca.
«No, no» la rassicura Soleri. «Non posso dire di crederci, ma gli effetti-placebo sono un campo della medicina su cui c’è ancora molto da imparare. Anche Anecho» Soleri indica il monolito «si può definire tale, no? Era un po’ quella, l’idea con cui ve l’ho consigliato. Anche se più che placebo, si è rivelato dannoso, mi pare. Anche per quello c’è un nome. Effetto nocebo».
«Non incolparti» geme Flavio, con un dolore che quasi nasconde il sarcasmo della sua voce.
«Davvero» dice Rebecca. «Il problema è l’uso che se ne fa» e lancia a Flavio un’occhiata significativa.
«Rebecca, tesoro» dice Sandra.
«Sono sicura che a Soleri non dai fastidio. Vero, dottore?»
Il medico rassicura madre e figlia che, ci mancherebbe, altro che fastidio. Solo, è preoccupato per le condizioni di Sandra.
«Lei non è una mia paziente, Sandra, ma mi piacerebbe sapere che cure le sono state prescritte per il suo disturbo».
Appena Sandra si riprende un po’, elenca cure e prescrizioni. Soleri annuisce pensieroso, quindi rimane in silenzio nell’aria ventosa e fresca fuori dal salotto, che po ho metri più in là già assorbe i suoni esterni, così simile a una qualche sala–prove coperta di spugna, o coperta magari di qualcosa di ancor più rudimentale, tipo scatole d’uova. «Vi ho mai parlato» dice infine «di un impianto purificante di recente invenzione? Il funzionamento è molto affascinante. A partire da un apparecchio centrale che monitora il livello di batteri nell’aria, l’impianto regola, tramite una serie di filtri…»
Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?
autori cefalea emicrania famiglie disfunzionali Fogliettòn Le Corbusier letteratura Nicola De Zorzi racconti di famiglia racconti di fantascienza scatola d'uova sordità